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RecensioniNovitàIl dovere della memoria: “I solchi del destino” di Paco Roca

Il dovere della memoria: “I solchi del destino” di Paco Roca

Anni fa ebbi un’accesa discussione con una signora mia coetanea, anche lei nata nel 1970. Sosteneva che votare Berlusconi fosse la giusta reazione ai trent’anni di malgoverno comunista che avevano preceduto l’avvento dell’Unto del Signore (si sentivano distintamente le maiuscole, nella deferenza con cui evocava lo statista arcoriano).

Mi permisi di chiederle a quale governo comunista si riferisse esattamente, forse mi era sfuggito qualcosa di quegli anni? Quasi offesa, mi rispose gelida che Andreotti era stato primo ministro non meno di 5 o 6 volte, e che non provassi a negarlo. Provai a spiegarle che sì, Andreotti era stato capo del governo a più riprese, e che era stato anche molte altre cose, alcune persino non negative, ma comunista proprio no, casomai il contrario. Tentavo di ricordarle l’esistenza della Democrazia Cristiana, ma lei insisteva nella sua tesi, e che non cercassi di ingannarla. Non ci fu verso di farle intendere la realtà dei fatti e anzi, vista la mia insistenza, mi disse che ero chiaramente un comunista io stesso, dunque organico alla falsità più vergognosa.

Questo piccolo episodio, rivelatore di un’ignoranza assieme ridicola e (un po’) inquietante, mi è tornato alla mente scoprendo le incredibili risposte date da alcuni tra i concorrenti del quiz “L’eredità”. Di fronte a un esterrefatto Carlo Conti, diversi partecipanti al gioco a premi hanno inanellato una serie di bestialità senza pari: alla domanda sull’anno in cui Adolf Hitler diventò cancelliere in Germania, dinanzi alle 4 opzioni fornite, i concorrenti hanno scelto in successione il 1948, il 1964, infine il 1979, e nessuno il 1933, dimostrando di essersi messi di impegno per sbagliare tutto lo sbagliabile; e nella medesima puntata, quando è stato chiesto in quale anno Benito Mussolini ricevette a Palazzo Venezia il poeta americano Ezra Pound una concorrente ha deciso, tra le possibili soluzioni, che quella corretta era il 1964.

Davanti a queste enormità spesso si ride per non piangere. E così, visto che recentemente le istituzioni tedesche si sono allarmate perché, secondo un’inchiesta del settimanale sensazionalistico “Stern”, il 20 % dei giovani tra i 18 e i 29 anni non sa che cosa è accaduto ad Auschwitz, si è quasi tentati di dire che in Germania va ancora bene, visto che l’80 % di giovani evidentemente sa. Il monocolo diventa re, nel paese dei ciechi.

Ma simili dimostrazioni di insipienza non possono che nascere dalla rimozione totale della memoria, avvertita come un peso inutile, altro che historia magistra vitae.

È però vero che il ricordo, come il fuoco, deve essere alimentato oppure si spegne. Per esempio da chi ha vissuto quelle cose o le ha studiate. Ma oggigiorno, chi riesce a raccontare con efficacia quel che è successo ai tempi della follia nazi-fascista, a parte i testimoni di quell’epoca, oramai sempre meno numerosi, et pour cause? O meglio, chi è in grado di farlo avvicinando un pubblico che non sia quello, già sostanzialmente informato, che di solito partecipa ai convegni che ancora si tengono sull’argomento, per fare un esempio?

Perché qui non è in discussione l’esistenza di una pubblicistica contemporanea in merito, anche nutrita, o di opere narrative sul tema, ma la loro capacità di allargare la platea, di incidere sulla memoria di chi quelle cose non le conosce, nemmeno per sentito dire. E possibilmente senza concessioni alla facile spettacolarizzazione, nella quale per esempio cadono solitamente i film hollywoodiani. Valga come esempio generale “Schindler’s list” (regia di Steven Spielberg, 1993), che venti anni fa ebbe l’indubbio merito di riportare in primo piano l’orrore della shoa, ma che non riuscì a sottrarsi all’utilizzo dello stereotipo del “cattivo che ci piace amare”, totalmente sopra le righe, ovvero l’untersturmführer Amon Goeth, interpretato da Ralph Fiennes.

Leggi anche: Raccontare per non dimenticare. Intervista a Paco Roca

solchi del destino paco roca fumetto graphic novel tunue

Per fortuna, ogni tanto qualche piccolo miracolo ancora accade, fatto di memoria e intransigente coerenza linguistica. Come avviene per esempio nel nuovo libro di Paco Roca, I solchi del destino, appena pubblicato da Tunuè (con la traduzione di Francesca Gnetti). Sotto un titolo quasi anodino, che rimanda a una poesia di Antonio Machado (che compare brevemente nel fumetto), si cela un’opera sconvolgente, che rimette al centro dell’attenzione fatti terribili, ma oramai dimenticati, e che lo fa senza ipocrisie o edulcorazioni, o peggio ancora travisamenti revisionisti di qualsiasi genere.

La narrazione procede su due piani diversi, graficamente distinti in modo netto. C’è una cornice contemporanea, in bianco e nero, nella quale l’autore non deroga quasi mai dalla gabbia a tre strisce, dal ritmo cadenzato e quasi monotono, come la vita del protagonista Miguel, un vecchio spagnolo, misconosciuto eroe dell’anti-fascismo. Nella cornice Roca svela il farsi dell’opera stessa, rimandando non per caso al Maus di Art Spiegelman. Riporta infatti il suo incontro-scontro con Miguel, il quale inizialmente non vuole condividere con Paco i suoi dolorosi ricordi della seconda guerra mondiale.

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È proprio per dimenticare, infatti, che si è seppellito vivo nella provincia francese. Un posto con un clima che odia, ma non quanto gli spagnoli, come mette in chiaro fin da subito. Roca invece è venuto a cercarlo fin lì proprio per attingere alla sua memoria. Come in Maus, il focus è sulla banalità quotidiana del protagonista, che si dipana tra la voglia di essere dimenticato e il rancore sordo verso un mondo che non è quello che sognava in gioventù. Ma a differenza di quanto accade in Maus, il fatto stesso di raccontare pian piano tutto quello che ha vissuto, e che in precedenza non aveva mai rivelato ad alcuno, avrà un effetto liberatorio, con ricadute positive sia sul protagonista che sulle persone che gli vivono attorno.

Poi c’è la vicenda principale, ambientata nel periodo tra il 1939 e il 1945, realizzata a colori, anche se spenti, con una gabbia molto più libera, movimentata e poliritmica, a sottolineare l’eccezionalità degli avvenimenti descritti: la fine della guerra civile spagnola, conclusa con la vittoria dei franchisti e l’instaurazione della dittatura; la diaspora dei repubblicani sfuggiti alla repressione, tra i quali Miguel; la sua difficile sopravvivenza in una Francia che non sa che farsene di quei reduci, per di più comunisti; l’internamento in un campo di lavoro nelle colonie africane, dopo l’instaurazione del governo francese filo-nazista di Vichy, presieduto dal generale collaborazionista Philippe Petain, nel 1940.

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E ancora: la sua liberazione da parte dell’esercito anglo-americano, nel 1942; il suo entrare a far parte dell’esercito della cosiddetta Francia libera, quella cioè che si riconosceva nel generale Charles De Gaulle, presidente anti-nazista del Governo provvisorio (e in esilio) della Repubblica; l’inquadramento nelle file della “Nueve”, un battaglione composto per la stragrande maggioranza da spagnoli che avevano combattuto per la repubblica spagnola; le battaglie contro i nazi-fascisti, prima in Africa e poi in Europa. Infine, la liberazione di Parigi nel 1945, dove la “Nueve” entrerà per prima, conquistando così l’onore di sfilare davanti a tutti, nella parata trionfale lungo gli Champs-Élysées.

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Dopo la fine della guerra, Miguel sarà segnato da un avvenimento privato che marcherà in maniera indelebile tutta la sua esistenza successiva e lo indurrà a sparire agli occhi del mondo. Fino a quando l’autore non lo scova, lo fa parlare e in qualche modo lo riconcilia con l’esistenza.

Roca riesce a tenersi lontano da tutta la possibile retorica bellica, e pur raccontando quello che non può che essere definito un conflitto giusto, se mai ce n’è stato uno, non manca di mostrare la disumanità insita in ogni conflitto, anche in quello. Ma è talmente bravo che lo fa senza impartire lezioni da moralista fuori dal mondo: la complessità della guerra, l’orrore incomprimibile che scaturisce dalla sospensione di ogni regola “civile” nei combattimenti, l’inevitabile reificazione dei nemici, visti come oggetti da abbattere o simboli del male che deve essere sconfitto, tutto ciò non è realmente comprensibile se non lì, nel momento in cui accadeva.

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Troppo comodo fare la morale in tempo di pace, con il culo al caldo e una tazza di caffè tra la mani, come mostra un dialogo lancinante tra Miguel e Paco, che si conclude con il significativo silenzio del primo e le scuse del secondo.

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Con il suo storytelling improntato alla massima scorrevolezza, servito alla perfezione dal segno pulito ed essenziale, Roca ha realizzato un romanzo storico che riesce a trascendere l’invenzione narrativa per sciogliersi nel racconto in prima persona di un testimone oculare, un racconto di grande potenza che avvinghia il lettore fino in fondo con la sola forza dei fatti storici, senza trucchi narrativi. Ovvero, facendo un uso così accorto dei trucchi narrativi da far risultare più vera del vero quella che è pur tuttavia un’opera di finzione, benché documentatissima.

Infatti, è bene sottolinearlo, Miguel non esiste davvero, come si potrebbe credere. In realtà, è solo parzialmente ricalcato sulla figura di un combattente realmente esistito e misteriosamente scomparso nel nulla una volta terminata la guerra. Ed è piuttosto l’incarnazione, stupefacente per realismo, degli studi fatti da Roca sulla “Nueve”, stimolati a loro volta dal racconto di due sopravvissuti del battaglione, conosciuti per caso alla presentazione di un saggio sull’argomento.

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Resta da dire che se Miguel all’inizio non vuole parlare è perché quelle “sono cose da vecchi” e secondo lui non interessano a nessuno. Ma Roca lo blocca con fermezza e quasi lo costringe a raccontare quel che ha visto, perché al contrario quelle cose “dovrebbero interessare tutti, per non tornare mai più a soffrire così per colpa delle idee fasciste”. Sembra quasi di risentire le parole di Primo Levi: “Chi dimentica il passato, è condannato a riviverlo”.

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