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FocusProfiliUna conversazione con Dylan Horrocks, sul desiderio e la responsabilità

Una conversazione con Dylan Horrocks, sul desiderio e la responsabilità

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Ci sono autori dai cui lavori è lecito attendersi dei buoni conversatori, attenti e interessanti. Ma la realtà, a volte, può tradire facilmente le aspettative della propria immaginazione. Con Dylan Horrocks, autore che dai tempi di Hicksville ha mostrato di saper giocare con l’immaginazione (propria e altrui), per fortuna le aspettative non sono andate tradite. Lo ho intervistato dopo l’incontro tenuto su Sam Zabel e la penna magica presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna (all’interno del programma di BilBOlbul 2015 – Primavera/Estate), in compagnia dell’autrice Vanna Vinci e di Michele Foschini, suo editore in Italia. Ed è stata una lunga, stimolante conversazione.

Sam Zabel

La prima parte di Sam Zabel e la penna magica sembra decisamente autobiografica. Mentre lo stavo leggendo, mi sono posto il dubbio se noi (come critici, o semplicemente lettori) siamo autorizzati ad attribuire questo significato al libro. Come vivi questa interpretazione? Ti fa piacere, o preferiresti che non venisse fatta questa associazione tra l’autore e il protagonista della storia?

Una volta che ho concluso il libro, e l’ho reso pubblico, penso che le persone possano interpretarlo come vogliono. È sicuramente autobiografico, soprattutto l’inizio, ma non è completamente “me”. Sam Zabel non sono io. È un personaggio che ho usato per molti anni, quasi come un alter ego. Ho fatto sì che si confrontasse con situazioni simili a quelle che ho vissuto io, ma poi alle volte l’ho fatto reagire diversamente, perché volevo immaginare cosa avrebbe potuto accadere se io avessi reagito in quel modo. Altre volte ha reagito come avrei reagito io, ma la situazione era esagerata, distorta, o differente. È come se fosse un “topo da laboratorio”: lo metti in un labirinto, e testi le sue reazioni.

Insomma non sono proprio io, e alle volte mi crea del disagio quando si suppone che io sia come lui, ma è il prezzo che sono disposto a pagare. Se rendo pubblico il mio lavoro devo accettare di non poter controllare come le persone vi reagiranno. Ma è anche qualcosa di affascinante, quando le persone reagiscono in un modo che non mi sarei aspettato, e imparo tutta una serie di cose nuove dalle loro reazioni.

Sempre all’inizio della storia, ti soffermi sul mix di piacere e difficoltà del (e nel) fare fumetti. Ed emerge come qualcosa di reale, come se fosse un argomento che ti sta a cuore. È anche un modo per esorcizzarlo? Per marcare una differenza?

Principalmente è un tentativo di comprenderlo. Il mio obiettivo principale con questo libro era di provare a comprendere i miei problemi con i fumetti, ma anche, immagino, di provare a trovare una strada per recuperare il piacere di disegnare fumetti. Quando ho iniziato a disegnare il libro, la mia relazione con i fumetti era dominata dalla difficoltà, dal sentirmi inadeguato, incapace di scrivere e disegnare. Avevo perso la mia fede nelle storie. E volevo esplorare questa problematicità, comprenderla meglio, e possibilmente riscoprire il piacere della creazione. Non sapevo se avrebbe funzionato, ma mi ci sono applicato, ed è andato tutto per il meglio.

Leggendo il libro, la sensazione è che l’inizio sia duro, “sgradevole”, e che la storia diventi più piacevole pagina dopo pagina.

Sono stato molto furbo a fare un libro sgradevole e che allontana, nella sua prima parte! Forse dovremmo mettere un avvertimento all’inizio: “Diventa davvero più piacevole”! Di sicuro è diventato più piacevole per me. Non appena ho iniziato a disegnarlo, il primo capitolo è stato il più grande piacere che abbia mai provato nel disegnare un fumetto, perché è arrivato dopo un periodo difficile, quando ho smesso di provare a disegnare in differenti modi, e ho accettato il fatto che “lo disegnerò come disegno io”. Sono finalmente riuscito a connettermi al piacere fisico del disegno, e quelle prime pagine, per me, sono colme del piacere e del sollievo che provo quando disegno.

Leggi anche: Sam Zabel e la penna magica: Dylan Horrocks e la celebrazione del fumetto

hicksville

Insomma, quanto è difficile rimettersi a disegnare dopo il grande successo ottenuto con Hicksville?

Sam Zabel e la penna magica non è il primo libro che ho provato a fare dopo Hicksville. C’è stato Atlas, del quale ho disegnato circa un centinaio di pagine prima di metterlo da parte, e ci sono state altre cose su cui ho iniziato a lavorare, oltre a un sacco di storie brevi realizzate quando avevo tempo, circa duecento pagine di fumetti, raccolte in volume sia in Nuova Zelanda che in Francia.

Ma Sam Zabel e la penna magica è stato il libro che ho iniziato a disegnare quando ho smesso di provare a realizzare il “secondo libro”. Continuavo a provare a fare il “grande secondo libro”, ed ero così impaurito. Volevo provare a fare qualcosa di ancor più significativo di Hicksville, e il risultato è che mi stavo ingarbugliando. Non penso che si possa fare un buon libro tentando di sfornare un capolavoro. Devi essere guidato dalla storia, e dalle domande per cui cerchi una risposta, e le domande che Sam Zabel e la penna magica pone sono le domande a cui avevo realmente bisogno di rispondere in quel momento, quindi ha preso il sopravvento.

Hai cominciato a pubblicarlo online, sul tuo sito, una pagina alla volta. Quando hai iniziato avevi più o meno chiaro come la storia si sarebbe sviluppata, o la trama andava modificandosi mese dopo mese? Il modo in cui hai deciso di pubblicarlo ha influenzato la storia?

A dire il vero ho iniziato a pubblicarlo all’interno di Atlas, come storia di supporto. Ma c’è stato un grande iato tra i primi due numeri di Atlas, e Sam Zabel e la penna magica emerse come la storia con cui mi rilassavo, che poi è anche com’è iniziato Hicksville. Hicksville cominciò come la storia con cui mi rilassavo all’interno di Pickle. E dire che avevo un intero altro romanzo a fumetti che avrei dovuto portare avanti!

Dopo tre numeri di Atlas, mi resi conto che il formato e le modalità con cui lo stavo portando avanti non funzionavano più. Stavo provando a serializzare la storia principale contenuta in Atlas, ma davvero non sapevo dove stava andando, continuavo a cambiare idea, quindi ho finito per metterla da parte. E poi, circa quattro anni dopo, ho resuscitato Sam Zabel e la penna magica, e deciso di pubblicarlo online.

Penso che in qualche modo il web possa essere diventato il sostituto della classica pubblicazione di una serie regolare a fumetti. È un modo molto facile ed economico per serializzare una storia. Il motivo principale per cui l’ho messo online era di avere un motivo per continuare a disegnarlo. Ci vuole un sacco di tempo, o almeno a ME ce ne vuole un sacco, per fare un romanzo a fumetti, e nel metterlo online ogni volta che avevo portato a termine una pagina, mi sentivo come se avessi raggiunto un obiettivo, e potevo mostrare al mondo che lo avevo raggiunto! Ottenevo feedback, e io stesso sono uno che ama dare feedback e fare commenti.

La cosa più divertente è che alle volte incontravo un qualche amico alla presentazione di un libro – non un mio libro – che mi diceva “Credo di aver capito cosa succederà dopo!”, e mi illustrava tutta la sua teoria. Non mi influenzava, ma almeno potevo stare lì e rispondere “Certo! Sei totalmente fuori strada! Ma non ti dirò nulla di più, voglio che sia una sorpresa.”, ed era una cosa davvero divertente. Tornando alla risposta alla tua domanda, avevo un’idea molto grezza di dove stavo andando, ma davvero grezza e vaga. E volevo mantenerla così, perché la storia è un viaggio nell’ispirazione e nella scoperta. Non volevo che fosse tutto scritto e pianificato, volevo scoprire le cose man mano che andavo avanti. È così che ha funzionato. Giunto alla seconda metà del libro, avevo ormai una stesura scritta, prima di passare al disegno, quindi sapevo dove mi stavo dirigendo, ma ci sono state comunque un sacco di sorprese lungo il percorso.

atlas

Per venire ai temi che emergono dal libro, ritorni su alcuni argomenti che erano già presenti in Hicksville, come i “fumetti nei fumetti”, ma anche la “storia del fumetto”. Una strana storia del fumetto, che mescola la reale storia con una storia finta, immaginaria. Questo aspetto crea nel lettore una specie di “vertigine”, nel tentativo di capire se ciò che racconti sia vero o inventato. Perché adotti questa strategia? Vuoi giocare con il lettore, inserendo una sorta di sottotrama “investigativa”, spingendolo a esplorare la storia del fumetto per capire cosa sia vero e cosa tu abbia inventato di sana pianta?

Posso pensare a un paio di motivi per cui lo faccio – perché, ehi, continuo a farlo! – e uno è un obiettivo consapevole, cioè che la storia può arricchire il mondo e la nostra comprensione del mondo, ma può anche essere una gabbia che ci intrappola in una prospettiva limitata sul mondo, quindi iniettando elementi inventati al suo interno ci si aprono nuove possibilità di vedere le cose diversamente. In Hicksville cercavo costantemente di aprire nuove possibilità per il futuro del fumetto, reinventando il passato. In un certo qual modo stavo affermando “Facciamo i fumetti che vorremmo fare se quella fosse stata la storia del fumetto”, e lo affermavo anche per quanto riguarda la Nuova Zelanda. La storia della Nuova Zelanda può talvolta restringere le nostre possibilità, e stavo cercando di immaginare come aprire nuovi spazi per il futuro del fumetto in Nuova Zelanda, aprendo nuovi spazi nel passato. Ma c’è anche da dire che il passato non è mai completamente scritto, ogni generazione reinventa la storia del passato, quindi perché non farlo anche con l’immaginazione?

L’altro motivo per cui lo faccio è che sono affascinato dalla relazione tra la nostra esperienza reale del mondo, e il mondo per come lo sogniamo e immaginiamo. Non so se anche l’Italia ha questa tradizione, ma nel mondo anglofono, specie in Gran Bretagna, c’era l’idea che ci fosse una specie di dimensione parallela, quella popolata da fate e gnomi, una dimensione magica, dove i miti e le fiabe popolari accadono, che coesisteva con il mondo reale. Può essere chiamata “Il mondo del crepuscolo”, o “Il mondo dell’estate”, ed è come se ci fossero due livelli, e per vedere quel mondo è necessario un cambio di prospettiva, un cambio di punto di vista, e quando guadagni quella visione di fatto sei in quel mondo. In un certo senso, creando una storia finzionale, e inserendo fumettisti inventati nel suo continuum, intrecciati però con la storia reale, è come se stessi provando a trovare un accesso, una strada verso questa dimensione parallela che è il mondo dei sogni. Questo è ciò che facciamo quando scriviamo storie, creiamo una realtà parallela, che poi è tutto ciò che è Sam Zabel e la penna magica.

Sam Zabel e la penna magica e Hicksville hanno molti altri punti di contatto. Non solo Sam, il tuo alter ego, ma anche, per esempio, Lady Night e il fumettista Lou Goldman. Sembra quasi che tu abbia creato un universo narrativo unico e coeso, dove tutte le tue storie hanno luogo. Lavorando su Sam Zabel e la penna magica non ti sei sentito di dover creare una cesura rispetto a Hicksville, cambiando personaggi e “passati”?

In effetti ho pensato di usare personaggi completamente differenti, ma il fatto è che ho usato Sam Zabel come personaggio per quasi trent’anni, lo usavo già come personaggio in alcune storie brevi di gran lunga antecedenti Hicksville, e penso che non sia propriamente lo stesso universo. Non è coeso né coerente. L’universo dove sono ambientati Hicksville e Sam Zabel e la penna magica non è lo stesso. Il motivo per il quale sono connessi è che è tutto dentro la mia testa, l’universo dei miei sogni a occhi aperti, e gli stessi personaggi e luoghi continuano a saltare fuori in questi sogni, anche se non necessariamente nello stesso.

In Sam Zabel, e ovviamente anche in Hicksville, attribuisci ai tuoi personaggi un rapporto di “amore e odio” con i fumetti di supereroi. Nutri anche tu questo sentimento ambivalente nei loro confronti, come se potessero potenzialmente generare storie incredibili, sebbene molte volte siano usati in maniera infantile e sbagliata?

È un po’ complicato, perché non sono cresciuto leggendo fumetti di supereroi, non è mai stata una mia passione. Gli unici fumetti di supereroi che ho davvero amato da bambino erano quelli di Captain Marvel degli anni Quaranta e primi Cinquanta. Li amavo perché erano davvero strani. Ma tutti i miei amici amavano i fumetti di supereroi, e sono cresciuto in mezzo a questi fan.

Penso che il mio rapporto con i supereroi sia ambivalente perché non li amo in quanto genere, ma nei paesi anglofoni sono stati i fumetti dominanti così a lungo che è come crescere in una famiglia piena di persone che non ami necessariamente. Non scegli la tua famiglia. I fumetti di supereroi sono una parte della famiglia in cui sono cresciuto. Non li ho scelti, probabilmente, se avessi potuto scegliere, avrei scelto diversamente, ma c’erano e ci sono, quindi sono interessato a provare a comprendere cosa li fa “funzionare”. In Sam Zabel e la penna magica li critico molto più apertamente, dico un sacco di cose negative, perché per un po’, per mantenermi, mi ero trovato a scriverli.

Zabel1

La frase che mi ha più colpito in Sam Zabel e la penna magica è “Siamo moralmente responsabili della nostra fantasia”. È una responsabilità verso sé stessi, o verso tutti i possibili lettori? So che ti sei personalmente esposto, anche con alcuni post su Facebook, nel dibattito sulla strage di “Charlie Hebdo” e sulle sue conseguenze. Quella frase mi ha innescato un collegamento diretto con quanto accaduto lo scorso gennaio.

Quando stavo scrivendo il libro, la domanda che emerse come centrale fu proprio “Dobbiamo assumerci delle responsabilità morali per le nostre fantasie?”. Ho scelto di aprire il libro con due citazioni. Una del poeta Yeats, che recita “Nei sogni iniziano le responsabilità”. L’altra di Nina Hartley, che è una performer e produttrice pornografica, e che ha detto alcune cose davvero intelligenti sul porno, che dice “Il desiderio non ha morale”. Ho voluto aprire il libro con queste due citazioni perché penso che entrambe siano vere. Anche se si contraddicono. Volevo che il libro esplorasse lo spazio che divide quelle due affermazioni.

Non avevo una risposta alla domanda, ma mi preoccupava, mi ossessionava. Continuavo a girare a vuoto intorno a essa, e volevo vedere se sarei stato in grado di trovare una risposta facendo il libro. Esattamente alla metà del libro, Sam dice, o almeno vorrebbe dire, “Siamo moralmente responsabili della nostra fantasia”, ma non può dirlo, perché non sa se sia vero. Sente l’urgenza di dirlo in quella particolare circostanza, ma poi ci ripensa… “Lo siamo davvero?”. Responsabili verso chi? Noi stessi? I lettori? La società? E responsabili di cosa? E se il reale valore delle fantasie fosse proprio di andare oltre ciò che è morale e giusto, ed esplorare proprio ciò che non è possibile né ragionevole? Non sa la risposta. Alcune persone leggono il libro come una riflessione polemica che nega la domanda, altri invece l’opposto. Ma per me non è nessuna delle due. Sono contento che le persone ci trovino quello che ci trovano, ma per me il libro è piuttosto una conversazione su questo tema.

Ogni volta che faccio un’affermazione cerco di minarla, e talvolta la mino disegnando proprio la fantasia che viene coinvolta, ma disegnandola in un modo che ne sottolinei il piacere, perché il piacere è esso stesso un argomento, è un’affermazione che riguarda la domanda iniziale. Il piacere ha un valore, e non si può non includerlo nella conversazione. Quando ho finito il libro, non mi sentivo come se avessi trovato una risposta chiara alla domanda, ma credo che ci sia una dimensione morale delle fantasie. Personalmente, se abbiamo una responsabilità morale, è la responsabilità di essere onesti, onesti verso noi stessi e verso gli altri, onesti su cosa siano davvero le nostre fantasie, e su come ci sentiamo a proposito di esse, il modo in cui ci creano eventualmente disagio, o in cui sentiamo che possono essere pericolose. Credo che abbia molto valore l’esplorazione delle fantasie che ci fanno sentire a disagio, e forse c’è un valore anche nel concedersi a esse. Ciò che mi mette più a disagio è quando distorciamo i nostri desideri e le nostre fantasie, perché pensiamo che sia quello che gli altri vogliano sentire.

Avevo finito il mio libro – e in un certo modo lo si può leggere in chiave di “Dovremmo pensare attentamente alle storie che desideriamo e alle immagini che creiamo” – quando avvenne la strage di Charlie Hebdo. Ero dall’altra parte del mondo, ma ovviamente conoscevo Charlie Hebdo. Sono molti anni che seguo il fumetto francese, conoscevo i fumetti di Wolinski e di Cabu, e apprezzavo particolarmente i disegni di Philippe Honoré.

Quando sono venuto a sapere ciò che è successo mi sono sentito scosso fino al midollo, anche perché il dibattito che si era generato nei paesi anglofoni, sull’onda del massacro, sembrava una versione distorta e contorta della conversazione che avevo portato avanti nel mio lavoro sulla possibile moralità del fumetto. Mi sentivo come se il dibattito che stava avendo luogo in America, in Inghilterra, in Nuova Zelanda fosse… Non sapevano affatto di cosa stavano parlando! E secondo me stavano anche cercando una soluzione semplicistica e per niente salutare alla domanda che ponevo nel libro. Era una soluzione che mirava a spegnere il dibattito, mentre io volevo una soluzione che lo accendesse. Aprire nuove possibilità, e aprire discorsi sulle conseguenze.

Tutto il dibattito in corso riguardava il “Non dovremmo dire certe cose, non dovremmo disegnare certe cose, dovremmo chiudere tutto”. L’ho trovato profondamente ripugnante. E così mi sono trovato decisamente coinvolto nel dibattito in Nuova Zelanda, ed è un dibattito tuttora in corso. Mi ha anche ricordato della mia esperienza in Inghilterra, quando lavoravo in una libreria, e scoppiò il caso di Salman Rushdie. Perché quello che accadde è che le persone si sentivano spinte  a sgridare Rushdie, a rimproverarlo. E questo aumentò quando persone molto intelligenti, ad esempio scrittori quali John Le Carré, sentirono l’esigenza di sminuire Rushdie, di farlo sembrare meno importante, meno di valore, sbagliato, malvagio. Sto cercando di capire cosa li muova. Ci provo tuttora. È un processo aperto, e non ho una risposta. Sono davvero interessato a leggere Catarsi, il nuovo libro di Luz. Penso che i fumettisti continueranno a scontrarsi con queste problematiche per un sacco di tempo.

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