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FocusProfili“Disegnare l’ammaliamento”. Intervista a Vanna Vinci

“Disegnare l’ammaliamento”. Intervista a Vanna Vinci

Abbiamo intervistato Vanna Vinci in occasione della recente uscita in libreria (10 ottobre) del suo Il richiamo di Alma, graphic novel tratto dal romanzo di Stelio Mattioni e pubblicato da Bao Publishing. Nei prossimi giorni Vanna Vinci promuoverà Il richiamo di Alma a Lucca Comics & Games. La troverete allo stand di Bao Publishing a realizzare dédicaces sul proprio volume da giovedì a domenica.

Richiamo di alma copertina vanna vinci bao publishing

Come se venuta a conoscenza del romanzo di Stelio Mattioni?

Sono andata a Trieste invitata da Dario e Mariuccia Fontana che all’epoca avevano la libreria “Non solo libri” in Piazzetta Barbacan, libreria che poi ha chiuso. Insieme a Mariuccia e Dario ho conosciuto Alessandro Mezzena Lona, giornalista de Il Piccolo. Tutte persone con cui sono diventata amica e ho mantenuto ottimi rapporti. Proprio mentre stavo scrivendo Aida al confine, e mentre stavo facendo le ricerche in loco per quel fumetto, Alessandro, che mi ha portato in molti luoghi poi usati per la documentazione, mi ha detto che avrei assolutamente dovuto leggere un certo romanzo di uno scrittore triestino, che sarebbe stato perfetto disegnato da me.

Aida al confine è uscito in volume nel 2003, e su Mondo Naif a episodi ancora prima… Quindi l’idea di trasformare il romanzo di Mattioni in un fumetto c’è da un sacco di tempo, il problema era trovare una possibilità reale per farlo, visto che non era un’operazione semplicissima.

Qual è stata la tua esperienza di lettrice del romanzo? Che effetto ti ha fatto, che sensazioni ti ha suscitato?

A me il romanzo è piaciuto subito. Io sono un’appassionata di Trieste, e il romanzo è molto “triestino”. La reale protagonista secondo me è la città, prima di Alma, e prima dell’effettivo protagonista. Mi è piaciuto subito perché ci sono i riferimenti precisi alle strade, ai palazzi, a parti che in realtà adesso sono molto cambiate, e allo stesso tempo mi piaceva l’idea di questo personaggio maschile che vagava in modo assolutamente casuale, senza meta, svagatissimo, e della protagonista femminile di cui non si capisce l’essenza, cosa sia… Il mistero è proprio quello, non si sa se sia una persona che esiste, o un fantasma, una specie di spirito… Quindi di sicuro c’erano tutta una serie di elementi che mi hanno colpito moltissimo, compresa la fine, che ritengo una delle più commoventi in assoluto, rispetto ai libri che ho letto. E poi, in definitiva, proprio il fatto che la città, Trieste, fosse indagata, diventando la vera protagonista.

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Nel voler trarre un fumetto dal romanzo, cosa hai cercato di ricreare della tua esperienza da lettrice?

Questa specie di incantesimo. Il fatto che rispondere al richiamo di Alma è come dire che a un certo punto tu fossi perso ma ti stessi anche ritrovando: il protagonista è completamente perso, non studia, non fa niente,  non torna a casa, gira senza nessun motivo, se non dei motivi che si dà lui senza che glieli abbia dati lei, ma d’altra parte si sta ritrovando, sta scoprendo una parte di sé che non sapeva neppure di avere. E poi proprio l’incantesimo che c’è nella città di Trieste, che io sento ma che è molto difficile da spiegare. Se uno non c’è mai stato, o non gli piace, è molto difficile da capire. Il fatto poi che sia un posto di confine è forse altrettanto difficile da spiegare.

Credi di essere riuscita a trasportare questo incantesimo nel fumetto?

Devo dire che sono soddisfatta di essere riuscita a portarlo a termine. Che sia riuscita a trasmettere la magia del romanzo di Mattioni, non lo so. È molto difficile per me dirlo, perché non posso essere lucida e distaccata nei confronti del lavoro che ho fatto, e allo stesso tempo nei confronti del libro da cui è tratto, perché continuo a guardarlo con gli occhi dell’amore.

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Comunque un buon risultato per un adattamento potrebbe già essere quello di spingere il lettore a voler leggere anche “l’originale”.

Esatto, e poi riuscire magari a trasmettere “l’ammaliamento” a qualcuno che non leggerebbe mai letto il libro o a cui non importa nulla di Trieste.

Qual è la storia editoriale de Il richiamo di Alma? Inizialmente è stato pubblicato sul quotidiano Il Piccolo, bisettimanalmente, a tutta pagina, nel formato del giornale. Ma come sei arrivata a questo genere di pubblicazione, abbastanza originale per un fumetto?

Inizialmente avevo già preso contatti con Chiara Mattioni, la figlia di Stelio. Ho cercato anche di proporre il libro a editori francesi, ma era una situazione difficile, perché se può essere già complesso per un italiano comprendere un fumetto dedicato a una città, figuriamoci per uno straniero, che comunque non ha neppure la possibilità di leggere il romanzo da cui è tratto. E infatti la cosa non è andata a buon fine. A un certo punto Alessandro, che è il motore di tutto, mi ha chiamato per dirmi che c’era la possibilità di farlo dentro a Il Piccolo, d’estate, quando cambia in parte la foliazione del quotidiano, e che c’erano a disposizione ventisei pagine. Io gliene ho chieste ventotto, che era un numero di tavole in cui l’adattamento del libro era fattibile: stringendo molto, tagliando delle scene, tra cui purtroppo molto sogni a occhi aperti fatti dal protagonista. Ho cominciato a lavorare abbastanza a ridosso dell’inizio della pubblicazione, intorno a giugno, disegnandolo man mano, tenendo conto che sarebbero uscite due pagine alla settimana, il venerdì e la domenica. Un paio di pagine sono state rimandate, in concomitanza con eventi particolari o imprevisti, come la morte di Margherità Hack, ma in sostanza quell’estate non sono andata in vacanza per portarlo a termine. Nel momento in cui realizzavo i disegni avevo comunque le scalette delle tavole già fatte, e i testi già tagliati e selezionati, e divisi tra dialoghi e didascalie.

il richiamo di alma vanna vinci

Quando penso all’adattamento di un romanzo a fumetti, mi viene sempre in mente una delle operazioni meglio riuscite in tal senso, cioè Città di vetro di Paul Auster, adattato da Paul Karasik e David Mazzucchelli. Gli autori, per la versione a fumetti, hanno adottato un criterio scientifico, basato su un puro calcolo matematico, per la suddivisione dei capitoli e delle scene in relative tavole disegnate. Mi chiedevo se anche tu avessi adottato un criterio simile, o se invece ti fossi basata di più su un aspetto emotivo e personale per la selezione delle scene da mettere e quelle da togliere.

In realtà sono riuscita a riportare praticamente tutto il libro, che non è molto lungo, rispetto a esempio a Città di vetro, che è più corposo sia come numero di pagine che come tipologia di narrazione. Il libro di Mattioni è abbastanza semplice: mi sono resa conto che in ogni capitolo c’è una scena cardine, quindi ho essenzialmente seguito, capitolo per capitolo, le scene fondamentali. Ci sono poi anche una serie di altre scene a corollario, come i sogni del protagonista, che hanno una forte valenza psicanalitica. Alcune di queste purtroppo sono saltate. Dovevo fare una scelta, quindi alcune sono state incluse, mentre altre no, come quella in cui, in una dimensione quasi lisergica, un vaso prende vita e diventa una sorta di oggetto sessuale. Certe scene, come questa, nel momento in cui andavano rese visivamente, sarebbero state parecchio discordanti rispetto al tono del resto dell’opera, risultando farsesche.

Qual è la cosa più difficile, quando si adatta un’opera per un altro linguaggio?

Il problema non è mantenere la storia. La storia, di per sé, è irrilevante. Qualsiasi storia, se riassunta esclusivamente negli eventi che accadono, è una cosa “neutra”. Di fatto sono le parole. Nel caso di un libro come quello di Mattioni è tutto nelle parole scelte e usate dall’autore. Bisognava mantenere il più possibile la lingua dello scrittore, e, in un linguaggio diverso, il ritmo narrativo con cui portava avanti la storia. Per questo l’uso abbondante di didascalie, che riprendono i brani del libro, e rallentano la velocità con cui si fruiscono le sequenze di immagini. Se avessi realizzato il fumetto tutto attraverso immagini e dialoghi, in presa diretta, sarebbe stata un’operazione un po’ sterile.

il richiamo di alma vanna vinci bao publishing

Infatti mi stavo proprio chiedendo se da disegnatrice non ti avesse pesato dover far ricorso a un così alto numero di didascalie, che hanno un peso e un ingombro anche visivo.

È stata una decisione presa all’inizio, sono contenta di averla presa e credo che sia la decisione giusta. Le didascalie, come i balloon, facevano parte già dai tempi della progettazione del tessuto della tavola.

Spostando l’attenzione su un discorso più generale, in tutta la tua produzione i luoghi rivestono un ruolo importante, non sono semplici sfondi su cui agiscono i personaggi, ma diventano personaggi essi stessi, integrandosi nella narrazione. Ha un’origine particolare questa tua passione per i luoghi? E per Trieste in particolare?

Io sono cresciuta in città, e mi piace la città. Mi piace anche la campagna, ma sono essenzialmente legata al paesaggio urbano. Mi piace l’idea del paesaggio creato dall’uomo, anche quando è fatto male, o distrutto, ricostruito. Le città sono piene di gente, e quindi di storie, piene di “materiali” stratificati, di case con dentro altre persone,  cioè di contenuti che uno potrebbe  non vedere o scoprire mai. E poi sono dei luoghi, che come certi siti archeologici, hanno una forza propria. In certi casi questa forza è alla portata di tutti, come a esempio Parigi, che ammalia chiunque la viva, in altri, come nel caso di Trieste, ma potrebbe valere anche per Milano, è più difficile coglierla. Io non so spiegare perché mi piaccia Trieste, cosa mi leghi a questo luogo, perché sia un luogo della mia anima, forse sarà una specie di “chimica”. Quando sono arrivata a Trieste la prima volta, proprio per fare quell’incontro alla libreria “Non solo libri”, ero già innamorata della città. Quando ho percorso la strada costiera, ancora prima di Miramare, ho visto questa specie di latte, che era il mare e il cielo, senza soluzione di continuità, con queste navi all’orizzonte che apparivano enormi ma inconsistenti, ed ero già innamorata. Entrata in città ero già in una sorta di stato trascendente. “Aida al confine” l’ho fatto proprio perché sono andata lì, non viceversa. Però ho difficoltà a spiegare questo amore. Di sicuro c’è la vicinanza “familiare” con Cagliari, una città sempre costruita sul mare, con il porto, e una parte della città che cresce in verticale, con le abitazioni costruite sui colli che fanno parte del territorio urbano. Però a parte questo non saprei dare una spiegazione realistica, razionale.

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Siamo in un periodo storico, anzi tecnologico, in cui ogni disegnatore può giovarsi per il proprio lavoro delle migliaia e migliaia di immagini che si trovano su Google, e addirittura navigare le strade e le città con mappe interattive e la funzione “Street view”. Anche tu hai usufruito di questi mezzi, o ti sei basata solo sulle tue visite in città, sulla documentazione da te prodotta in loco e sugli sketch realizzati direttamente lì?

Mi sono recata a Trieste un sacco di volte, e già per “Aida al confine” avevo realizzato una gran quantità di foto. Ai tempi Dario Fontana mi aveva accompagnato in molti posti, e regalato anche dei libri, come “Città vecchia”, un libro che raccoglie le fotografie delle strade che non esistono più. Al contempo, le possibilità offerte da Google e derivati sono qualcosa di pazzesco, si possono ambientare le proprie storie in città complicatissime come Venezia senza esserci mai andati. Per “Il richiamo di Alma” ho usato anche Google Street View, soprattutto come orientamento, perché ti dà il modo di verificare dove sono posizionate le strade le une rispetto alle altre: per esempio alla Scala dei Giganti ci ero stata, anzi era il primo posto in cui Alessandro [Mezzena Lona] mi aveva portato, ma grazie a Street View ho potuto rivederla da più angolazioni, capire esattamente come si sviluppava e a quali strade si riuniva. Però allo stesso tempo ci sono anche gli esempi contrari, come Via Piranella, una viuzza molto piccola dietro la Cattedrale (che ho disegnato in una scena del fumetto), in cui Street View non può arrivare. Questa e molte altre stradine della parte vecchia di Trieste, come Via delle monache, o Via della bora.

E poi c’è anche il fatto che attraverso questi strumenti si vede il luogo solo nel momento in cui è stato fotografato, ed è tutto immobile, bloccato. Non percepisci il movimento, le persone che passano, che parlano, il modo in cui vivono il luogo. Certo è che ai fumettisti si sono aperte possibilità incredibili: ai tempi di “Aida al confine”, per essere sicura di quello che stavo facendo, dovevo investire un sacco di tempo a controllare la cartina che tenevo aperta sul tavolo da disegno.

E qual è l’aspetto più importante quando si deve disegnare un luogo, e renderlo “vivo” sulla carta?

Nel momento in cui disegno un luogo, è perché in quel luogo ci sono stata, mi piace, o mi è successo qualcosa. Quindi prima di tutto è un piacere assolutamente personale, unito al fatto di cercare i posti in cui sia più bello far recitare i personaggi. Poi c’è la questione della luce, ma soprattutto della consistenza delle cose, come i palazzi e le pietre. A Trieste per esempio ci sono ancora alcune vie che hanno un selciato particolare. Infine bisogna anche saper fingere: Via Piranella adesso è completamente ristrutturata, ma quando l’ho disegnata io c’era ancora un palazzo in completo disfacimento, e quindi si è trattato di immaginare il palazzo com’era prima. Credo sia una mia ossessione, una cosa che in definitiva non interessa a nessuno. Fare i fumetti è già un’ossessione, e la presenza di elementi e luoghi ricorrenti è una fissazione che ne fa parte. Come gli scogli di Teulada nelle storie di Sofia, che sono fatti di queste rocce rosse che sembrano di carne, dei dinosauri. Però è qualcosa che non riguarda il lettore, verso il quale piuttosto c’è il dovere dell’onestà e della coerenza. E il fatto che i luoghi siano poi riconoscibili aumenta i livelli di lettura e comprensione dell’opera.

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Parlando invece degli aspetti compositivi e più propriamente legati allo storytelling de “Il richiamo di Alma”, quanto cambia il lavoro quando si ha a che fare con un formato così grande rispetto a quello che adoperi di solito?

È stata la parte più complicata. Le pagine del giornale sono enormi, e io ho deciso di disegnare le tavole in formato 1 a 1. È stato un problema anche solo crearsi lo spazio di lavoro sulla scrivania! In più in ogni tavola dovevo raccontare un sacco di cose, e quindi la quantità di vignette è formidabile, mediamente quindici o sedici, ma nella scena del bosco si arriva persino a venti. Una tavola de “Il richiamo di Alma” potrebbe corrispondere a due, certe volte anche tre, tavole di un normale graphic novel. È stato un incubo!

C’erano degli schemi ricorrenti, o delle strutture fisse su cui ti sei basata nel momento in cui ideavi e componevi la tavola?

È una riflessione che ho fatto a posteriori, solo quando ho ripreso in mano le tavole per la riedizione in formato libro, però ora è chiaro che ho pensato le tavole come composte quasi sempre da due metà orizzontali. Quando lavoro in formati più piccoli sono abituata a gestire scene che giocano sulla verticalità, ma in questo caso mi sono appoggiata a una divisione in strisce, magari immaginarie, non pienamente coscienti, ma presenti, che potevano essere cinque o sei per tavola. E non ho adoperato vignette al vivo, o senza margine, e anche di questo me ne sono resa conto solo dopo. Insomma un lavoro completamente diverso da tutto ciò che ho fatto prima.

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A livello compositivo, una cosa che colpisce è la scelta di chiudere la prima striscia di molte tavole con una vignetta verticale, che “invade” anche la striscia sottostante, e che da “grammatica del fumetto” andrebbe letta per ultima, ma che invece pretende di essere letta prima, seguendo il flusso delle didascalie. È un’ambiguità di lettura voluta? Cercavi di uscire dalla classica temporalità del fumetto per sfruttare di più la spazialità?

Devo dire che non è la prima volta che attuo questo senso di lettura un po’ “complicato”, che genera dei dubbi sull’ordine della lettura, e che se si trovasse in un fumetto degli anni Settanta probabilmente richiederebbe le classiche freccette che indicano come procedere. Io parto dalle parole: il senso di lettura è dato dalla vicinanza e dall’ordine dei balloon e delle didascalie, quindi posiziono i testi in modo che l’occhio tenda a seguirli uno dopo l’altro. D’altra parte so di non stare realizzando una storia “alla Hitchcock”, in cui tutto deve essere chirurgicamente incastrato, perché altrimenti il filo della suspence si spezza, e quindi mi permetto certe libertà che so saranno comprese dal lettore, che al massimo penserà che l’autrice si è concessa qualche “capriola” fumettistica e si rileggerà la sequenza dopo aver capito qual è l’ordine corretto. E comunque non la ritengo una cosa complessa, non più di certi fumetti americani con griglie libere e balloon a grappolo, che possono rappresentare una lettura difficile per chi non è abituato a quel tipo di costruzione della tavola.

So che nel formato orizzontale questo aspetto si nota forse di più, ma penso questo formato anche come un punto di partenza, nonostante le preventivabili proteste dei librai, perché ha un grande potenziale, ed è bello, per cui non mi dispiacerebbe rifare delle prove tecniche su di esso. Le primissime tavole de “Il richiamo di Alma”, anche se poi l’ho completamente rimosso mentre ci stavo lavorando, erano state inizialmente progettate sul formato della mezza pagina del giornale, quando ancora non si sapeva se avrei avuto a disposizione solo quella o la pagina intera. Il tutto è riemerso quando Michele Foschini della Bao, vedendo le tavole, quando io già stavo meditando su come riadattare tutto per un classico formato verticale, si è reso conto di questa regolarità orizzontale e ha decretato che il libro si sarebbe potuto fare, e anche con relativamente poco lavoro di adattamento. Se non avesse avuto questa intuizione, probabilmente sarei ancora alle prese col tentativo di capire come tirarne fuori un libro.

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