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Mondi POPAnimazioneLa "maghetta" per eccellenza dell'animazione giapponese: l'incantevole Creamy

La “maghetta” per eccellenza dell’animazione giapponese: l’incantevole Creamy

di Jacopo Nacci*

È il primo di luglio del 1983 quando Mahō no Tenshi Creamy Mami (L’incantevole Creamy in Italia) compare sugli schermi televisivi giapponesi, ereditando e rinnovando la lunga tradizione di storie di ragazzine alle prese con la magia, genere noto anche in Italia fin dai tempi di Majokko Meg-chan (Bia, la sfida della magia). Prodotto dallo Studio Pierrot, forte delle idee di Kazunori Itō e del chara design di Akemi Takada – entrambi già all’opera nella trasposizione animata di Urusei Yatsura, vale a dire Lamù – l’anime racconta le avventure di Yū Morisawa, una bambina di dieci anni di Tokyo, figlia dei due gestori di un chiosco di crêpe.

Un giorno di luglio, Yū vede una grossa arca di cristallo solcare il cielo, indossa i pattini e si lancia all’inseguimento della nave, finché non viene attratta al suo interno. Qui conosce il folletto Pino Pino, proveniente dalla Stella Piumata. Pino Pino dona a Yū una trousse magica, grazie alla quale la bambina potrà trasformarsi in una sedicenne, e lascia a vegliare su di lei due entità – una femminile, Posi, e una maschile, Nega – che assumono la forma di due mici. Secondo le indicazioni del folletto, Yū disporrà di poteri magici per un anno e a patto che restino un segreto. Nel giro di qualche giorno, Creamy Mami – questo il nome che Yū sceglie per la propria versione sedicenne – viene scritturata come cantante dalla Parthenon, l’etichetta discografica di Shingo Tachibana, il quale dedica alla nuova pupilla ogni attenzione trascurando la già notissima Megumi Ayase, che non la prende molto bene. Di lì a qualche settimana, Creamy Mami diventa una star del pop (e Takako Ōta, la cantante che le dà voce, dà inizio alla propria carriera). A perdere fin da subito la testa per lei è Toshio, quattordicenne di cui Yū è innamorata senza esserne ricambiata.

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La copertina del manga tratto da Creamy Mami, nella nuova edizione di Star Comics

Nel genere mahō shōjo le caratteristiche di una storia si basano sostanzialmente su due variabili: la natura della ragazzina e il tipo di potere magico esercitato. Rispetto alla prima, Creamy Mami compie una scelta insolita per la sua epoca: Yū è una bambina normale, non proviene da un regno fatato, non ha un patrimonio ontologico di poteri magici, insomma, come si dice in gergo, Yū è una maghetta, non una streghetta. La seconda caratteristica fondamentale è che il suo poetere consiste nel diventare più grande, espediente narrativo che lo Studio Pierrot userà nelle successive produzioni majokko, Mahō no yōsei Persia (Evelyn e la magia di un sogno d’amore) e lo splendido Mahō no sutā majikaru Emi (Magica Emi), mentre sarà abbandonato in Mahō no Idol Pastel Yūmi (Sandy dai mille colori), che chiuderà quella che diventerà la tetralogia classsica delle maghette.

Per comprendere appieno la portata della novità che Creamy Mami rappresenta vale la pena di confrontarla con la sua diretta ascendente, la streghetta Momo, di Mahō no Princess Minky Momo (Il magico mondo di Gigì – Benvenuta Gigì), le cui avventure erano iniziate un anno prima. Ciò che prima di tutto salta agli occhi sono le somiglianze e le differenze sotto il profilo visivo. La figura di Momo, con i suoi capelli voluminosi e i suoi accessori, aveva già traghettato il mahō shōjo negli anni Ottanta, ma tutto intorno a lei viveva ancora delle soluzioni grafiche del decennio precedente. Creamy Mami, forte dell’eredità di Urusei Yatsura, è invece completamente immerso in un’estetica anni Ottanta portata al parossismo. Non solo ne rappresenta una perfetta summa, ma ha probabilmente contribuito a definirla. Non è una questione di poco conto: senza i fondali pastello, senza la trousse di plastica che nasconde un visore elettronico, senza i neon, senza i colori sgargianti o gli ambienti minimal, Creamy Mami sarebbe impensabile, per motivi che, come vedremo, sono strettamente legati a ciò che racconta.

La seconda e fondamentale differenza sta nell’impianto narrativo. Momo, principessa di un regno fatato inviata sulla Terra, usava la magia per diventare più grande e così risolvere più agevolmente situazioni difficili; la versione adulta di Momo non svolgeva un ruolo fisso, si limitava ad affrontare di volta in volta problemi particolari, trasformandosi ora in veterinaria, ora in pompiera, ora in vigile e così via. Invece Mami (così i giapponesi chiamano Creamy) ha una professione ben definita. È evidente che in entrambi i casi il tema è quello della crescita e dell’adolescenza come periodo di transizione. Ma Minky Momo gioca a una sorta di pragmatica educativa e mette una ragazzina dotata per natura di poteri magici alle prese con versioni possibili e realistiche della sua esistenza futura. Non a caso, la sua trasformazione consiste in un salto anagrafico dai dodici ai diciotto anni. Creamy Mami opera un perfetto rovesciamento di questo impianto: sul versante dell’infanzia pone tutto nelle mani di una ragazzina normalissima, sul versante della trasformazione inventa una proiezione grandiosa e immaginifica del sé; il tutto mantenendo una variazione anagrafica di sei anni ma abbassandola significativamente d’età, non più dai dodici ai diciotto anni, bensì dai dieci ai sedici, una mossa che sposta il cuore del problema: non si tratta più di imparare a praticare la vita degli adulti; si tratta di investigare le strategie psicologiche volte ad affrontare la presa di coscienza dello scorrere del tempo e della crescita in termini globali.

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Creamy Mami funziona come un gigantesco dispositivo che tiene in equilibrio la pulsione verso il futuro e il terrore della crescita. Lo fa mostrandoci apertamente solo la prima, eppure dietro la materia riusciamo ad avvertire l’antimateria, dietro l’evidenza la rimozione, secondo lo stesso schema che l’anime segue sul piano visivo quando su un piatto della bilancia pone tonnellate di plasticissima estetica pop, e sull’altro piatto l’invisibile ma altrettanto pesante apparato immateriale, metafisico, che si intuisce dietro ogni raggio, lampo, pulviscolo e globo luminoso che scaturisce da un’altra dimensione come un’irruzione quantica.

Analogamente, la drammaticità del problema del tempo è resa impalpabile dalla sua stessa onnipresenza, perché il concetto di tempo viene declinato ossessivamente e in ogni modo possibile: c’è il tempo regolare dei trecentossessantacinque giorni di Yū, scanditi dalle apparizioni dell’arca – al principio, a metà e alla fine – e serializzati nella prima apparizione televisiva giapponese in perfetta corrispondenza con l’anno solare reale, un episodio a settimana per un totale di cinquantadue episodi; c’è il tempo bloccato o stressato o rallentato dei mondi fantastici nei quali si svolge una buona parte degli episodi; e c’è la dimensione assoluta e atemporale della Stella Piumata, un mondo che ognuno di noi conosce senza sapere di conoscerlo, una dimensione di cui siamo testimoni prima di nascere e della quale possiamo anche avere ricordi. Incredibilmente, tutto funziona alla perfezione, e Creamy Mami riesce a essere quello che è: uno scanzonato anime per ragazzini in età scolare.

Non che renda le cose semplici ai suoi piccoli spettatori, ma chiunque l’abbia visto da piccolo sa quanta parte del suo fascino risieda proprio nel gioco sottile e perverso messo in moto dagli autori: chi si immedesimi in Yū assiste alla sistematica ostentazione di indifferenza da parte dell’oggetto dei desideri Toshio, mentre la più irreale delle proiezioni di una ragazzina prende vita e glielo soffia sotto al naso; d’altro canto, chi subisce il fascino di Yū non riesce a comprendere Toshio, ed è costretto a mettersi nei panni del suo amico, il timido, enorme Midori (sì, il nome è tipicamente femminile), innamorato di Yū e chiaramente senza la minima speranza di successo. L’anime non concede scampo: nessuno può davvero immedesimarsi in Mami, perché Mami esibisce la sua natura di proiezione; allo stesso modo nessuno che guardi Creamy Mami può immedesimarsi in Toshio, semplicemente perché uno come Toshio non guarderebbe un anime come Creamy Mami.

E dunque, così come sul piano dei concetti ogni presenza significa una rimozione, sul piano dei personaggi l’oggetto del desiderio è sempre spostato di una posizione. Creamy Mami funziona come gioco di specchi inclinati, di rinvii, di sostituzioni, sotto molteplici punti di vista, qualsiasi percorso allegorico si scelga: Mami per Yū è contemporaneamente un presente concreto e un futuro irreale; nel rapporto tra Yū e Mami è possibile leggere un invito a prendersi cura di sé assumendo una personalità più adulta che faccia da balia a se stessi, ma al contempo non si può fare a meno di notare come Yū appaia più svelta e pratica di Mami, come sia piuttosto lei a occuparsi del personaggio cui ha dato vita; e così via, fino alla stessa dinamica della vicenda sentimentale di Yū e Toshio, che è in fondo solo una rappresentazione di una certa fenomenologia dell’amore, essa stessa paradossale: se noi amiamo le persone per ciò che sono, le aiutamo a diventare ciò che sono destinate a essere, ma se amiamo ciò che sono destinate a essere piuttosto che ciò che effettivamente sono, produrremo un disastro.

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E in Creamy Mami il disastro arriva a metà serie, con il trittico di Natale-Capodanno, formato dagli episodi 25, 26 e 27, che vengono trasmessi il 16 dicembre, il 23 dicembre e il 6 gennaio: Toshio assiste inavvertitamente alla trasformazione di Yū in Mami, e Mami perde la possibilità di tornare a essere Yū. In special modo l’episodio 26 è eccezionale per tonalità emotiva: si sente chiaramente l’entità del crollo del non-detto tra i due ragazzi, e se si sta bene attenti si può avvertire anche, in Toshio, lo scioglimento di qualcosa che somiglia molto a un autoinganno; per lo spettatore l’agognato contatto umano con i protagonisti arriva all’improvviso, ed è potentissimo.

Interviene Pino Pino, chiama i ragazzi sull’arca, spiega che la questione riguarda solo chi vede e chi viene visto, quindi si rivolge a Toshio invitandolo a esprimere un desiderio, e Toshio chiede che Mami torni a essere Yū. La ragazzina risolve dunque il problema ma, secondo la regola, ha perso i poteri. Non è un dramma, Toshio ora sa tutto, i due tornano sulla Terra e sembra che finalmente Toshio voglia una relazione con Yū. Si capisce subito però che qualcosa non va: Toshio si comporta come il ragazzo di Yū ma si domanda ad alta voce se Yū crescendo diventerà davvero come Mami. Insomma, Toshio non è pronto: è interessato non a Yū ma all’immaginario che ha appena trasferito su di lei, in un gioco di rinvii proiettivi in cui si mischiano il piano allegorico Yū/Mami e quello psicologico di Toshio. Tuttavia la questione è irrilevante: l’ultimo dell’anno – ep. 27 – avviene il completo ripristino dei poteri, direttamente sulla Stella Piumata, in cambio della volontaria rinuncia, da parte di Toshio, al ricordo della scoperta dell’identità di Mami.

La seconda parte della serie dunque inizia da una situazione azzerata, come se non fosse successo niente, e procede fino al trittico finale, che inizia il 15 giugno con l’episodio 50, in corrispondenza dell’irrompere dello Tsuyu, la stagione delle piogge: mentre Yū/Mami si prepara per l’ultimo concerto prima della revoca dei poteri, Toshio scopre un nastro sul quale ha registrato un diario nei giorni immediatamente precedenti alla perdita della memoria; ricorda tutto proprio durante il live, al termine del quale Yū e Toshio se ne vanno finalmente insieme, sotto l’ombrello, secondo l’iconografia dell’ai ai gasa, ma lasciandoci con un interrogativo: se Toshio non era pronto a metà serie, cosa è cambiato in lui ora? E perché è cambiato? Se cerchiamo una risposta nell’arco narrativo del ragazzo, non la troviamo.

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È altro ciò che contraddistingue la seconda metà della serie: le nuove prospettive e le nuove esperienze sentimentali di Yū/Mami, gli amori inespressi, fulminei e delusi. Già nell’episodio dedicato a San Valentino, gli spiriti della Stella Piumata che si trasferiscono nei regali destinati all’amato esitano a entrare in quello di Yū. Nel frattempo, nella vita di Yū è arrivato Mamoru, che intrattiene con la ragazzina una relazione di amicizia molto stretta, e anche Midori decide di farsi avanti in modo più deciso. Ma è sul versante di Mami che le emozioni sono potenti e significative: prima c’è l’episodio del meschino Hyōdō, nel quale Mami soccombe platealmente al fascino di denaro e potere, e poi quello struggente del pianista Takahiro, che fa palpitare il cuore di Mami e vacillare le convinzioni di Yū sulla vera entità del suo amore per Toshio.

Insomma, Yū/Mami scopre la possibilità di altre vite, e l’ultimo colpo – Takahiro – arriva appena prima dell’episodio in cui sia Yū (anche se non ci viene mostrato) sia Mami scambiano il primo bacio, entrambe con Toshio. Cosa sia ciò che spinge Yū nelle braccia dell’amico d’infanzia Toshio – del quale conosce a memoria ogni aspetto del carattere –, per quale motivo siano la psiche e i sentimenti di Toshio a cambiare di riflesso alle esperienze di Yū, se le esperienze di Mami rappresentino qualcosa di estraneo a Yū, destinate al piano immaginifico della proiezione: questa matassa di impliciti Creamy Mami la affida allo spettatore. Se la sbrogliasse lui, con i suoi fantasmi di crescita, compromessi, bisogno di sicurezza, desideri e oscuri motori del desiderio.

Negli anni successivi escono diversi special dedicati a Creamy Mami, tra i quali, in particolare, due OAV che protraggono e complicano il finale di serie. Il primo, Forever Once More (Il ritorno di Creamy), del 1984, ripropone gli eventi degli ultimi tre episodi e li completa con un numero di magia di Posi e Nega che, tornati a distanza di due mesi, simulano un’apparizione live di Mami. Con Forever Once More siamo ancora nel clima più fiabesco e onirico di Creamy Mami. È nel 1985, con il secondo OAV, Long Goodbye (Il lungo addio), che la storia sferza vigorosamente nel territorio critico dell’adolescenza come mutazione, ibridazione, anche dolorosa. Sono passati due anni dall’ultimo live di Mami, l’anno scolastico è al termine e Yū si prepara a passare alle scuole medie. Nel frattempo c’è chi ha l’impressione di vedere Mami, ma sono traveggole, si tratta di Yū: la simbologia della crescita imminente e anticipata dallo sguardo altrui è chiara. E questo mentre il mondo degli adulti non lascia prevedere nulla di buono: l’annunciato matrimonio tra Shingo e Megumi è un incubo di frustrazioni e assenza d’amore già prima di essere celebrato.

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In Long Goodbye tutto il rimosso della serie esplode in un vero e proprio conflitto di mondi, e su due distinti piani allegorici: uno è quello del racconto nel racconto, il film “La storia dei due mondi” in lavorazione alla Parthenon, nel quale il nostro mondo e il mondo degli androidi, fino a un dato momento debitamente separati, rischiano di entrare in collisione. Il secondo è il piano degli eventi reali, nel quale il passaggio della cometa di Halley riattiva in modo incontrollato la metamorfosi di Yū in Mami: lo slittamento dalle cause magiche a quelle naturali è significativo, ed è rappresentato sopra le righe quando, nel frangente della prima inattesa trasformazione, Yū abbandona gli amici durante un picnic in preda a quello che sembra un violentissimo attacco di nausea, viene indondata da una luce e quando si riprende dal malore non è Yū, è Mami. Da questo momento Yū sarà se stessa di notte e Mami di giorno senza poterci fare nulla.

Sorpresa da Shingo, Mami viene ingaggiata per il film: la sceneggiatura prevede che nella prima parte la guerriera umana interpretata da Mami, Lily, sconfigga Theta, la ginoide interpretata da Megumi, per poi rimanere vittima di un incidente e lasciare il campo, nella seconda parte, alla seconda guerriera umana, Aya, interpretata da Megumi, che vincerà definitivamente sugli androidi battendo una seconda ginoide interpretata da Mami, Aura. Prima che inizi la seconda fase delle riprese, compaiono Posi e Nega e domandano a Yū se voglia annullare l’effetto della cometa o ripristinare i poteri magici. Yū sceglie la magia naturale, quella del suo rapporto con Toshio. E così è Yū a impersonare la ginoide Aura. Questa volta Creamy Mami è scomparsa davvero, e non tornerà più nella sua continuity.

Due anni più tardi, però, nel 1987, c’è spazio per un divertissement che è divertissement fino a un certo punto: in Majokko Club. Alien X dalla dimensione A, Yū e le sue colleghe dello Studio Pierrot – Persia, Mai e Yūmi – sono ingaggiate per recitare in un film di fantascienza nel quale alieni tentacolari – simili alle creature dei tentacle rape hentai, ma dotati di un occhio al termine del tentacolo – aggrediscono le donne terrestri procurando alla vittima un immediato invecchiamento. Nel film dentro il film, le ragazze ricevono le loro bacchette magiche in seguito a una misteriosa abduzione al cielo, e si trasformano nelle loro controparti, in tuta da battaglia. Scovato il baccello originario, riescono a distruggerlo. Uscite dagli studi cinematografici, però, le ragazze si troveranno davanti di nuovo i maledetti tentacoli. «L’avventura delle ragazze è appena iniziata», recita l’epilogo.

*Jacopo Nacci è autore del saggio Guida ai Super Robot. L’animazione robotica giapponese dal 1972 al 1980 (2016, Odoya), del quale è possibile leggere un estratto QUI.

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