Guy Delisle è un autore-simbolo. Il suo nome è spesso ritenuto – a torto o a ragione – fra i più rappresentativi del genere ormai noto come comics (o graphic) journalism, che il canadese ha praticato secondo una miscela personale, nata dall’unione di umorismo, racconto di viaggio e appunti quasi da “antropologo per caso”.
Dopo la vittoria ad Angoulême un paio di anni fa, che lo ha consacrato come una delle figure più importanti della scena francese contemporanea, e dopo un lungo periodo di scarsa attività – dovuto a una fastidiosa tendinite al gomito – Delisle è tornato nelle librerie italiane con un ennesimo lavoro di (semiseria) cronaca quotidiana. Niente paesi lontani, questa volta, anche se in Diario del cattivo papà Delisle riesce a rendere esotica anche la più privata delle esperienze personali, come quella paterna. Di questo – e del suo lavoro in generale – abbiamo chiacchierato pochi giorni fa, in occasione di Lucca Comics & Games 2013.
Dopo numerosi libri in cui hai affrontato situazioni critiche di paesi come Birmania o Israele, ora proponi un libro sulla tua vita privata: la sfida di essere un padre. Come è nata questa idea?
“Ci pensavo da tempo. Mi venivano molti spunti a riguardo, e i primi tentativi risalgono al mio soggiorno in Birmania. Tuttavia non ne ero soddisfatto. In seguito sono tornato su queste idee, e ho cominciato a pubblicare gli spunti sul mio blog. In questa forma l’idea ha cominciato a piacermi: sul blog puoi andare avanti all’infinito, non devi preoccuparti del numero di pagine. Puoi concentrarti sulla narrazione. Quando poi ho partecipato al Festival di Angoulême [quello del 2012, in cui Cronache di Gerusalemme vinse il premio come Migliore opera], ho condiviso l’idea con molte persone: alcuni l’avevano visto sul blog, e sentivano di aver vissuto la stessa esperienza con i propri figli. Ho pensato, dunque, che fosse un’idea divertente. Dopo l’incoraggiante feedback del primo tentativo, alla seconda pubblicazione sul blog ho capito che ero sulla strada giusta. Quindi ho iniziato a sfornare varie storie… finché il libro non ha preso forma spontaneamente.”
Nei tuoi viaggi ti sei trovato ad essere tra i rari testimoni occidentali di realtà come il regime dittatoriale di Pyongyang. A distanza di anni, cosa puoi dire di simili esperienze?
“E’ difficile sintetizzare esperienze del genere in una risposta. Questo è un grande vantaggio di essere un autore di fumetti, poiché il fumetto ti consente una grande capacità di sintesi. O meglio, ti obbliga a svilupparla, perché devi esprimere tutto in poche vignette. E mi piace molto questo aspetto. Quando, ad esempio, stavo a Gerusalemme, mi rendevo conto che situazioni molto complicate, che i giornali non riuscivano a far comprendere pienamente, grazie al fumetto potevo farle capire in una pagina e mezzo. Quei libri, appunto, rimangono come il concentrato di quelle mie esperienze.
E’ la sintesi, dunque, la principale caratteristica del fumetto?
“Nel fumetto posso mescolare molte cose. Per esempio in Pyongyang inserisco nella narrazione giochi per bambini. Non credo che si possa fare lo stesso al cinema. Per me i miei libri, soprattutto quelli relativi ai miei viaggi, sono una sorta di blog, la stessa mescolanza di testo e immagini, ma con l’unità di un libro. Non puoi farlo con un film. In una pagina posso usare un grafico, in un’altra mostrare solo me che cammino, in un’altra solo un paesaggio muto e così via. Posso usare una serie di linguaggi differenti, e se non voglio dilungarmi su un aspetto posso concentrarlo in un solo disegno. Se devo spiegare una cosa posso semplicemente disegnare una freccia, senza dover spendere troppe parole. E’ un medium molto efficiente: per questo mi piace.”
In un’altra occasione hai detto che ti piace raccontare cose divertenti. Nei tuoi libri però hai testimoniato spesso situazioni drammatiche. Da dove attingi per queste tue idee?
“Da molte cose: dalla letteratura, dalle serie tv, un tempo anche dai videogame (ora non più). Spesso leggendo dei grandi narratori mi chiedo se posso esprimere lo stesso livello di racconto con il fumetto. Negli ultimi dieci anni ci sono stati modi diversissimi di raccontare attraverso il fumetto. Il racconto di viaggio è uno di questi, che ho trovato davvero eccitante. Ora sto sperimentando questo modo diverso, più personale, ispirandomi all’autobiografia, ma concentrandomi anche di più sul disegno. Ci sono ancora molti modi che possono essere esplorati. In questo senso, quando leggo o quando guardo un film trovo elementi che penso di poter mescolare alla mia narrazione. E questo è un lato molto divertente, la progettazione dell’opera, come esprimere ciò che hai in mente. E’ il momento più divertente.”
Ti ha fatto più paura essere un turista in un regime dittatoriale o diventare padre?
“In Birmania in realtà non avevo paura, ero al sicuro. Le persone che vivono lì sono in una condizione rischiosa, ma per gli stranieri la cosa peggiore che può succede è al massimo essere cacciati dal paese. Stesso discorso per la Corea del Nord. Per cui, sì, nella vita quotidiana è più spaventoso essere un genitore [ride]. Sicuramente, è un avventura. Ora che non viaggio più molto, mi guardo intorno e vedo i miei bambini, e ho capito che si possono trarre storie anche dalla vita quotidiana.”
Quali sono gli autori che ti ispirano, non solo nel fumetto?
“Beh, ad esempio, a livello cinematografico adoro i fratelli Coen. Mi piacciono i loro film corali, ad esempio Burn after reading, film con molti personaggi, anche secondari, ma molto interessanti. Recentemente ho visto Gravity e l’ho trovato fantastico. In letteratura amo Jean Echenoz, uno scrittore francese che ha vinto anche il premio Goncourt, di cui credo di aver letto tutto. Ed anche James Ellroy o il premio Nobel sudafricano Coetzee. Per quello che riguarda i fumetti, ovviamente Art Spiegelman. Dopo il suo intervento il fumetto non è stato più come prima. Ha trovato la risposta alle domande di tutti i fumettisti della mia generazione. La domanda principale era come trovare un modo per poter fare di più, come allargare i confini del fumetto. E lui ha trovato la risposta. Inoltre, sono sicuramente stato influenzato dalla scena del fumetto alternativo francese di quegli anni. Leggo anche manga. Di tutto, insomma.”
Qual è secondo te la differenza fondamentale fra l’approccio giapponese e quello occidentale?
“Ricordo quando ero giovane e lessi per la prima volta Akira rimasi sconvolto. Poteva impiegare cinque pagine per descrivere una scena di una frazione di secondo, e poi improvvisamente i personaggi saltavano da una moto per colpire qualcuno in faccia. Era molto violento, ma potente. Io amo il movimento, lavoro nell’animazione e quindi per me era il massimo. E questo è un aspetto che manca nel fumetto occidentale. Nel fumetto franco-belga, ad esempio, le scene d’azione sono sempre velocissime. Se guardiamo, invece, Dragon Ball ci accorgiamo come la maggior parte del tempo si descrivano scene d’azione.”
Parlando di fumetto francese: qual è l’importanza, per te, di un autore come Moebius?
“Lui è il fondatore. Ha coperto un arco così largo…dal fumetto classico western, come Gir, fino ad esplorare tutte le possibilità, come Moebius.”
Per questo, infatti, lo ponevo come esempio, perché da un lato ha incarnato il fumetto classico francese, dall’altro è colui che ne ha superato le regole e i confini.
“Esatto. E’ stato in grado di creare un mondo. Uno può rimanere a contemplare una sua tavola per ore ed ore, come da giovane facevo io con Arzac. Ma poi, dopo Arzac, è andato oltre, quando avrebbe potuto tranquillamente continuare a farlo per il resto della sua vita. Ma ha preferito andare oltre, ricercare: ha realizzato L’Incal, ed anche dopo ha continuato ad esplorare altre vie. Aveva 70 anni, ma disegnava come un’adolescente. L’entusiasmo di un ragazzo e la sapienza di un maestro. E’ davvero unico. Ed è stato in grado di creare un mondo nuovo, un mondo fantascientifico, ma tanto reale che ci puoi camminare dentro.”
In passato ho avuto modo di osservare (QUI) come molti luoghi comuni di tanti film di fantascienza, d’azione, o di cosiddetti thriller metafisici, vengano spesso da L’Incal.
“Certo! Se pensiamo che dietro all’immaginario di Blade Runner, che ha influenzato tutti i film successivi di quel genere, c’è lui, possiamo comprendere la sua importanza.”
In altre occasioni hai sottolineato come le tue opere fossero all’inizio underground, e poi col tempo sei divenuto un autore mainstream. Questo in qualche modo ha influenzato la tua creatività?
Spero di no. Ma, in un certo senso, sento di stare ancora effettuando la continuazione di Shenzhen. All’inizio il pubblico era di nicchia, ma ciò che è accaduto in questi 15 anni è che la mia generazione ha iniziato a leggere i fumetti. In qualche modo io ed altri autori abbiamo portato queste persone a riscoprire i fumetti. Sono diventato mainstream semplicemente rimanendo me stesso. La scena del fumetto è cambiata, e io ne faccio parte. Così, come altri autori. Pensiamo a La Proprietà di Rutu Modan, un libro stupendo, un’autrice di cui sono un vero fan, che è riuscita a portare tematiche così adulte in un fumetto in maniera perfettamente riuscita.