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RecensioniNovitàSapias, vina liques. Gli ignoranti di Davodeau

Sapias, vina liques. Gli ignoranti di Davodeau [Recensione]

«L’ignorante non si conosce mica dal lavoro che fa, ma da come lo fa.»
Cesare Pavese, La luna e i falò

L’ignoranza non gode, presso la nostra civiltà occidentale così incapace (continuo a pensare che la colpa sia di Hegel) di collegare speculazione intellettuale e abilità tecnica nell’unico concetto di cultura, di buona reputazione. Eppure è uno stato inevitabile. E’ uno degli emblemi della vita. Ignoranti lo siamo tutti, al punto che proprio nell’ignoranza potremmo trovare l’unico vero attributo universale dell’umanità.

Il problema è che di ignoranze ce n’è di tipi diversi. Quella purtroppo maggiormente rappresentata in ogni gruppo umano è la causa dei maggiori problemi del vivere sociale, nasce da una spinta irrazionale, tipica di filosofi e politici e teologi, e si pone domande su oggetti inesistenti; ha tutte le presupposizioni attributive sbagliate e si trasforma in mistica quando va alla ricerca di saggezza e senso della vita e, pensando di averli trovati, vuole imporli al resto dell’umanità; oppure in demagogia e successo elettorale, quando propone soluzioni semplicistiche a problemi complessi.

C’è invece un’ignoranza di tipo razionale. Tipica di chi fa, smonta e rimonta le cose. Che non crede di sapere ciò che non sa, quindi non suppone, ma sa cosa e quanto non conosce. Interrogandosi continuamente su questo. L’ignoranza è, in questo senso, concettualmente e indissolubilmente legata alla conoscenza. E’ dalla posizione paradossale di Socrate (come faccio a sapere che c’è qualcosa che non so se, appunto, lo ignoro?) che lo abbiamo appurato; senza soluzioni, per carità, ma con continui tentativi: sappiamo che c’è una bella differenza tra conoscere e imparare. Imparare è prendere per buone le risposte sbagliate a domande generiche, a scuola si impara ma spesso ciò che ci insegnano si rivela, a ogni avanzamento della conoscenza, sbagliato o infondato; conoscere è formulare domande pertinenti in base a corrette presupposizioni attributive. Non è detto che si troveranno le risposte, anzi, queste potrebbero essere anche tutte sbagliate. Facile che sia così perché le risposte sono comunque sempre insufficienti, l’ignoranza razionale non è mai soddisfatta, non può esserlo, la sua estensione è indeterminata: c’è sempre altro da sapere.

In un libro del 2011, Les Ignorants (appena uscito in italiano con il titolo Gli Ignoranti, per i tipi di Porthos), Etienne Davodeau sviluppa sulla questione una riflessione decisamente originale.

Sfoglia l’anteprima di Gli ignoranti.

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La struttura del libro è molto semplice. Un fumettista, Davodeau, che non sa nulla di agricoltura, vigne e vini e un vignaiolo, Richard Leroy, che non sa nulla di fumetti e di editoria, vivono a stretto contatto per un anno, e costruiscono attraverso la reciproca collaborazione un originale percorso di conoscenza.

Di questi tempi (sia detto senza giudizio di valore) che ci hanno fatto assistere, per ovvi motivi, al crollo strutturale della narrativa letteraria (mai stata così inutile e arrogante e salottiera come oggi) e all’inutilità formale e sociale delle saggistica, quella forza che avevano un tempo scrittori e intellettuali oggi ce l’ha, nell’ambito dell’editoria, solo il fumetto (non è un caso, in questo senso, il successo di Zerocalcare). E’ per questo che Davodeau riesce, con la perfetta dosatura del suo segno (che più volte lui stesso, nel corso del libro, definisce semplice scrittura), ad appassionarci a una questione apparentemente marginale come le vicende lavorative e produttive di un vignaiolo e di un fumettista.

Lo sottolineo: apparentemente marginale.

Troppo spesso infatti, come fa notare Richard Sennett nel suo L’uomo artigiano, quando le scienze sociali si occupano della cosiddetta cultura materiale non ritengono gli oggetti, i manufatti degni di attenzione in sé, ma solo in quanto riflessi di norme sociali, interessi economici o convinzioni religiose. La posizione che assume Davodeau nella prospettiva di questo ininterrotto dibattito epistemologico (e che lo faccia consapevolmente mi sembra evidente, fin dalla scelta del titolo del volume), posizione sicuramente maturata durante la realizzazione del libro stesso nell’anno di frequentazione di Leroy, è che solo attraverso la conoscenza diretta delle qualità di un oggetto si può arrivare a stabilire categorie di bellezza e bontà.

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Quindi, per forza, il vino. Il cui gusto dipende necessariamente dalla coniugazione delle due categorie di bello e di buono, cioè riflessione estetica più anatomia del piacere, ma che corre un rischio, attraverso il suo innalzamento a “prodotto culturale”, di banalizzazione e standardizzazione di quello stesso gusto da cui dipende. Quindi, per forza, il fumetto, la cui celebrazione in “graphic novel” è diventato il pretesto e il paravento di altrettanta banalizzazione. Stereotipi buoni per guide al consumo (incisivo il capitolo in cui Davodeau descrive i metodi del collaboratore di Robert Parker, il Luca Maroni degli americani, per valutare i vini da mettere nella loro guida) o traducibili in emozioni riconoscibili dal lettore medio per vincere premi letterari e radiofonici, in poche parole per vendere..

C’è a questo proposito un momento profondamente teorico più o meno a metà del volume: il capitolo dieci, intitolato ‘La gaffe’. Leroy si appresta a trattare la vigna con una vecchia irroratrice che a Davodeau ricorda un ready-made duchampiano. Un oggetto industriale di uso comune, come il famoso urinatoio, privo di unicità e quindi di statuto artistico ma che per il fatto stesso di essere stato preso e ricollocato sotto un nuovo punto di vista, vede annullato il suo significato di uso comune, acquistando un nuovo modo di essere pensato e interpretato. Un orinatoio può essere una fontana, un bicchiere di vino un’esperienza estetica, un libro a fumetti un sistema epistemico complesso. Dopo il lavoro nella vigna, Davodeau consegna a Leroy dei volumi a fumetti da leggere, tra i quali il blasonatissimo Watchmen. Mentre Leroy fa assaggiare a Davodeau una serie di vini molto considerati dalla critica enologica. A un certo punto Davodeau dice di non apprezzarne uno. Leory lo invita a vuotarlo nel lavandino e mentre l’autore lo fa gli spiega, sorridendo, che ha appena commesso un sacrilegio. Almeno per la maggior parte degli esperti enologici. C’è gente pronta a ogni sacrifico per bere un vino come quello, da centinaia di euro la bottiglia, che non sarebbe capace di non apprezzarlo, perché la conoscenza preventiva li avrebbe condannati ad amarlo. Invece Davodeau, da ignorante si è autorizzato a non trovarlo interessante. Allo stesso modo, quando Leroy affronta la lettura del capolavoro di Moore, essendo all’oscuro di tutte le critiche entusiastiche, lo trova noioso e ci si addormenta sopra.

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Paradossalmente l’ignoranza è strumento di conoscenza e di libertà. Perché, sostengono Davodeau e Leroy, l’ignoranza ci fa sapere che c’è sempre altro, oltre a quanto ci viene spacciato dagli strumenti della conoscenza di massa, da sapere ogni volta che proviamo a conoscere. Quando mi verso del vino o quando sfoglio un fumetto non devo preoccuparmi di ciò che so dell’oggetto che mi sto appropinquando a conoscere. Devo prendermi, in quanto soggetto, e ignorante, il mio margine di attività sull’oggetto. Per dirla come il Kant della terza critica, devo districarmi tra il libero accordo della mia sensibilità e della mia concettualità, controllando il loro reciproco sopravanzarsi. Costruire schemi assolutamente liberi tra immaginazione e intelletto, tra il fare e il teorizzare.

Perché il cammino per la libertà, la liberazione dall’economia di mercato e dal suo più occhiuto custode: la socialdemocratica standardizzazione del gusto, che trasforma in punteggio percentuale (i metodi di valutazione di tutti i Parker del mondo) ogni giudizio, passa dallo svincolamento della viticultura dal modello agricolo dominante. Tanto quanto il cammino per la libertà del fumetto dall’occhiuto custode della produzione seriale e meccanizzata (che attualmente va dalla tristezza espressiva degli ultimi Astérix alla banalità postmoderna, e reazionaria, dell’ultimo Dylan Dog) passa da una ricerca espressiva capace di legare assieme il rigore dell’esecuzione e la libertà, assoluta del risultato.

Non lo penso perché sono un anarchico dottrinario che ha studiato sui testi di Kropotkin e di Elisèe Reclus. Lo dico perché mangiare bere e ascoltare storie sono le nostre prime necessità, e so quindi che produzione e assegnazione delle risorse alimentari e delle storie sono i due punti fondamentali che bisogna cambiare se vogliamo, come dobbiamo volere, cambiare il sistema industriale finanziario che ci sta portando alla rovina e alla standardizzazione dei gusti. Quella che José Bové chiama “sovversione naturale”. Che Richard Leroy pratica tra le sue vigne. Che Étienne Davodeau racconta nei suoi libri.

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Qualche annotazione tecnica

Non è un problema che mi tocchi particolarmente, ché non ho molta stima degli editori italici e i fumetti li leggo nelle edizioni originali, ma non ho mai capito perché Étienne Davodeau non sia un autore particolarmente letto in Italia. Mentre di un Delisle qualsiasi si pubblicano persino i fazzoletti usati. Comunque. Dobbiamo ringraziare QPress, nonostante tutti i suoi difetti, per avere pubblicato in passato i suoi Rurale! e La Brutta Gente. Se non lo hai ancora fatto, recuperali e leggili. E ora ringraziamo Porthos per avere tradotto Les Ignorants. Il libro di cui ho appena raccontato l’importanza.

L’edizione Porthos, va detto, ha almeno due difetti. Il primo è il lettering, che svuota le tavole di Davodeau di un bel po’ dell’originaria potenza ignorante: ridurre a quel modo la scrittura di un autore che dice a più riprese che il suo fumetto è soprattutto scrittura, resta una ferita aperta, come una potatura sbagliata sulla vigna.

Il secondo è la scelta della carta. C’è, nel racconto, un momento fondamentale quando Davodeau fa un paragone molto bello tra la scelta dei legni che fa il vignaiolo per la costruzione delle sue barriques e la scelta della carta che fa un autore per la stampa della sua opera. La scelta di sostituire la Munken Pure da 130 gr dell’edizione originale con una comunissima uso mano bianca (credo da 120 gr) non ha giovato alla resa delle mezze tinte. Non sono due difetti veniali. Ma strutturali. E non bastano la buona traduzione e i redazionali (soddisfacenti, per carità) in appendice, a riscattarli.

Comunque. Il libro è talmente potente che funziona nonostante. E posso già posizionarlo tra i migliori di quest’anno.

Gli Ignoranti
di Étienne Davodeau
Porthos edizioni, 2015
288 pagine, 25.00€

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