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RecensioniSoft City, l'ossessiva distopia in acido di Hariton Pushwagner

Soft City, l’ossessiva distopia in acido di Hariton Pushwagner

«Nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo.»

Johann Wolfgang von Goethe, Massime e riflessioni

Benvenuti a Soft City, dove lo spettacolo è il consumo

Come molte opere bizzarre e interessanti anche il fumetto Soft City nasce dalla droga e, più precisamente, da una forte dose di LSD che il 29enne autore norvegese Hariton Pushwagner (pseudonimo d’arte di Terje Brofos) prende nel 1969 mentre si trova nella città di Frederikstad. Durante questo viaggio psichedelico l’autore tratteggia il primo schizzo su carta di un uomo, che chiama Mr. Soft, seduto a bordo di un’automobile in viaggio attraverso le grandi strade vuote di un’anonima metropoli del futuro.

Soft City_Hariton Pushwagner
La copertina di Soft City progettata da Chris Ware

La gioventù spericolata di Pushwagner

Hariton Pushwagner nasce nel 1940 a Oslo. Appassionato fin da giovane di arte e disegno – che usa per evadere mentalmente da un’atmosfera familiare tetra e opprimente – segue la sua passione e si laurea nel 1966 in Belle Arti e Illustrazione. Piacevolmente travolto dall’ondata bohémienne del movimento controculturale e anti-sistema di metà anni ’60, Pushwagner passa gli anni successivi della sua formazione artistica vagando tra le mecche creative del momento: Parigi, Londra, San Francisco, Beirut, passando per Ibiza (dove incontra Pablo Picasso) e Tangeri (dove conosce William Burroughs, nume tutelare della Beat Generation).

Dopo alcune peripezie abbastanza in linea con lo spirito libertario dell’epoca (tra cui vivere di elemosina, farsi arrestare per imbarco illegale su un aereo diretto a Madeira, subire un trattamento sanitario obbligatorio in un ospedale psichiatrico in seguito al forte uso di LSD e hashish, fuggire da un incendio in un hotel e, non ultimo, diventare padre di sua figlia Elisabeth), nel 1969 Pushwagner, in seguito alla rivelazione artistica ottenuta durante il viaggio psichedelico a Frederikstad, decide di scrivere un fumetto sull’alienazione del mondo contemporaneo e sulla rottura prematura dei sogni post-Sessantotto.

Nel 1975 Pushwagner finisce l’opera, che chiama Soft City, per poi perderne misteriosamente gli originali nel 1979 durante un viaggio verso Oslo (questo e molti altri dettagli biografici sono spiegati per esteso nel recente documentario dedicato all’autore norvegese). Nel 2002 il portfolio integrale che componeva Soft City riemerge in modo rocambolesco in Norvegia e nel 2008 viene pubblicato per la prima volta dalla casa editrice locale No Comprendo dopo ben 40 anni dalla sua creazione.

Nel 2016 Soft City esce finalmente anche in inglese in un’edizione a copertina rigida di grandi dimensioni (35 x 25 cm) per la New York Review Comics, emanazione editoriale della famosa rivista letteraria New York Review of Books che dall’anno scorso sta costruendo un notevole catalogo di fumetti di qualità. L’introduzione dell’opera e la curatela estetica è stata affidata a uno dei più grandi fumettisti e designer viventi, Chris Ware, che ha già al suo attivo numerose riedizioni storiche di pregio tra cui quelle di Gasoline Alley e di Krazy Kat.

Hariton Pushwagner
Pushwagner, l’autore di Soft City, nel 2015 (foto di Jimmy Linus)

Dacci oggi la nostra distopia quotidiana

Se vi dovessi descrivere questo libro in una frase vi direi che parla di un giorno qualsiasi vissuto da una famiglia qualsiasi in un’ipotetica città autoritaria del futuro, chiamata appunto Soft City. Concentriamoci sulle influenze artistiche più visibili che hanno contribuito a plasmare l’ideologia testuale e visiva del libro: il film Metropolis di Fritz Lang per l’aspetto grandioso dei panorami urbani e Tempi Moderni di Charlie Chaplin per la narrazione dell’alienazione industriale; la classica triade delle distopie letterarie della prima metà del ‘900 – Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley, Noi di Zamjatin e 1984 di George Orwell – per il tono apocalittico di denuncia contro lo sfruttamento sociale e politico; il celebre libro Psicologia delle Folle di Gustave Le Bon, che già a fine ‘800 avvisava del crescente rischio omologazione per le allora nascenti società di massa; le controverse teorie di Wilhelm Reich sul nesso profondo che lega sessualità repressa, nevrosi e dittature autoritarie.

«Quali che siano gli individui che compongono la folla, per simili o diversi che possano essere il loro modo di vita, le loro occupazioni, carattere e intelligenza, il solo fatto di essere trasformati in massa li dota di una sorta di anima collettiva in virtù della quale essi sentono, pensano e agiscono in modo del tutto diverso da quello in cui ciascuno di essi, preso isolatamente, sentirebbe o penserebbe e agirebbe. Certe idee, certi sentimenti nascono e si trasformano in atti soltanto negli individui costituenti una massa».

Gustave le Bon, Psicologia delle folle

Le strade di Soft City
Le strade infinite di Soft City

L’inferno è un posto dove ogni giorno è sempre uguale

Il mondo di Soft City è un enorme alveare urbano controllato da un certo Mr. Soft (vi ricordate la visione iniziale di LSD che ispirò a Pushwagner l’idea dell’opera?), un colletto bianco uguale a tutti gli altri che osserva ogni giorno la città intera da una posizione centrale di comando. Grazie a una grande sala dotata di schermi multipli in puro stile panopticon (simile alla famosa scena di Adrian Veidt in Watchmen, per intenderci), Mr. Soft impartisce ordini a lavoratori, donne, soldati e industrie della città.

La scelta visiva di Pushwagner è chiara: nessun personaggio del libro è caratterizzato in modo particolare dal punto di vista estetico o emotivo, ognuno è intercambiabile con i suoi simili e perfettamente omologato al sistema sociale (un tema già anticipato da Il numero 12 ti assomiglia, bell’episodio tv di Ai confini della realtà datato 1963). In Soft City un corpo è un qualsiasi corpo, un’anima è una qualsiasi anima. Gli unici brevi attimi di libertà mentale dei cittadini di Soft City, subito repressi dal duro ritorno alla realtà dei fatti , sono rappresentati da Pushwagner con piccoli baloon che contengono al proprio interno immagini di sogni e desideri inconfessabili (vacanze tropicali, tempo libero nella natura, volare con un aereo, camminare mano nella mano con il proprio partner).

«Le utopie appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse un tempo. E noi ci troviamo attualmente davanti a una questione ben più angosciosa: come evitare la loro realizzazione definitiva? Le utopie sono realizzabili. La vita marcia verso le utopie. E forse un secolo nuovo comincia; un secolo nel quale gli intellettuali e la classe colta penseranno ai mezzi d’evitare le utopie e di ritornare a una società non utopistica, meno perfetta e più libera.»

Nicolas Berdiaeff

Il rito del saluto famigliare del mattino
Il rito del saluto famigliare del mattino

La libertà fa paura? Prendi una pillola

Soft City è quasi un libro muto. Dico quasi perché un po’ di testo c’è – nelle scritte pubblicitarie della città, nei titoli sensazionalistici dei giornali e nei pochi dialoghi dei personaggi – ed è fortemente influenzato dal cut-up, lo stile di scrittura automatico creato negli anni’60 dal pittore Brion Gysin (padre tra le altre cose della famosa scultura cinetica Dreamachine) e diventato poi popolare grazie allo scrittore beat William Burroughs (che nel 1961 aveva pubblicato a sua volta un libro sui dispositivi di controllo che incombono sull’essere umano intitolando l’opera, guarda caso, La macchina morbida). I titoli dei giornali che si leggono ogni giorno a Soft City sono prevalentemente a base di sesso, violenza e paura – non molto differenti da certi quotidiani di oggi, insomma. Ecco alcuni divertenti esempi di titoli in puro stile cut-up: Non Stop Soft Kill; In Kleenex Eternity; Dream Hamburger Macht Arbeit; Clean Bomb The Happy Way.

Se è vero che l’uso pesante di LSD e hashish da parte dell’autore norvegese all’epoca della genesi del libro ha sicuramente influenzato molto il tono decisamente paranoico e apocalittico dell’opera, bisogna anche dire però che Pushwagner in Soft City prende notevolmente le distanze dalle sostanze psicotrope. Le droghe in questo libro non sono più infatti le porte della percezione lodate da Aldous Huxley nel suo saggio del 1954 ma diventano invece strumenti di intorpidimento e sottomissione al sistema dominante: le persone di Soft City ogni mattina prendono anfetamine (la pillola “Life”) per svegliarsi e ogni sera sonniferi (la pillola “Sleep”) per dormire, in un implacabile ciclo continuo di produttività forzata e riposo artificiale. Forse aveva ragione Sigmund Freud, il quale sosteneva che lo stato di regressione e la disponibilità degli individui alla sottomissione sono presenti in tutte le civiltà e sono costanti del comportamento umano (una tesi portata avanti molti decenni dopo anche dal famoso saggio del 1985 Divertirsi da morire scritto dal critico dei media Neil Postman) .

All’epoca della creazione del libro, a cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70, gli effetti più nefasti dell’urbanizzazione – l’alienazione, la depressione e la solitudine – erano ancora in fase embrionale ma tuttavia già ben visibili per l’autore norvegese: Soft City è l’incarnazione più pura (e decisamente naif a livello ideologico e visivo) del movimento anti-sistema del ’68 e della relativa denuncia contro lo sfruttamento delle persone da parte del complesso economico-industriale dominante (sembra strano ma 40 anni fa non era ancora il tempo dell’auto-sfruttamento individuale spacciato per libertà personale, così come accade oggi).

In coda per la spesa al supermarket
In coda per la spesa al supermarket

Il rumore che fa la rivoluzione quando si spezza

Soft City è un inquietante poema visivo, una favola grottesca per adulti resi bambini dal consumismo infantilizzante (quello che, per scopi di vendita e di profitto, tratta gli adulti come bambini e i bambini come adulti). Pushwagner attraverso le pagine dense di Soft City ci parla in modo spietato della fine dei sogni rivoluzionari e del modo in cui la controcultura del’68 è stata normalizzata e addomesticata per essere trasformata nell’ennesimo prodotto di consumo.

«Strani ricordi in quella nervosa notte a Las Vegas. Sono passati 5 anni? 6? Sembra una vita. Quel genere di apice che non tornerà mai più. San Francisco e la metà degli anni ’60 erano un posto speciale ed un momento speciale di cui fare parte. Ma nessuna spiegazione, nessuna miscela di parole, musica e ricordi poteva toccare la consapevolezza di essere stato là, vivo, in quell’angolo di tempo e di mondo, qualunque cosa significasse. C’era follia in ogni direzione, ad ogni ora, potevi sprizzare scintille dovunque, c’era una fantastica, universale, sensazione che qualsiasi cosa facessimo fosse giusta, che stessimo vincendo. E quello, credo, era il nostro appiglio, quel senso di inevitabile vittoria contro le forze del vecchio e del male, non in senso violento o cattivo, non ne avevamo bisogno, la nostra energia avrebbe semplicemente prevalso, avevamo tutto lo slancio, cavalcavamo la cresta di un’altissima e meravigliosa onda. E ora, meno di 5 anni dopo, potevi andare su una ripida collina di Las Vegas e, se guardavi ad ovest, e con il tipo giusto di occhi, potevi quasi vedere il segno dell’acqua alta, quel punto, dove l’onda infine si è infranta ed è tornata indietro.»

Hunter S. Thompson, Paura e Delirio a Las Vegas

Le incredibili scenografie urbane di Soft City
Le incredibili e complesse scenografie urbane disegnate da Pushwagner in Soft City

Produci, consuma, crepa: la sinfonia dell’alienazione urbana

Pushwagner utilizza un tratto tecnicamente molto semplice, in bianco e nero, e con maniacalità ossessiva riempie la maggior parte delle pagine di Soft City con scenografie urbane iper-dettagliate fatte di centinaia di figure ripetute: colletti bianchi in marcia verso il luogo di lavoro, file di auto in coda nelle strade, uffici enormi con decine di scrivanie, grandi palazzi in stile sovietico, corsie interminabili di centri commerciali. L’horror vacui visivo dell’autore norvegese rispecchia a sua volta l’horror vacui emotivo degli anonimi personaggi del libro, incapaci di interagire tra loro in modo autentico e non omologato.

Pushwagner sa usare le pagine in modo molto cinematografico, alternando vasti panorami urbani a desolanti primi piani delle persone, e struttura spesso la scansione delle vignette come lenti movimenti zoom di macchina da presa, ricercando continuamente la simmetria nella composizione. Le ispirazione visive dell’autore norvegese non si fermano solo a Metropolis di Fritz Lang e a Tempi Moderni di Charlie Chaplin ma pescano a piene mani dall’immaginario architettonico modernista del ‘900: la Città Nuova immaginata del futurista Antonio Sant’Elia, la Ville Contemporaine e la Ville Radieuse progettate dell’urbanista Le Corbusier, la città di Brasilia costruita da Lùcio Costa e il quartiere degli affari La Défense a Parigi.

Soft City contiene senza dubbio notevoli anacronismi visivi – il futuro distopico viene immaginato con persone e ambienti urbani decorati ancora in stile anni ’60 – ma nonostante ciò Pushwagner utilizza al meglio le sue risorse di illustratore per avvisarci: se si progetta l’ambiente urbano senza tener conto dell’essere umano, perché ritenuto superfluo, si rischia di trasformare l’architettura in strumento oppressivo di controllo sociale e di disgregazione comunitaria.

«All in all you’re just another brick in the wall.»

Pink Floyd, The Wall

La scrittura in stile cut-up dei titoli dei giornali
La scrittura in stile cut-up dei titoli dei giornali

Un futuro già scritto?

Nel 1969, ai tempi della creazione di Soft City, il 36 per cento della popolazione globale viveva in aree urbane. Nel 2050 è previsto che questa percentuale passi al 66 per cento: due persone su tre vivranno in città, un cambiamento senza precedenti nella storia della civiltà umana (guardate il World Population Clock se volete vedere lo strano spettacolo della crescita demografica in tempo reale).

La realtà immaginata nel 1969 da Soft City è eccessivamente apocalittica e paranoica? Sì, senz’altro.

Le profezie contenute in Soft City si sono avverate? Per la maggior parte no, per ora.

Il mondo di Soft City è il futuro che ci aspetta? Scendete in strada, fate un giro nei centri commerciali e negli uffici e controllate di persona.

«Più in forma, più felice / Più produttivo / Comodo / Non beve troppo / Esercizio regolare in palestra, tre giorni alla settimana / Andare più d’accordo con i tuoi colleghi / Rilassato / Mangia bene, niente cibi precotti e grassi saturi / Un automobilista paziente, un’auto più sicura / Bambino che sorride sul sedile posteriore / Dormi bene / Niente incubi, niente paranoie / Buono con tutti gli animali, non butta i ragni nel lavandino / Si mantiene in contatto con i vecchi amici, un drink insieme ogni tanto / Controlla spesso il suo credito alla banca / Morale / Buco nel muro / Favori per favori / Affezionato ma non innamorato / Fa beneficenza / Tutte le domeniche spesa all’ipermercato / Non uccide le farfalle e non versa acqua bollente sulle formiche / Lava la macchina, anche di domenica / Non ha più paura del buio o delle ombre del giorno / Niente di così ridicolo e adolescente, niente di così infantile / Un ritmo migliore, più lento e calcolato / Senza via d’uscita / Ora lavora in proprio / Interessato ma impotente / Un membro della società informato e conscio / Pragmatismo, non idealismo / Non piange in pubblico / Minor rischio di malattie / Pneumatici che fanno presa sul bagnato / Immagine di bambino legato al sedile posteriore / Una buona memoria / Piange ancora per un bel film / Bacia ancora con la saliva / Non più spaventato e disorientato / Come un gatto legato a un bastone che è portato nel mezzo della merda secca d’inverno / La capacità di ridere della debolezza / Calmo / Più in forma, più sano e più produttivo / Un maiale in una gabbia sotto antibiotici.»

Radiohead, Fitter Happier

Soft City
di Hariton Pushwagner
New York Review of Comics, 2016
160 pagine, 26 €
(acquista online)

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