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FocusAnatomia di un universo. 15 anni della linea Ultimate

Anatomia di un universo. 15 anni della linea Ultimate

Considerate queste parole: «Credo che la linea Ultimate darà nuova linfa all’industria dei fumetti: stiamo lavorando sul migliore materiale supereroistico che questa industria abbia pubblicato dal 1996 a oggi. Il punto principale è conquistare nuovi lettori e la linea Ultimate è il passo più positivo svolto in vista di questo obiettivo da una ventina d’anni a questa parte». È così che Mark Millar descriveva nel 2001 il neonato universo Ultimate, giunto al quindicesimo anno di vita. Come i suoi fumetti, le dichiarazioni di Millar non potrebbero essere meno spaccone. Ma è indubbio che nelle sue parole ci sia un fondo di verità.

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La creazione dell’universo Ultimate è stata la mossa più smaccata per attirare l’attenzione di una nuova generazione di lettori, complice anche una campagna promozionale massiccia (si stima che del primo numero di Ultimate Spider-Man siano state stampate otto milioni di copie a fini promozionale – da allegare cioè a scarpe e oggettistica varia o da distribuire gratis). Ultimate fu l’operazione editoriale del decennio, in grado di risollevare le sorti della Marvel dopo le traversie commerciali, le acquisizioni, le cessioni e le aspre contese legali.

Alla fine degli anni Novanta, i fumetti erano alla ricerca disperata di un nuovo bacino di pubblico e di un ricambio che non stava avvenendo, complice una generale visione paternalistica e nostalgica dei supereroi; basti pensare alla linea classicheggiante dettata da Alex Ross per farsi un’idea del sentimento dominante nel mezzo. Ci volevano nuovi lettori, lettori giovani, disposti a versare i propri soldi – e quelli dei rispettivi genitori – in fumetti; per avere nuovi lettori ci voleva qualcosa che combattesse contro la percezione delle serie Marvel come una soap opera intricatissima e lunga decenni. E soprattutto ci voleva qualcosa che riportasse nella pratica, e non soltanto nella teoria, l’idea di personaggi giovani.

Alla fine del secolo gli eroi Marvel erano vessati da un difetto comune ma grave: erano vecchi. Meglio, si comportavano da vecchi. Certo, sulla carta mantenevano la loro età e i loro bei faccini, ma nell’effettivo svolgimento degli eventi se ne andavano in giro con il pizzetto, erano sposati, avevano figli. Qualcuno iniziava perfino ad aprirsi un fondo pensionistico. Strettamente legata al problema dell’età percepita, l’altra questione che doveva essere risolta era la storia. I personaggi avevano vissuto troppo e da troppo a lungo si trascinavano dietro una continuity che non favoriva l’ingresso di nuovi lettori paganti.

Se ne accorsero un po’ tutti quando, nel 2000, come parte della compagna promozionale per il film degli X-Men, uscì su TV Guide un fumetto che spiegava lo status quo del gruppo a coloro che volessero avvicinarsi alla serie. L’episodio fu fonte di un certo imbarazzo per la Marvel: la storia era in realtà un tie-in alla testata principale talmente confusionario e caotico che scoraggiò molti dei potenziali lettori all’acquisto. «L’occasione mancata più grande di sempre. E un’abominevole merdata», ebbe a dire Mark Waid. «Quel giornale vendeva otto milioni di copie e noi ci alleghiamo il manuale su come non scrivere un fumetto.»

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Personaggi vecchi con un bagaglio di storie troppo ingombrante. Ricominciare da capo avrebbe risolto, in una sola passata di straccio, entrambi i problemi. Era una mossa azzardata ma il settore era allo sbando, e la Marvel aveva da poco dovuto ricorrere al capitolo 11 della legge fallimentare statunitense (una sorta di amministrazione controllata) per salvare i propri beni. Joe Quesada fornì un disarmante quadro della situazione: «L’industria era nella merda. Qualsiasi cosa facessimo sarebbe potuta diventare l’ultima, letteralmente. Ci tremavano i polsi, ma ci dava anche molta libertà perché non avevamo niente da perdere.» Inoltre, la DC lo aveva fatto già molte volte con le loro Crisis. Perché non poteva farlo anche la Casa delle Idee? I vertici presero in considerazione la cosa. «Poi però guardammo alla nostra fetta di pane e vedemmo dove era già imburrata. Non era prudente mischiare le cose e decidemmo di non farlo.»

Insomma, meglio andarci cauti, meglio creare un universo a parte, in modo tale da non far arrabbiare i vecchi fan e al tempo stesso preventivarsi da eventuali fallimenti; così, se fosse andata male, sarebbe bastato mettere i sigilli e un giorno avrebbero guardato indietro e riso di quel tentativo a fondo perduto di lucro. In effetti qualche risata se l’erano già fatta con Spider-Man: Chapter One di John Byrne, in cui le origini dell’Uomo Ragno venivano rinarrate in un’ottica contemporanea. Un fallimento a metà, la testata vendette bene ma fu presto disconosciuta. Perché un’ennesima nuova versione del personaggio avrebbe dovuto funzionare dove il tentativo di Byrne non c’era riuscito? La risposta che si diedero era strutturale al concetto di fondo del nuovo universo: quello che Byrne aveva fatto era stato cambiare lo scenario. Invece di un microscopio, sulla scrivania di Peter campeggiava un computer. Questo era il massimo dell’innovazione a cui si era arrivati. Occorreva un personaggio che pensasse come un giovane del XXI secolo, non soltanto che ne utilizzasse le tecnologie.

Con questa idea ben chiara in mente, Joe Quesada e Bill Jemas andarono da Brian Bendis a proporgli il ruolo di sceneggiatore su Ultimate Spider-Man. Ancora una volta, l’ultimizazzione sarebbe partita dal personaggio bandiera dell’azienda, l’Uomo Ragno. Se una testata con l’eroe più monetizzabile della Marvel non avesse venduto, tanto valeva provarci con gli altri.

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Bendis, che aveva all’attivo titoli di nicchia come Fire, Jinx, Torso e lo spin-off di Spawn Sam and Twitch, era specializzato in storie adulte e atmosfere neo-noir, una scelta azzardata per una serie con protagonista un adolescente. Ma il suo apporto fu da subito essenziale: «L’universo doveva chiamarsi Ground Zero», rivelò Quesada. «Piaceva a tutti, ma Brian convinse il gruppo a cambiare nome: Ground Zero, diceva, ha una connotazione negativa – lo zero – e la linea sarebbe dovuta nascere sotto auspici più ottimistici.»

Se Chapter One si era limitato ad aggiornare l’oggettistica, Ultimate Spider-Man avrebbe spostato l’asticella verso l’alto, rinnovando la tela narrativa su cui dipingere le nuovi origini, una tela che da una parte cerca di irretire la follia del mondo reale con una dose di quella che potrebbe essere definita “plausibilità fantastica”, spurgando il fumetto di tutti quegli elementi da cartone che ne avevano minato la credibilità, e dall’altra di aggiornare elementi che, pur funzionando drammaturgicamente, sono percepiti come superati. Negli anni Sessanta, il fulcro degli studi scientifici era il nucleare, le radiazioni casuali che davano forma e colore alle paure da Guerra Fredda, ora sarebbe stata la genetica e il techno thriller complottistico a vidimare la nascita dei supereroi: il ragno che morde Peter è geneticamente modificato, più avanti verrà rivelato che i mutanti non sono più la nuova fase dell’evoluzione, bensì un esperimento di laboratorio, frutto della manipolazione umana invece che divina.

Smessi i panni del nerd anni Sessanta (frustrazione somatizzata attraverso lo studio, vestiti inamidati, occhialoni con montatura di corno), Peter Parker diventa il nerd 2.0. Niente orpelli e un’attitudine più cupa e consapevole di sé e degli altri, atmosfera più da videogioco e meno da striscia a fumetti. Si parla di sesso, l’elefante nella stanza per ogni testo che ha come protagonisti degli adolescenti, e tutti gli sforzi sono tesi a far apparire Peter come un vero ragazzo che vive alla fine del millennio.

Jemas collaborò a fianco di Bendis e fece in modo di introdurlo al mondo dei supereroi. «Si è davvero sporcato le mani con Brian», sono le parole di Quesada. «Lo ha instradato e ha collaborato alla costruzione del mondo.» Jemas decise di far crescere il cast corale, dando modo al pubblico di appassionarsi alle avventure del personaggio anche quando non indossava il costume. Dalla sua, Bendis contribuì con un diverso formato di scrittura, pescando più dalle parti di David Mamet che di Stan Lee: trattava la materia in maniera cinematografica e decomprimeva l’azione. In un’unica vignetta si poteva assistere a interminabili botta e risposta o a silenzi meditativi che permettono all’autore di plasmare il tempo nel racconto con incredibile precisione, dando ritmo e dinamicità a pagine intere di gente che discute sul nulla.

Sul versante grafico, Quesada e Jemas operarono una scelta opposta, chiamando un nome consolidato come quello di Mark Bagley. «Si trattava di spostare gente di alto livello da lavori che garantivano ingenti royalty e prestigio per metterli su questi esperimenti». Bagley infatti rifiutò; per convincerlo, Jemas fece leggere la sceneggiatura alla figlia del disegnatore, e questa convinse il padre a farlo. Il quale, ancora non sicuro di volersi concedere per il lungo periodo, si accordò per disegnare soltanto i primi sei numeri: «Non volevo restare. Poi uscì il primo numero e fu accolto così bene, e a me divertivano le sceneggiature di Brian, così chiesi di poter rimanere.»

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Se Ultimate Spider-Man appare un figlio tanto di Bendis quanto di Jemas, il resto dell’universo rispecchiò questo senso di paternità collettiva, grazie al gruppo di autori coinvolti nella progettazione. Gente come Grant Morrison, che si candidò a sceneggiare la testata dei Fantastici Quattro con l’idea di creare una soap opera dal gusto di sitcom, una formula simile a quella della Justic League International di Keith Giffen e J.M DeMatties. Ultimate Fantastic Four sarebbe poi stata posticipata al 2004, su presunta richiesta di Mark Waid (per evitare che le vendite danneggiassero la gestione sui Fantastici Quattro canonici), con un team creativo differente – anche se lo scozzese in diverse occasioni ha dichiarato che il titolo deve molto alla sua proposta per il progetto.

Stando alle sue parole, Morrison sembrerebbe uno dei principali artefici dell’universo Ultimate: la Marvel gli offrì prima Spider-Man e poi gli X-Men, rifiutati entrambi a favore dei Fantastici Quattro e di Ultimate Kree-Skrull War, e fu lui a raccomandare Mark Millar per la serie dei mutanti, oltre a fornire diverse idee per Ultimates, tra cui il concetto fondamentale di un approccio realistico all’eventualità di un supergruppo governativo. Millar, tuttavia, si dimostrò titubante alla richiesta di scrivere un trattamento per Ultimate X-Men. In vita sua aveva letto soltanto tre numeri degli X-Men e non aveva familiarità coi personaggi. La dirigenza insistette e gli consigliò di guardare il film di Bryan Singer. Colpito dalla pellicola, Millar scrisse un soggetto senza aver la benché minima idea delle dinamiche interne all’universo mutante (verrebbe da chiedersi chi ne avesse, all’epoca). Nella sua finta ingenuità, l’attitudine di Millar rientrò a pieno nel pensiero Ultimate: storie nuove per nuovi lettori.

Ultimate Spider-Man, la testata che oggi compie quindici anni, si mosse su terreni più tradizionalisti ma fece sua una modernità di racconto che l’ha resa la testata di punta; fu ben accolta e continuò a esserlo a fasi alterne grazie anche all’introduzione di Miles Morales, il nuovo Uomo Ragno. Creato da Bendis e Sara Pichelli, il ragazzo afroispanico contribuì a rendere Spider-Man uno dei personaggi più resilienti della Marvel.

Più di tutte, però, fu Ultimates la collana simbolo: con il suo tono in bilico tra il serio e il faceto, l’impostazione filmica del disegno (tavole, design dei costumi) e delle sceneggiature contribuì a definire l’universo Marvel attuale e gli adattamenti prodotti dal loro dipartimento cinematografico. C’è, da questo punto di vista, una stretta connessione tra il modo in cui Bendis e Millar decisero di scrivere le loro storie e lo sviluppo successivo dell’universo cinematografico Marvel.

«Il modello Ultimate dava a tutti una certa confidenza nello scrivere storie chiare, concise, con un inizio, uno sviluppo e una fine, cose compatte» conferma Quesada, spalleggiato da Millar, che in una vecchia intervista ricordava di conoscere le storie, «ma ho cercato di essere spietato tanto quanto lo sono quelli del cinema quando sviluppano un franchise. Vedere qualcuno che urla ‘Per il lupo bianco!‘ [L’esclamazione tipica di Colosso] non funziona in un film e quel pubblico è il mio pubblico, quindi io non mi metterò a scrivere una cosa del genere nei miei fumetti».

Non solo, il lavoro di Bendis e Millar fu strumentale anche ai fini della ricostruzione dell’universo Marvel tradizionale. Terra-616 travasò nelle proprie storie le idee Ultimate, facendo diventare quest’ultime solo versioni giovanili dei personaggi. Quesada stesso ha ammesso che questo è stato il motivo per cui la linea ha perso mordente nel corso degli anni: «Credo che l’universo tradizionale abbia iniziato ad adottare la sperimentalità di quello Ultimate e ora questo deve trovare un altro modo per essere in anticipo sui tempi.»

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Molto più prosaicamente, l’universo Ultimate non è più una priorità per la Marvel che, dopo aver fatto il pieno di nuovi lettori e aver imparato a usare uno stile narrativo fresco e moderno, è ora occupata a promuovere le versione classiche dei suoi personaggi in un’ottica cinematica e aperta all’influenza di altri mezzi visivi. Il che ci riporta all’inizio della storia: «Ho fatto Ultimates», diceva Mark Millar nel 2001, «perché volevo scrivere un film sugli Avengers. Perché non ci sarà mai un film Marvel dedicato agli Avengers.»

Tra continui azzeramenti e cambi di team creativi sembra che manchi un’idea forte alla base, e l’unica testata che regge è proprio la prima, quella di Spider-Man. Il futuro dell’etichetta è incerto, soprattutto alla luce delle ultime notizie. Ma tutto è ancora possibile. Tranne un film degli Avengers, ben inteso.

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