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Jack Kirby, il Re dei comics

Jack Kirby era il XX secolo. Jack Kirby era l’immigrato stipato negli appartamenti di New York (Street Code). Era il ragazzino tosto del ghetto i cui giorni di lotta di strada lo hanno preparato a essere un guerriero (Boy Commandos). Era il fervore patriotico che fece vincere la guerra al Nazismo (Capitan America). Era il veterano che cercava pace negli agi della vita domestica (Young Romance). Era il panico un po’ più che demente nei confronti della sovversione comunista (Fighting American). Era la corsa allo spazio e la promessa della scienza (Sky Masters, Reed Richards). Era la moglie intelligente intrappolata nel fascino femminile, costretta ad accettare il ruolo di genere (la Donna Invisibile). Era la paura delle radiazioni e del fallout nucleare (Hulk). Era il movimento dei diritti civili e la liberazione del Terzo Mondo (Pantera Nera). Era il complesso militare industriale (Nick Fury). Era gli hippy che rifiutano il consenso della Guerra Fredda e volevano creare la loro controcultura (i Forever People). Era l’artista che cercava di scappare dal suo retroterra degradante (Mister Miracle). Era il femminismo (Big Barda). Era Nixon e la destra religiosa (Darkseid e Glorioso Godfrey). Era il vecchio soldato stanco da una vita di battaglie (Captain Victory). Ci sono stati pochi sviluppi significativi nella storia del ventesimo secolo americano che non sono stati in qualche modo rivisti dalla sensibilità bizzarra di Kirby. Jack Kirby era il XX secolo.

– Jeet Heer, Comics Comics

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Il giovane Kurtzberg

Jack Kirby pensava di essere uno di quegli attori che vedeva al cinema nei ruoli tosti, come James Cagney o John Garfield. Quando gli capitava di descrivere il suo quartiere, Kirby terminava sempre dicendo «Non accettai mai l’East Side».

La gente del Lower East Side, il quartiere di New York in cui era nato, oltrepassava la legge per vivere meglio, sembrare meglio e fare cose migliori. Da piccoli, prima di fare a botte con i ragazzini degli altri quartieri, la gang di Kirby strofinava la gobba di un ragazzo come segno di buona fortuna. Si domandava perché lo facessero e, poi, perché il ragazzo si lasciasse fare una cosa del genere. «Io non posso fare le cose che fate voi, non posso correre veloce quanto voi o picchiare forte quanto voi» fu la risposta «Ma così sono uno di voi». Il ricordo verrà messo in finzione nel racconto breve Street Code, uno dei pochi lavori con espliciti riferimenti autobiografici.

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Doppia tavola da “Street Code” (Clicca per ingrandire)

Il mondo del giovane Kirby era tutto fatto di legno. Non c’era ferro o acciaio in alcun punto dell’appartamento. C’era una sola finestra, niente era mai pulito davvero e per loro la vacanza era stare seduti sulle scale antincendio del palazzo, gambe penzoloni e guardare la vita della strada fluire sotto i piedi. Quella povertà che non riusciva ad accettare per i suoi genitori era la stessa che non avrebbe mai voluto imporre alla propria famiglia, una volta arrivato a costruirsene una.

Nel 1939, Will Eisner aveva accolto Jack Kirby nel suo studio, Eisner & Iger. Lì avrà modo di conoscere Joe Simon, con cui instaurerà un fruttuoso sodalizio. Si trovavano bene, Simon era uomo d’affari e di facciata, poteva occuparsi di tutto quello che a Kirby non interessava.

Nello studio di Eisner e Iger, gli artisti venivano forniti di asciugamani per lavarsi. Scoprirono tardi che il servizio era gestito dalla mafia e, quando questi iniziarono a chiedere sempre più soldi, pensarono di cambiare rifornitore: «Ci venne a trovare il loro venditore» raccontò Eisner. «Aveva una cravatta bianca, un cappello nero, il naso rotto. Scarface, in pratica. Ci chiese se fossimo scontenti del servizio. “Non c’è nessun altro che può fornire questo edificio”. Arriva Jack, che stava lavorando nell’altra stanza. “C’è qualche problema? Noi gli asciugamani possiamo prenderli da chi ci pare”».

Di fronte alla risolutezza di Kirby, il venditore fece marcia indietro: «Sentite, vogliamo risolverla amichevolmente. Non vogliamo problemi». Ricordando l’episodio, Eisner sottolineava sempre la differenza di stazza dei due, il gangster alto e piazzato, Kirby poco coordinato e basso. «Senti, Will, se questo si ripresenta qui, chiamami che lo pesto per bene».

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Il “metodo Marvel”

La Marvel aveva due modi di litigare con Jack Kirby. Uno era rifiutarsi di stipulare contratti a lungo termine o più remunerativi. L’altro, negargli qualsiasi cosa oltre la paga a cottimo, sia in termini di royalty sia in ambito creativo. Furono le intromissioni, le piccole e grandi mancanze di riconoscimento – morale o economico – che portarono Kirby a lasciare l’azienda.

Il “metodo Marvel” non lasciava intendere chiaramente quale fosse il peso dei rispettivi contributi. In questo modo, secondo molti, Stan Lee si era preso più meriti del dovuto, non solo nei confronti di Kirby ma verso tutti i disegnatori con cui aveva collaborato.

La questione è un punto dibattuto nel canone storico. Le posizioni critiche occupano tutto lo spettro: troverete fonti pronte ad assicurarvi la totale estraneità a qualsiasi imput creativo da parte di Stan Lee, altri vi diranno che Lee contribuiva (poco o tanto) in modo fondamentale al prodotto finale, altri ancora sono convinti che i loro fumetti fossero il parto di due menti che viaggiavano parallele e non si incontravano mai. John Romita ricorda un viaggio in macchina con Lee e Kirby in cui ognuno stava esponendo la propria idea di una storia e ogni loro idea non teneva conto di quanto appena detto dall’altro.

La lavorazione in stile Marvel prevedeva lo sviluppo completo da parte del disegnatore di una breve sinossi fornita dallo sceneggiatore, il quale tornava poi sulle tavole complete per aggiungere i dialoghi. Ma in più occasioni questa procedura veniva modificata senza che la cosa fosse indicata nei crediti che aprivano l’albo. Lo stesso Lee ha confermato che Kirby, Ditko e gli altri disegnavano una storia sulla base di una vaga indicazione («L’Uomo Sabbia rapisce Mary Jane», «Dottor Destino ruba la tavola di Silver Surfer»), e a volte nemmeno quella.

Negli originali prodotti tra il 1964 e il 1970 le indicazioni di Kirby ai margini delle tavole diventarono più fitte e comparvero stralci di dialoghi, segno che Lee aveva abdicato gran parte del lavoro, pur rimanendo dialoghista e supervisore. Lee poteva non concordare con le svolte prese da Kirby, quindi modificava tramite i dialoghi e le didascalie gli snodi che riteneva deboli o sbagliati e, quando la situazione lo richiedeva, rimandava indietro le tavole per farle ridisegnare.

Nella storia dei Fantastici Quattro Panico al Baxter Building Kirby aveva messo in scena un Dottor Destino impossibilitato a usare le mani, perché ferite nella precedente avventura, e costretto a utilizzare un macchinario per intralciare il matrimonio di Reed e Sue. Nella versione finale, riveduta da Lee, la nota di Kirby («Destino straccia un foglio. Gli fanno male le mani, questo lo fa arrabbiare ancora di più. Medita vendetta») viene stravolta: nella riscrittura di Lee, Destino usa la macchina perché desideroso di compiere un attacco in grande stile che cancelli le umiliazioni subite.

Non è necessariamente una modifica peggiorativa, anzi, ma Kirby veniva a sapere delle correzioni solo dopo che erano andate in stampa. Non c’era colloquio, appunto o telefonata che potesse spiegare i cambiamenti apportati da Lee.

A sinistra: Stan Lee e Jack Kirby nel 1966, in una rara foto assieme
A sinistra: Stan Lee e Jack Kirby nel 1966, in una rara foto assieme

In Hand of Fire: The Comics Art of Jack Kirby, Charles Hatfield illustra tutte le mansioni che Kirby aveva su una testata (storia, sviluppo dei personaggi, design) e spiega come, alla fine, fosse Lee a far funzionare tutto a livello commerciale.

È una conclusione simile a quella a cui arriva Jeet Heer sul New Republic: «I lavori come autore completo di Kirby negli anni Settanta sono i migliori, ma nessuno di loro ha mai riscosso il seguito dei Fantastici Quattro o degli X-Men». Per un autore idiosincratico come Kirby, la collaborazione era la via più breve per il successo di massa: «Da solo, Kirby ci ha dato i suoi fumetti più puri, meno popolari ma esteticamente significativi».

Del sodalizio tra Lee e Kirby rimane un fallimento comunicativo. Lee si sentiva in dovere di eguagliare, se non superare, il gesto enfatico e carichissimo di Kirby con dialoghi ancora più urgenti. Questo portò i fumetti Marvel a essere innervati da una tensione tra parola e immagine che ne costituisce motivo di fascino.

Le loro incomprensioni sono meglio rappresentate dal caso di Silver Surfer. Kirby creò l’ambasciatore interstellare di Galactus come un essere amorale e incorruttibile, alieno e alienante, per il quale la natura umana resta materia sconosciuta. Lee invece lo immaginò come una figura tragica, introspettiva, in grado di slanci monologhistici capaci di slogare la mascella al più abile dei teatranti.

Lo sceneggiatore sviluppò questa concezione nella testata solista Silver Surfer, in cui dotò il personaggio di un retroterra e di una vita colma di sentimenti umani. Il risultato procurò a Kirby un fastidio uguagliato solo dalla richiesta di Lee di disegnarne l’ultimo numero prima del nuovo rilancio.

Silver Surfer stava infatti navigando in cattive acque e Lee diede la colpa alla deriva ultra-pacifista del personaggio. Così lo dirottò al polo opposto, facendolo diventare un Berserker pronto a scatenare la sua furia contro i nemici. Kirby accettò la scelta per sfinimento, sapendo che il rapporto con l’azienda era agli sgoccioli.

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Nell’ultima tavola del numero, mentre una didascalia annunciava l’arrivo del «nuovo, spietato, Silver Surfer», il protagonista urla a tutta pagina: «Mai più mi opporrò alla loro follia terreste! Mai più la mia sarà una voce solitaria che aspira alla pace. Da questo momento in poi, Silver Surfer si batterà alle loro condizioni.»

Sulle pagine della posta di quel Silver Surfer #18 Stan Lee, nella sua rubrica Stan’s Soapbox, dava la seguente notizia: «Chi dice che un fulmine non cade mai due volte nello stesso punto? Ricordate che qualche anno fa Steve Ditko lasciò all’improvviso i gloriosi corridoi della Marvel per cercar fortuna altrove? Ebbene, mentre scrivo queste righe, Jack Kirby ha inaspettatamente annunciato le sue dimissioni dal nostro sorpreso ma prode piccolo staff».

Grandioso

Una troupe tedesca una volta riprese la sessione di scrittura nella stanza degli autori dei Simpson. Il regista voleva che tutti si comportassero come se non ci fossero le telecamere, per catturare l’essenza del processo creativo. Gli sceneggiatori accettarono: dopo dieci minuti di silenzio, qualcuno propose una possibile battuta per Marge, un autore rispose con un mormorio, poi trascorsero altri minuti prima che qualcun altro prendesse la parola. Il regista chiese allora se potevano muoversi un po’, forse perché si aspettava di essere finito nel Dick Van Dyke Show. Altri studi, come Disney, hanno prevenuto questo imbarazzo d’immagine inscenando brainstorming e dietro le quinte energetici. Non volevano far sapere che l’atto della creazione era un gesto banale.

Nel dicembre 1965 Stan Lee fece la stessa cosa quando il giornalista Nat Freedland del New York Herald Tribune visitò la Marvel per scriverci un articolo. Freedland si lasciò affascinare dalla figura di Lee. L’esuberanza, la sincerità e la ricerca del consenso da parte di Lee misero in ombra il contributo altrui. Martin Goodman, il proprietario della casa editrice, venne a malapena menzionato.

Casualmente, Freedland assistette a una riunione tra Lee e Kirby in cui discutevano di un numero de I Fantastici Quattro, probabilmente già messo nero su bianco. Lee saltava sul divanetto, era un fiume in piena di parole, mentre Kirby se ne stava seduto ad annuire e a dire solo «Grandioso».

Era il modus operandi di Lee, probabilmente la sua opera migliore: costruire una narrazione per cui esisteva una redazione frenetica, come quella che il regista tedesco si aspettava da quella dei Simpson, in cui scrivere e disegnare fumetti era solo una delle mirabolanti attività che animavano il quartiere generale della Marvel.

La realtà dei fatti la svelerà qualche tempo dopo Lee: «Lo vedo una volta alla settimana e quando arriva, ha il numero già disegnato. Ogni volta è impossibile prevedere ciò che vedrò in quelle pagine. Potrebbe essersene uscito con una dozzina di idee nuove».

A Kirby, Freedland dedicò poche parole: «Un uomo di mezza età con le borse sotto agli occhi e un largo vestito alla Robert Hall. Tiene in bocca un grande sigaro verde e se te lo ritrovassi seduto di fianco in metropolitana lo scambieresti per il vicecaporeparto di una fabbrica di cinture».

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L’articolo del New York Herald Tribune (clicca per ingrandire) | via Dial B for Blog

Quando il giornale finì nella mani di Roz, la moglie di Kirby, Lee ricevette una chiamata dalla donna: «Era quasi isterica. “Come hai potuto fare questo? Come hai potuto fare questo a Jack?”, urlava». Se lo chiedete a Stan Lee, vi risponderà che non hai mai nascosto nulla e che tutto quello che è successo è successo perché le persone hanno cominciato a travisare i suoi discorsi, che tutto quanto è stato male interpretato, che non aveva potere su quello che avrebbe scritto il giornalista. Vi dirà che avete ragione, che lui non può farci nulla, ma nel frattempo armato del sorriso di circostanza vi sussurrerà che ai miti della creazione serve un diavolo.

Anni prima, quando ancora il suo impiego alla Marvel si limitava a quello di tuttofare, Stan era stato accusato da Kirby di aver spifferato all’editore Martin Goodman che i due stavano lavorando a dei progetti per la rivale DC Comics. Il ragazzo che gli faceva le commissioni sarebbe diventato a breve giro il suo datore di lavoro. Kirby avrebbe potuto mettersi a lavorare per la pubblicità, un campo che garantiva entrate stabili, o fare l’art director alla Marvel (Lee dice di avergli offerto la posizione due volte alla fine degli anni Sessanta), ma non gli riusciva di staccarsi dalla cosa che gli piaceva fare di più: disegnare fumetti. E ora era costretto a togliersi il cappello di fronte a un uomo che, anni più tardi, avrebbe detto: «Non riesco proprio a capire i lettori di fumetti! Io, se potessi e non fosse il mio lavoro, non li leggerei mai».

Ditko abbandonò la Marvel poco dopo la pubblicazione dell’articolo, scrivendo a Kirby di seguirlo. Ma Jack aveva cinque persone sotto la sua responsabilità e nessuna intenzione di lasciarle in mezzo a una strada. Nel frattempo la dicitura “Una produzione Stan Lee e Jack Kirby” sostituì la singola “Scritto da Stan Lee” in tutti i fumetti di Kirby. Comprarono qualche altro anno del suo tempo.

Jack Kirby marvel
Jack Kirby negli uffici di Marvel Comics nel 1966

Nessuno tentò di trattenerlo quando decise di lasciare la Marvel. Kirby aveva imposto lo stile dell’azienda. Anche se non c’era lui a firmare gli albi, l’importante era che sembrassero disegnati da lui. Quando ci tornò, dopo aver creato per la DC Comics opere dense di temi biblici, paura del potere corporativista e paranoia (New Gods, O.M.A.C., Mister Miracle), fu soltanto per il miglior trattamento che la Casa delle Idee gli aveva proposto. La DC si era dimostrata un datore di lavoro umorale, per via degli editor che vi lavoravano – e se quella era l’industria che si era scelto, tanto valeva soccombere al prezzo più alto.

La seconda esperienza alla Marvel vide la nascita degli Eterni, l’adattamento di 2001: Odissea nello spazio e una nuova gestione di Pantera Nera, tutti lavori contenenti luoghi poetici kirbyani (la giustizia sociale, le politiche post-industriali, la religione, il sublime, la tecnologia). Durò due anni, poi la Marvel gli mise davanti un nuovo, deludente, contratto che gli garantiva ancor meno privilegi. «Forse è il momento giusto per provare altre cose» disse, preparandosi a lavorare per televisione e cinema.

Lee e Kirby non era poi così diversi, entrambi avevano conosciuto la povertà e si preoccupavano del sostentamento della propria famiglia. Mentre Lee poteva e voleva diversificare i suoi cespiti e non provava particolare attaccamento al mezzo, Kirby era nato per disegnare fumetti e qualsiasi altra cosa non gli sembrava meritevole del proprio tempo. Ma la coordinazione occhio-mano stava iniziando a deteriorarsi, la sua vista a peggiorare e se non avesse accettato il lavoro alla Hanna-Barbera come storyboardista l’infarto che gli venne poco dopo sarebbe costato la stabilità economica che tanto aveva faticato ad garantire alla sua famiglia (a differenza del fumettista, il lavoro nell’animazione era coperto dall’assicurazione sanitaria).

La mancanza di rispetto da parte dell’editore continuò anche dopo l’abbandono di Kirby. C’è uno spazio bianco sulla copertina di Fantastic Four #236. L’albo doveva essere un momento celebrativo per festeggiare i vent’anni di attività del quartetto. Kirby rifiutò la proposta di collaborare al numero e così Stan Lee pensò di aggiungere una storia secondaria utilizzando gli storyboard che Kirby aveva disegnato per l’adattamento a cartoni della serie. «Non ne venni a sapere niente finché quel cazzo di numero non venne pubblicato» dirà Kirby, spiegando che non venne pagato per quel rimaneggiamento. La storia venne pubblicizzata come la nuova collaborazione tra Stan Lee e Jack Kirby. I due comparivano perfino sulla copertina dell’albo disegnata da Byrne, in mezzo a tutti i personaggi più famosi della Marvel. Dato che non aveva ricevuto compensi per lo sfruttamento della sua immagine e del suo lavoro, Kirby, tramite il proprio legale, ottenne la cancellazione della caricatura sulla copertina.

Il rapporto tra Stan Lee e Jack Kirby è stato vissuto da entrambi come un gioco a somma zero: dove uno vinceva, l’altro doveva necessariamente perdere. In almeno due occasioni lo sceneggiatore ha raccontato che il creatore di qualcosa è la persona che ha pensato per la prima volta a quella cosa, che ne ha avuto l’idea primogenita, e che considera persone come Dikto e Kirby co-creatori dei fumetti solo perché «per loro è così importante, e a me va bene che vengano appellati come tali».

Nel 1989, in un’intervista a Gary Groth sul Comics Journal, Kirby arriverà a dire che Lee non aveva in alcun modo contribuito alla realizzazione degli albi. Lo stesso Groth si vedrà costretto, anni più tardi, a contestualizzare le parole di Kirby su The Jack Kirby Collector #19: «Quando Jack dice che Stan non hai mai scritto nulla, è vero dal suo punto di vista, perché Jack ha sempre considerato che dettare il ritmo, disegnare e annotare i margini fosse scrivere. E bisogna accettare questa cosa come una sua percezione, va letto tra le righe. Credo che rifletta anche molta dell’amarezza che Jack covava. Si sentiva tradito. Offeso dal comportamento pubblico di Stan, che si prendeva tutto il credito. E tradito perché Stan non lo ha mai difeso».

Forse memore delle ferite procurategli dal pezzo dell’Herald, Kirby si prese la sua rivincita in quello stesso dialogo con Groth. Alla domanda «Qual era la tipica conversazione quando scrivevate I fantastici quattro? Cosa vi dicevate?», rispose: «Gli dicevo quello che avrei fatto e poi gliela consegnavo. Nient’altro. Tutto quello che diceva lui era “Grandioso”».

La casa senza vergogna

Nel 1975 Irene Vartanoff ottenne l’incarico di catalogare le tavole originali possedute dalla Marvel. Con pezzi che risalivano al 1960, le ci volle un anno intero per catalogare su un libro mastro tutti i materiali contenuti nel magazzino. Mantenne il posto fino al 1980 e in quei cinque anni vide dirigenti regalare pagine come incentivi ai soci d’affari o usarle per tamponare una perdita d’acqua.

Il fumetto era un business che si fondava sul venduto immediato, non esistevano arretrati, non c’era un interesse collaterale da parte di persone sotto i dodici anni. A chi potevano interessare dei disegni di qualcosa che restava negli occhi del lettore giusto il tempo di una merenda?

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Copertina originale di “Thor” #132, 1966

Capitava che chi scrivesse alla casella postale in cerca di un ricordo ricevesse, insieme alla risposta, una pagina del proprio fumetto preferito. Un tizio che gestiva un fan club autorizzato si faceva mandare le tavole per creare poster e serigrafie, poi si scoprì che con quelle pagine pagava i ragazzi che lavoravano alla fanzine.

Due impiegati Marvel andarono a una convention a Saint Louis con un centinaio di tavole sotto braccio, comprese alcune tratte da un numero dei Fantastici Quattro del 1963: le vendettero a una quindicina di dollari l’una.

Se c’è un disegno di Jack Kirby che vi piace, ci sono buone possibilità che non esista più. La sua produzione Marvel antecedente all’estate 1965 è andata persa, forse distrutta, forse nel garage di Stan Lee. Le copertine di Amazing Fantasy #15, Avengers #4 o Fantastic Four #1, in pratica i pezzi più pregiati della sua produzione.

Non c’era grande considerazione da parte di nessuno per quei pezzi di carta, grafite e inchiostro. Solo all’inizio degli anni Settanta DC Comics, dopo aver passato anni a distruggerle per evitare che, attraverso la proprietà fisica delle immagini, i creatori potessero avanzare diritti sui personaggi della compagnia, fu la prima a mettere in piedi un sistema di restituzione degli originali.

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Doppia tavola originale da “Kamandi, The Last Boy on Earth” #16, 1974

A partire dal 1976 la Marvel fece lo stesso (di ogni numero, due terzi andavano al disegnatore, un terzo all’inchiostratore). Con la consegna delle buste, faceva firmare ai creatori una clausola di una paginetta con cui questi dichiaravano retroattivamente la natura work for hire di tutti i loro lavori, rinunciando a qualsiasi rimostranza futura.

A Kirby, e solo a lui, venne invece sottoposto un documento di quattro pagine in cui la Marvel, con una complessa parafrasi, si limitava a nominarlo custode delle tavole, in cambio della perdita di ogni diritto su di esse. Non poteva esporle al pubblico, riprodurle o venderle. Non solo, delle oltre ottomila pagina che l’artista aveva disegnatore tra il 1960 e il 1970, la Marvel gliene consegnava 88, circa l’1%. Le altre, dicevano, non le avevano trovate.

Da una lotta di categoria si era passati così gradualmente a una guerra personale che nessuno se n’era accorto e i Kirby – ormai nelle interviste accanto a Jack compariva la moglie generalessa Roz, pronta a offrire una risposta prima e più velocemente del marito – reagirono portando in piazza affari che i dirigenti avrebbero preferito passassero sotto silenzio.

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Lettera di Will Eisner che esorta Marvel Comics a restituire le tavole originali a Kirby.

Il Comics Journal dedicò spazio ed energie alla vicenda, prima coprendo la notizia con diversi articoli e poi incentrando un intero numero sulle scorrettezze operate dalla “house of no shame”, la casa senza vergogna, come la apostrofò Gary Groth nel suo editoriale. Petizioni vennero sottoscritte, appelli vennero proclamati a gran voce da quasi tutti gli artisti di punta. Frank Miller firmò un pezzo accalorato in cui raccontava che il solo nominare Jack faceva abbassare lo sguardo a molti omertosi. «Non dicevo “AIDS”, dicevo “Jack Kirby”».

Gli avvocati e la pressione dell’ennesima gaffe pubblica fecero il resto. Quelle tavole che la Marvel dava per perse si materializzarono in due pacchi sul patio dei Kirby, una mattina del 1987. Circa 2100 esemplari, pagina più pagina meno.

Fuori dall’ambiente, a nessuno importava. Il notiziario 20/20 dedicò un lungo servizio in occasione del venticinquesimo anniversario della Marvel raccontando le origini dei personaggi principali e attribuendone il merito a Stan Lee. Né Ditko né Kirby vennero nominati.

La costruzione di un impero

Nel 1969 Mike Towry non avrebbe mai immaginato che, dall’alto dei suoi sedici anni, avrebbe potuto parlare con Jack Kirby e questi l’avrebbe trattato con lo stesso rispetto che riservava al proprio lavoro. Towry assieme a un manipolo di adolescenti capitanati da Sheldon Dorf, un trentaseienne fornito di toupè e qualche chilo di troppo, e Ken Krueger, un librario con il senso per gli affari, furono gli improbabili padri del Comic-Con di San Diego.

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Da sinistra: Dan Stewart, Bob Sourk, Richard Alf, Barry Alfonso, Jack Kirby, Shel Dorf, Wayne Kincaid. Foto scattata il 9 novembre del 1969 a Irvine, California, a casa di Kirby

L’idea scaturì da Dorf, patito di fumetti che a tredici anni aveva costretto il padre a guidare per sessanta miglia tra le praterie dell’Illinois per conoscere Chester Gould, il creatore di Dick Tracy. Dorf non sapeva scrivere, disegnare o editare, ma voleva lavorare nel mondo dei fumetti. Creare un luogo dove altri socialmente goffi non si sarebbero sentiti fuori posto gli sembrava l’idea migliore. E aveva i contatti, o almeno così sembrava ai ragazzi. Un giorno li radunò chiedendo quanti di loro avessero mai conosciuto Jack Kirby. Rimasero in silenzio nei trenta secondi che ci vollero a Dorf per comporre un numero di telefono e sentire la moglie di Kirby, Roz, rispondere dall’altro capo del filo. Dorf organizzò una gita a casa loro.

«Se Charlie Manson si fosse palesato a casa loro, i Kirby lo avrebbero invitato a entrare» racconta Scott Shaw a Rolling Stone. «Erano amichevoli con tutti. Non erano ingenui, solo belle persone».

Mark Evanier, che per qualche anno lavorò come assistente di Kirby, ricorda la chiamata di una spaventissima Roz in cui lo pregava di aiutarlo a far sloggiare Dorf e i suoi venti commilitoni. Il commiato «Ragazzi, la chiudiamo qui perché è quasi ora di pranzo» ricevette la risposta di Dorf «Oh, bene, cosa mangiamo?». Evanier venne mandato da Roz a prendere hamburger dal più vicino fast food.

Jack Kirby insieme ad alcuni colleghi (tra cui Neal Adams e Mike Friedrich) al Comic-Con di San Diego 1973.
Jack Kirby insieme ad alcuni colleghi (tra cui Neal Adams e Mike Friedrich) al Comic-Con di San Diego 1973.

Alla fine, Kirby acconsentì a partecipare alla loro convention. Non prima di aver lanciato un suggerimento che avrebbe ridefinito il fandom e reso flessibile la struttura dei festival in un giro di frase: «Sarebbe un’esperienza più ricca e divertente se includeste tutte le altre cose che piacciono ai fan, come film e fantascienza e altro».

La prima Comic-Con, dopo una prova primaverile, si tenne nell’agosto del 1970 poco fuori dal centro cittadino, al Grant Hotel, edificio svettava sulla strada dove marinai e soldati in licenza si facevano adescare dalle prostitute. Vi parteciparono 300 persone, superando le aspettative degli organizzatori.

Oggi il Comic-Con, dopo la morte di Alf, Dorf e Krueger e l’abbandono di Towry, è gestito da una corporazione denominata San Diego Comic Convention e accoglie più di 135.000 visitatori ogni anno ed è diventato il crocevia dell’industria dell’intrattenimento americana, dove il cinema e lo spettacolo sono in primo piano.

Il crepitìo di Kirby

Qualcuno suggerisce che le prime fotografie sgranate dei quasar siano state l’ispirazione primaria per i “Kirby Krackle” (o “Kirby dots”), l’effetto particolato che Kirby giustapponeva nelle scene in cui aveva bisogno di comunicare un’ondata di energia attorno ai corpi.

La teoria è plausibile, i quasar sono corpi celesti che rilasciano ammassi di energia e le foto apparvero su riviste come Reader’s Digest, di cui Kirby andava ghiotto. Si dice anche che fu il suo inchiostratore storico, Joe Sinnott, ad aggiungere la decorazione.

Tuttavia, la prima testimonianza accertata risale a Blue Bolt #5 (ottobre 1940), inchiostrato da Joe Simon, e pare strano che le matite altrimenti sempre rifinitissime di Kirby avessero lasciato in disparte una porzione così vasta della vignetta.

Lo stile manca di regolarità ma l’effetto è già formalizzato: un pulviscolo energetico attorno a corpi che devono apparire minacciosi, potenti o dotati di una particolare vertigine. Le emissioni di una pistola a raggi gamma di Captain 3-D (1953) saranno l’incarnazione successiva, sempre grezza, ma con l’identico scopo narrativo: raccontare l’esuberanza. Pochi anni dopo, in storie come The Negative Man e The Man Who Collected Planets, Kirby usò le particelle per comunicare l’alterigia dei personaggi più che per suggerire una qualche forma di energia.

Poi, come se se ne fosse dimenticato, le particelle sparirono dal suo repertorio grafico, nonostante la presenza di storie che ne giustificherebbero l’uso. Quando riapparvero, in Fantastic Four #48, sono come le conosciamo noi: forme ovoidali di varia misura, ravvicinate tra di loro a formare sciami di energia, associate al cosmo, allo spazio, anche vuoto ma innervato di vitalità, e alle emanazioni di forza.

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Esempio ultimo di quanto Kirby pensasse in bianco e nero e non per sfumature, i crepitii alleggerivano il passaggio da una campitura all’altra e, dosati dalla sua mano esperta, servivano a Kirby per guidare l’occhio del lettore. Li userà fino alla fine della carriera, quando gli acciacchi gli avrebbero reso più semplice procedere per linee.

I crepitii di Kirby non sembrano un artificio costruito, ma scorrono così naturali sulla pagina come se fossero sempre stati lì. Kirby li ha solo scoperti.

Nessun inchiostratore può rovinare un fumetto

Kirby era convinto che le chine non gli servissero: «Nessun inchiostratore ha mai rovinato un fumetto». Ci sono disegnatori che si fanno mangiare dalle chine, ci sono inchiostratori che cancellano quel poco di personalità che c’era nella matite. Kirby non lo si poteva cancellare, il modo in cui posizionava i corpi, la sua gestione dello spazio era una cosa che non si poteva nascondere. L’inchiostro era lì solo per ragioni di stampa, le sue matite erano un oggetto completo che rappresentavano una visione definitiva dell’immagine.

Durante la battaglia per il possesso delle tavole originali, Kirby espresse il suo astio per gli inchiostratori che avevano ricevuto in dono sue tavole dalla Marvel: «Gli inchiostratori sono persone di servizio. Non ho mai consegnato un disegno abbozzato a un inchiostratore in vita mia. Le ombre erano già lì, le linee erano già tutto, era tutto pronto. L’unica cosa che ha fatto è stato renderle pubblicabili. È questa la loro funzione. Allora dovremmo dare le tavole anche ai letteristi, ai coloristi, al postino».

Eppure, nemmeno l’inchiostro passato dalla sua stessa mano sembra andargli a genio. In vita sua, Kirby ha dato la china a pochissimi lavori. Non gli piaceva farlo perché diceva che, ripassandolo a inchiostro, si sarebbe messo a ridisegnarlo da capo.

Il fedele Joe Sinnott, che l’ha accompagnato nei suoi anni migliori, ebbe scarsisse interazioni col Re. «Il primo disegno che inchiostrai di Kirby risale al 1962. Stan mi mandò un paio di storie di mostri chiedendo se potevo inchiostrarle perché Kirby non voleva. Lo feci e il lavoro piacque» raccontò a The Comic Archive. «Lo incontrai per la prima volta dieci anni dopo, nel 1972, a una convention, dopo che Marie Severin me lo aveva presentato. Chiaccherammo un po’, fu divertente. La volta successiva che lo vidi fu nel 1975, a un’altra convention. Quella è stata l’ultima volta che lo vidi. Non gli parlai mai al telefono, non ci scrivemmo o comunicammo in alcuna maniera. Eppure abbiamo realizzato centinaia e centinaia di pagine insieme».

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Joe Sinnott incontra Jack Kirby per la prima volta, nel 1972.

Un nuovo genere

L’America del dopoguerra aveva riscoperto il genere romance, declinato nelle soap, nei romanzi pulp e in strip come Mary Worth. Nel 1947 oltre diciassette milioni di romanzi rosa erano finiti nelle case degli americani. Il fumetto seriale era l’unico mezzo che ancora non aveva colto la tendenza. I supereroi vendevano benissimo e il pubblico femminile si era fatto andare bene l’escapismo dei personaggi avventurosi o il sentore romantico di Archie.

Dopo aver creato insieme Capitan America nel 1941 e aver combattuto la seconda guerra mondiale, Simon e Kirby decisero di introdurre il romance nell’industria fumettistica. La presentazione del progetto, con tanto di albo pilota già realizzato, convinse la Crestwood Publications, che propose alla coppia un accordo che gli concedeva il 50% dei profitti e il copyright sulla testata.

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Young Romance #1 uscì nella tarda estate del 1947 con una copertina, disegnata da Kirby, contenente tutti gli elementi della formula romance: una giovane ragazza scopre il fidanzato pittore venire ammaliato da una provocante modella nonché sorella maggiore della ragazza.

Erano fumetti difficili da realizzare, gli autori, Kirby incluso, tenevano fede a uno stile cartoonesco, complice il loro impiego negli studi d’animazione, e il romance richiedeva una resa realistica delle situazioni. Oltre che come matitista, Kirby gestiva le testate in qualità di art director, fornendo layout ai disegnatori o ritoccando le loro tavole. Non era raro vedere comparire nelle pagine di Bill Draut o Bruno Premiani gli zigomi a strapiombo di Kirby o il suo panneggio cinetico.

Simon e Kirby canonizzarono la formula che verrà ripresa da tutti i fumetti di genere: la protagonista può essere contesa da due ragazzi, uno docile e per bene, l’altro scapestrato, o può vedere la sua relazione ostacolata da qualche impedimento esterno, magari un’altra donna, tentatrice navigata. Il messaggio che veicolavano era di accettazione da parte della donna del suo ruolo passivo. Senza un uomo, le donne erano incomplete, ma questo non le giustificava a procacciarsi un compagno. Ogni tentativo di indipendenza era mal visto dalla morale comune. I Ran Away with a Truck Driver racconta di una ragazza che, dopo essere scappata con un camionista di fronte alla promessa di emozioni e avventura, viene rapinata e abbandonata. Tornerà sulla retta via di casa e sposerà l’affettato ragazzo del paese.

jack kirby young romance
“Young Romance” #81 del febbraio 1956

Appartenenti al periodo giovanile di Kirby, questi romance non sono considerati i suoi migliori lavori. Il suo forte era l’azione, la messa in scena drammatica e d’impatto. Le storie camera, cucina e drive-in si sposavano poco con queste caratteristiche. Ogni pretesto era buono per movimentare la situazione, triangoli amorosi tra pugili, incidenti automibilistici, risse tra rivali di cuore. Quando invece l’azione era latente, Kirby compensava con angolazioni inusuali o posizionando oggetti in primissimo piano rispetto ai personaggi per dare la sensazione di caos e mantenere l’immagine interessante. Qui Kirby imparò una cosa che si porterà dietro per tutta la carriera: il punto di vista deve spostarsi di continuo per evitare la monotonia e ogni primo piano deve essere dannatamente diverso dagli altri.

Young Romance vendette il 92% della tiratura e con i successivi numeri macinò ancora più copie, contribuendo a risollevare le vendite stagnanti del settore. La serie tenne a battesimo un nuovo genere, aprendo la vena per una valanga di produzioni eponime (130 in due anni). Dal nulla, il romance fumettistico passò all’occupare il 27% del mercato. Nel 1950, un fumetto su quattro in mano ai lettori era di genere rosa.

Il collage di Richard Hamilton Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing?, uno dei primissimi esempi di pop art, includerà una delle copertine di Young Romance disegnate da Kirby. Sarà solo uno dei tanti lavori di remix artistico con protagonisti i fumetti dell’autore.

Al galoppo

Per un disegnatore associato alla codificazione degli stilemi supereroistica, il suo lavoro ha attraversato una varietà di generi spesso trascurata da critici e lettori. I fumetti di guerra, quelli romantici, le letture umoristiche, l’horror e il western. Il suo lavoro veniva costantemente modulato dall’interazione tra le convenzioni e lo zeitgeist.

Boys’ Ranch si inserisce nel filone dei kid gang, in quegli anni popolari grazie a Simpatiche canaglie e ai fumetti degli stessi Simon e Kirby come Newsboy Legion e Boys Commandos. La serie, durata solo sei numeri, partiva dallo spunto di un gruppo di giovani a capo di un ranch, supervisionati dal mandriano adulto Clay Duncan, e sotto la scorza western celava racconti con echi biblici sul ruolo sociale dell’età, l’etnia e il genere. Il Kirby del 1950 qui trova un terreno su cui giocarsela bene, ma quello che distingue Boys’ Ranch dagli altri fumetti western sono le storie, piccole vicende morali dense di allusioni alte.

boys ranch jack kirby

Contenuta nel terzo numero, il racconto Mother Delilah è spesso citato dagli storici, e da Kirby stesso, come una delle sue storie migliori. Piena di riferimenti biblici e letterari (il richiamo a Sansone e Dalila, la presenza del poeta cittadino Virgilio), la storia si concentra su uno dei ragazzi, Angel. Proto-versione di Kamandi, Angel è un ragazzo dai lunghi capelli biondi che rappresenta l’anima tormentata del gruppo. Dopo aver perso i genitori per colpa di un attacco dei nativi americani a una carovana, Angel coltiva un carattere irruento e una fascinazione per le armi che porta il cuoco del ranch, Weehawken, a prendere la rivoltella del ragazzo e svuotarne il tamburo, prima di svegliarlo per la colazione.

Un antieroe bambino che mostra l’occhio attento degli autori per la contemporaneità e l’allora pressante tema della delinquenza giovanile nell’America del dopoguerra (la prima storia della serie si intitola non a caso L’uomo che odiava i ragazzi). L’affetto di Kirby verso le figure dei giovani sbandati è evidente in una delle storie di Boys’ Ranch, Mother Delilah, in cui la proprietaria di un saloon, Delilah Barker, condiziona Angel con lo scopo di punire Clay, che aveva rifiutato le attenzioni della donna.

mother delilah

Modellata sulle figure di Lucille Ball e Marlena Dietrich, la comedienne terrena e l’ammaliatrice esotica, Delilah è contradditoria, usa la ricerca di una figura materna da parte di Angel per manipolarlo e ridurlo a zimbello di fronte alla città, compiendo lo sfregio di tagliarli i boccoli biondi, ma ne prova affetto e saprà riscattarsi nel finale.

Kirby disegna una delle sue pagine più sentite mettendo in sequenza l’arrivo dei compagni di Angel. La composizione della vignetta in cui i ragazzi pronti a fare fuoco incorniciano Angel piangente tra le braccia di Clay è uno dei momenti più toccanti di tutta la produzione kirbyana e mostra l’abilità di messa in scena di un uomo conosciuto per le scazzottate.

Vedere composizioni ovunque

Chiunque abbia mai parlato con Jack Kirby per più di due minuti lo ha sentito raccontare una storia di guerra. L’esperienza bellica quasi gli costò i piedi per un episodio di congelamento e lo lasciò pieno di angosce. Tornato a New York, seppe venire a patti con il trauma riversandolo nel disegno. «C’era questa granata che aveva colpito dei tedeschi» narrò una volta, «e io li ho visti distesi in un cerchio perfetto, solo che la metà inferiore del loro corpo non c’era più. La granata doveva essere caduta nel bel mezzo del gruppo. Vedi un sacco di composizioni interessanti se sei un artista».

jack kirby studio

Kirby ha sempre studiato il mondo intuitivamente. A quattordici anni si iscrisse al Pratt Institute, ma durò appena una settimana: «Non ero lo studente che volevano. Volevano persone pazienti che lavorassero su qualcosa per sempre. Io volevo finirle, le cose».

Si guardò attorno, disegnò dal vero, imparò dall’istinto, si fece le proprie regole. Il disegno non faceva che porgli domande. Come racconto questo sentimento? Il ginocchio va bene disegnato così? Potrò mettere il personaggio in quella posa o risulterà stupida? Per rendere il suo lavoro più efficiente, Kirby risolse proponendo una serie di soluzioni da implementare alla bisogna. Il nucleo dei suoi lavori è basato sulle variazioni di queste risposte.

La linea a matita di Kirby dice le cose in maniera rapida e diretta, essenziale e fisica. Niente deve intralciare la storia. E quando mette un’ombra o una macchia nera lo fa sempre per catturare l’attenzione. Una zona di nero dietro a un personaggio lo fa svettare e lo spinge in avanti, e due ombre possono venire separate sull’asse Z da una semplice linea bianca.

I pugni erano macigni, ogni movimento provocava folate di vento, i combattimenti erano coreografati come balletti. Gil Kane la chiamava “violenza lirica”. Nei primi anni del Novecento, le modalità espressive del fumetto di genere erano limitate. Una descrizione con un’immagine, poi un’altra descrizione con una scena esplicativa, senza che le vignette convivessero in qualche forma di relazione altra da quella a cui le incatenavano le parole.

jack kirby omac

Il lavoro come intercalatore – il ruolo di chi disegna tutti i fotogrammi di un’animazione che compaiono tra il cambiamento di un movimento e l’altro – nello studio d’animazione di Max Fleischer aveva fatto capire a Kirby che c’è bisogno di azione. Che una posa chiave non può stare a fianco di un’altra posa chiave, ci devono essere dei raccordi, del tessuto che unisca l’ossatura. Nel mondo di Kirby, tutto doveva essere più grande. I gesti, le emozioni, anche le vignette. Fu uno dei primi a introdurre la doppia splash page per creare immagini ultra-dense come diorama schiacciati su un foglio.

«Aveva questo modo di disegnare i muscoli» spiega Neal Adams nel documentario Jack Kirby: Storyteller. «C’era la linea del muscolo e poi questa linea dritta che rappresentava il tendine. Ma il tendine è qualcosa di delicato che ha curve e percorsi strani. Eppure con due linee nella tua mente riusciva a farti percepire la differenza tra muscolo e tendine. Aveva questo trucco veloce per rappresentare le cose che mi sopraffaceva. Era sfrontato e coraggioso».

Invece che essere centrale, la figura di Pantera Nera entra dalla sinistra del quadro e l’angolazione che prende è ascendente, energica, positiva. Eppure capiamo benissimo che sta piombando dall’alto addosso a qualcuno. La direzione delle cosce, il verso delle ginocchia, le righe del costume e la posa delle mani conferiscono peso e gravità alla figura. È un salto, ma sembra il più importante e micidiale che T’Challa compirà mai. Il movimento in avanti è corroborato dagli archi sullo sfondo, dalle scalinate e dalla prospettiva dell’impalcatura in legno, che spinge verso il lettore e dà l’impressione che Pantera Nera possa caderci in grembo.

pantera nera

Uno dei pilastri della sua estetica è la composizione circolare, presente da quando deve posizionare i personaggi sulla scena a quando deve elaborare un combattimento. La grande O, la composizione circolare con cui Kirby incatenava l’occhio del lettore alla pagina e lo costringeva a tornare sull’immagine.

C’è una vignetta in Fantastic Four #64 in cui questa cosa è chiarissima. La Cosa sta combattendo Sentry il Sinistro, la vignetta ritrae un momento tutt’altro che importante ma su cui l’autore vuole che ci soffermiamo più del dovuto. Ben Grimm è il soggetto della vignetta, il punto su cui si focalizza l’attenzione. Dalla sua figura, l’occhio è costretto a guardare la testa del robot e il resto del corpo compiendo un giro antiorario che riporta l’osservatore alla Cosa. Le linee della sabbia contengono l’occhio e fanno attenzione che resti nel perimetro disegnato.

È un’immagine dinamica, funzionale, che racconta la storia e che non possiamo smettere di guardare. Per apprezzare Kirby bisogna avere lo zelo di andare a vedere cosa c’è sotto le anatomie rocciose e le angolazioni drammatiche.

sentry the thing

Consumatore instancabile di riviste, specialmente Look, Life e le più improbabili testate di fantascienza, Jack le saccheggiava per i suoi collage, ne depredava l’immaginario per i fumetti romantici o quelli d’azione. L’ispirazione poteva arrivare anche da pittura, film o libri (la Bibbia, su tutti, è il testo con il numero maggiore di prelievi nelle opere kirbyane), e in alcuni casi era più che ispirazione.

Lead Will Fly at Sunset, la prima storia di Boys’ Ranch #2, si apre con un’immagine a tutta pagina che introduce l’ambientazione western. Atipicamente per Kirby, il momento scelto è di quiete, l’occhio del disegnatore è distante dai protagonisti, confinati a una porzione minuscola della tavola, e a occupare lo spazio è una veduta desertica i cui unici segni di vita sono un coyote ramingo e un ramo bitorzoluto che si fa strade tra le pietre.

In realtà, l’immagine è copiata da The Book of Cowboys di Holling C. Holling, pubblicato nel 1936. Kirby elimina la presenza umana, troppo ingombrante, alleggerisce lo sfondo, toglie la linea di fumo e fa indicare al ramo un cammino che collega idealmente l’angolo in alto a sinistra al punto più distante dell’orizzonte. Tralasciando le (legittime) considerazioni sul plagio, il paragone tra le due composizione mostra quanto Kirby abbia raffinato un’idea attraverso poche scelte compositive.

Lost in translation

Nel 1982, Harvey Comics pubblicò Battle for a Three Dimensional World, un fumetto in 3D che tentava di recuperare la moda dell’intrattenimento in tre dimensioni tipica degli anni Cinquanta. L’albo era illustrato da Kirby ed era accompagnato da un paio di occhiali per la lettura 3D ricoperti dai suoi disegni. Uno strillone sulla stanghetta recitava «Designed by Jack Kirby, King of the Comics».

dimensional world jack kirby

Il revival del 3D aveva contagiato anche il cinema, che in quegli anni stava sfornando episodi di saghe horror realizzati con questa tecnica (Lo squalo, Amityville, Venerdì 13). La televisione tentò seguire la moda trasmettendo, per la prima volta nella storia del mezzo, i film in stereoscopica girati negli anni Cinquanta.

Nell’estate del 1982 la messa in onda de La vendetta del mostro, il sequel de Il mostro della laguna nera, venne anticipata da una campagna pubblicitaria che spingeva l’acquisto degli occhiali polarizzati nei Pizza Hut o nei supermercati locali.

Il comico Johnny Carson trovò la cosa meritevole di una battuta e disse ai suoi autori di scriverne qualcuna per il monologo d’apertura del Tonight Show, la trasmissione notturna che aveva creato il genere del late night ed era guardata da milioni di persone.

3d jack kirby

All’epoca l’offerta televisiva non era frammentata come ora: il Tonight Show era un punto di aggregazione fortissimo e, grazie alla bravura di Carson, un’istituzione. Per amor di risata, Carson volle un paio di occhiali 3D del film da indossare all’inizio della puntata. Gli rimediarono quelli allegati a Battle for a Three Dimensional World. Quando emerse dalle tende dello studio con addosso quei ridicoli paraocchi, annunciato dalla spalla Ed McMahon al grido «Heeeeeere’s Johnny!» , quasi non si sentiva la musica tanto rumorosi erano gli ululati del pubblico.

McMahon chiese a Carson di leggere cosa c’era scritto negli occhiali. «Designed by Jack Kirby, King of the Comics». In inglese “comics”, oltre a “fumetti”, è un sinonimo di “comedian”, il comico. Se questo Kirby si proclamava re dei comici, Carson doveva per forza conoscerlo. Quindi, quando McMahon chiese chi fosse, Carson rispose: «Non lo so, è più il Re dei truffatori per quanto mi riguarda».

L’equivoco ferì moltissimo Kirby che, per la prima volta, intraprese vie legali. Il suo avvocato contattò Freddie DeCordova, il produttore dello show, e minacciò di fare loro causa per diffamazione. Qualche sera più tardi, Carson si prese un momento per rettificare l’accaduto e chiedere scusa a nome della trasmissione. Imboccato dai suoi autori, confermò l’assunto che Kirby fosse il re dei comics e concluse citandolo come il creatore dell’Uomo Ragno.

Crediti dovuti

Gli ultimi anni di vita, Jack Kirby li ha passati in un giro d’onore perenne, anche se i diverbi legali e i mancati riconoscimenti non gliel’hanno fatto godere appieno. «Ha influenzato le nostre vite e lo farà fino alla fine» dirà, a proposito dei contenzioni con la Marvel. «Te ne vai in giro felice, ridi, vai a vedere un film, ti senti bene. Ha una quotidianità normale, una famiglia felice. E all’improvviso ti chiama un avvocato e mette una nuvola sopra la tua vita. Non voglio passare il resto della mia vita in tribunale».

Dopo la sua morte, avvenuta una mattina di febbraio 1994 a causa dell’ennesimo attacco cardiaco, il nome di Jack Kirby ha cominciato a riprendersi meriti che gli erano stati usurpati. Grazie alle divulgazioni di Mark Evanier o ai riconoscimenti che lo incastonavano nel canone fumettistico, come D. W. Griffith o Cecil B. DeMille lo erano per quello cinematografico.

studio kirby
Il tavolo da disegno di Jack Kirby

Negli ultimi anni, le case editrici hanno rispolverato quasi tutte le creazioni di Kirby per proporle ai nuovi lettori, con risultati buoni se non eccellenti – Devil Dinosaur, gli Eterni, il Quarto Mondo, Mister Miracle, Kamandi, perfino i dimenticabili lavori per la Topps Comics – il Jack Kirby Museum and Research Center continua a raccogliere contributi e ricordi, libri e saggi che ne rivalutano la figura vengono scritti di continuo. Gente come Alexi Worth, su Art in America, ha paragonato la sua composizione Dream Machine, un’orgia di tecnologia dal design pre-colombiano, ai murales di Frank Stella e alle improvvisazione pittoriche di Willem de Kooning, mentre critici come Ken Parille lo hanno studiato in parallelo a Chris Ware.

Alla fine degli anni Duemila la famiglia di Kirby ha reclamato i diritti sui personaggi creati prima dell’entrata in vigore del Copyright Act del 1976, facendo leva sull’ambiguità riguardante la natura di work for hire, i lavori su commissione, dei fumetti Marvel. Dopo due gradi di giudizio, gli eredi si appellarono alla Corte Suprema. Con il rischio di vedere la causa dibattuta dal più alto grado di giudizio statunitense e mettere in pericolo la definizione di work for hire (compromettendo potenzialmente tutto il nucleo centrale dei suoi personaggi e aprendo la vena per tantissimi casi simili), Marvel rinunciò e raggiunse un accordo extra-giudiziale con i Kirby dal valore stimato tra i trenta e i cinquanta milioni di dollari.

Neanche Stan Lee ha mai potuto reclamare alcun diritto sui personaggi da lui creati (ma, mentre Lee era un dipendente assunto dalla compagnia, Kirby è sempre stato un freelance), eppure è sempre stato trattato con un occhio di riguardo dalla Marvel, che negli anni ha foraggiato lui e la moglie con accordi danarosi e pensioni remunerative. Il tutto in virtù del fatto che Lee si era sapientemente costruito la reputazione di essere la Marvel e qualsiasi screzio sarebbe stato un disastro d’immagine.

Nel 2017 Kirby, insieme a Stan Lee, è stato nominato Disney Legend per il suo contributo retroattivo all’immaginario Disney. Equiparati nel merito, i due uomini avranno sempre un peso diverso nell’immaginario collettivo, perché Lee sarà più facilmente associabile agli eroi da lui co-creati.

L’era del Re

kirby miller
Jack Kirby e Frank Miller nel 1994

Il 12 giugno 1994 Frank Miller tenne un discorso al seminario dei rivenditori e distributori Diamond sull’industria e il suo stato dell’arte. Miller ricorda lo stomaco a fior di gola mentre si apprestava a parlare di fronte a tremila professionisti tra venditori, editori e qualche artista.

«Un’era è passata con Jack Kirby. Noi dei fumetti siamo attaccati alle “ere”. Ne abbiamo trovate una mezza dozzina nell’ultima mezza dozzina di anni. Ma un’era molto grande del fumetti sta per finire e, devo dire, non posso chiamarla l’Era Marvel dei fumetti perché non credo sia giusto celebrare un furto. Io la chiamo l’Era Jack Kirby del fumetti. Dicendo questo, non intendo mancare di rispetto allo straordinario contributo di Stan Lee, Steve Ditko e molti altri. Siamo in debito anche verso di loro. Ma è stato Jack Kirby a definire lo stile e il metodo che ogni disegnatore dopo di lui avrebbe adottato. C’è un “prima di Kirby” e un “dopo Kirby”. Un’era non assomiglia affatto all’altra. Il Re è morto. Non c’è nessuno che ne erediterà il titolo. Non vedremo più nessuno come lui».

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