Capharnaüm è il nome di una città, ma questo titolo serve a designare non tanto l’urbanità caotica di St. Stephenbourg (la città immaginaria delle avventure di Lapinot), quanto piuttosto il metodo dell’autore il cui nome ricorda quello di una città norvegese, producendo così delle città matrioska, dei racconti dentro le situazioni, a loro volta inseriti in una storia elaborata attraverso dei carnet di viaggio di una data epoca.
Al centro di questo bric-à-brac, ci sarebbe una scatola di giocattoli simile allo scrigno di un tesoro, al cui interno c’è un guazzabuglio di oggetti che rappresentano certe idee, e immagini confuse che si tratterà di utilizzare o di ordinare, se possibile, lungo 5000 pagine.
Mezzo o tappa che sia, le immagini in splash page di questa cafarnao suggeriscono l’idea di una tavola in disordine, di vignette sconnesse o di oggetti che potrebbero esserne usciti o fatti saltare fuori. Per l’autore tutto questo dovrebbe ricordare quanto avviene nel libro illustrato di Chris Van Allsburg Le cronache di Harris Burdick, giocando pertanto con ancoraggi mentali, che qui sono giusto abbozzati, per incominciare a raccontare una o più storie.
Tutto dovrebbe quindi partire dall’essere raccolto, per assemblare queste immagini/storie e poi classificarle chiedendosi a chi appartengano, perché, come, eccetera eccetera. Il riferimento all’infanzia attraverso i giocattoli della scatola strizza l’occhio tanto alla perdurante associazione che fa del fumetto uno svago puerile, ma anche ad un metodo esso stesso elementare del genere “si direbbe che…etc etc”, in cui vengono stabilite le condizioni per iniziare il gioco e incominciare a raccontare. Aggiungiamoci poi l’idea infantile della sfida permanente per la propria auto-costruzione, che negli adulti prosegue nell’idea di performance, e che in Lewis Trondheim consiste in un compromesso che determina limiti o orizzonti cifrati.
Capharnaüm, quindi, non è una semplice “mise en abîme” di un fumetto dentro un fumetto. È innanzitutto il racconto di un metodo, un esercizio intorno a una ricerca e a un processo di elaborazione. Ciò che c’è di notevole non è tanto la storia quanto i carnets, le 5000 possibili pagine e il periodo che intercorre tra il Luglio del 2003 e il Gennaio del 2005. Attraverso il suo personaggio, l’autore cerca nella città, nella camera, nelle quisquilie o nelle battute che giocano con le parole. Martin Mollin è come un avatar dentro un videogioco in cui lo scenario è creato in tempo reale, e del quale cerca di comprendere le regole, rendendosi conto di scoprirle man mano, o gli enigmi che si pone, s’incatenano e s’incarnano nel flusso delle immagini.
Il disegno o le dimensioni delle vignette suggeriscono quindi una ricerca in corso d’opera. L’autore moltiplica, in modo insolito per lui, i dettagli che funzionano come dei mezzi più o meno coscienti di ritardare quel che segue, di fermarsi a rifletterci, in un qualche angolo della testa, mentre la penna continua a tracciare minuziosamente. Il libro sembra essere una vera e propria lezione. Una rimessa in questione fondata sul fatto che il fumetto possa essere non tanto «una storia, essenzialmente una storia e nient’altro che una storia», ma piuttosto delle situazioni concatenabili in un interrogarsi che potrebbe anche – non necessariamente – continuare senza concludersi mai, come quei bambini che chiedono ad oltranza «e perché? e perché?».
St. Stephenbourg, la città immaginaria contenuta nelle pagine di questo libro, non sarebbe altro che un bric-à-brac per improvvisare; un racconto che la conduce al disordine (e distruggendola), più che una riflessione sulla compassione e la consolazione – come invece sembra suggerire il nome – da cui è emersa una qualche forma d’equilibrio per l’autore, pronto a rimettersi al lavoro.
*Articolo pubblicato originariamente su Du9, scritto da Jessie Bi e tradotto dal francese da Tonio Troiani