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FocusOpinioniI fumetti più belli del mondo

I fumetti più belli del mondo

Ascolta la tua voce interiore. Distilla, dall’incessante frastuono che sovrasta tutto, i pochi suoni che devono guidare la tua rotta. Respira profondamente e, poi, cerca di dirtelo chiaramente, senza troppe preoccupazioni accessorie: la storia del fumetto si risolve nell’affastellarsi confuso di beni di consumo. Manufatti effimeri e disperati, usa e getta, nati per durare il tempo esatto della loro vita commerciale: un giorno, una settimana, un mese, … Prodotti costretti, dalla loro stessa struttura seriale, a soddisfare le aspettative di lettori abitudinari in cerca di quel conforto dato dalla consuetudine ritmata dell’appuntamento al prossimo episodio.

Eppure, lo sai, sospesi tra cliffhanger e consolazione e prima che qualcuno iniziasse a chiamarli graphic novel, i fumetti hanno tracciato un arco storico fitto di sorprese.

Certo. Devi essere devoto all’insegnamento di Theodore Sturgeon e ricordare sempre che il 90% dei fumetti – esattamente come il 90% di qualsiasi cosa – è merda. Ma ti è evidente come, anche da quella sconfinata distesa di letame, nascono i fior.

Trovarli, questi fiori, è un esercizio per stomaci forti, in grado di riconosce chi, nella storia del fumetto, è stato capace di surfare sui vincoli di un’industria – feroce, alienante, castrante, omologante, … – per restituire ai lettori vera bellezza.

Questo è quello che mi dico, senza muovere le labbra e cercando di rimanere inespressivo, tutto le volte che svuoto uno scatolone pieno di fumetti che avrei dovuto buttare da un pezzo. Prendo quegli albi, quei fascicoli, quei libri, uno per uno, e li soppeso, li sfoglio, li annuso, sprofondo nei ricordi che quei colori e quegli odori mi scatenano. Mi convinco che quella roba è pattume, per poi pentirmene subito e chiedere scusa ai personaggio, agli autori, all’editore e al me stesso più giovane che aveva amato quelle pagine. E, tutte le volte, mi torna in mente l’ossessione per un canone del fumetto.

Tutte. Le. Volte.

E dire che di libri che raccontano un canone del fumetto ne sono usciti tanti. Anche io, una volta…

La consegna di un lungo elenco di titoli a un libro non è certo il solo modo per definire un canone. Ce ne sono altri: lo si può fare con una rubrica su un giornale, con il progetto editoriale di una casa editrice, riservando particolare attenzione alla disposizione dei libri sui propri scaffali di libraio o di lettore, … Un modo che mi piace molto passa attraverso i premi attribuiti dai festival del fumetto. E’ un modo estemporaneo, vittima delle mode, degli errori di giudizio e dei pentimenti tardivi. Vive sulla propria pelle tutti i paradossi dei festival, che non devono scontentare gli sponsor (che sono spesso editori) e che assegnano il ruolo di giurati ad addetti ai lavori che, maledettamente umani come sono, si innamorano, odiano, sbagliano, dimenticano e, a volte, sono anche in cattiva fede.

YellowPrendiamo il Salone Internazionale dei Comics, quello nato a Bordighera nel 1965 e, dopo appena un anno, trasferito a Lucca, fino al complesso avvicendamento del 1992. Ecco. Quello è stato a lungo l’evento più prestigioso del fumetto europeo (avrei scritto mondiale, ma sono sicuro che il padrone di casa ne conosca uno più importante e, per una volta, evito iperboli e mi risparmio la sua sfilza di sms sarcastici). Quel salone ha deciso, fin da subito, di dividere i premiati tra italiani e stranieri e, poi, tra sceneggiatori (a volte chiamati soggettisti e altre autori) e disegnatori. Sono distinzioni che, oggi, mi fanno ridere e che torme di dissennati ancora adottano per i propri dimenticabili premi. A volte, in quel di Lucca, le categorie non bastavano a premiare i tanti cui si sarebbe voluto (o, peggio, dovuto) attribuire un premio e venivano inventate targhe a disposizione della giuria.

Quel Salone ha assegnato premi belli e, credo, inattesi. Eppure, nel palmarès degli Yellow Kid c’è un sacco di roba che fa parte di quel dimenticabile 90%. In più, quell’ossessione per il premio agli autori prima che alle opere, ha prodotto il registro per fare l’appello dei bravini, mancando clamorosamente la definizione del canone.

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Spostiamo poi lo sguardo agli Harvey Award e agli Eisner Award. Nati entrambi nel 1988, per proseguire la tradizione interrotta dei Kirby Award, i due premi sono indirizzati tanto agli autori quanto ai loro lavori. Ogni anno, vengono insigniti con quei trofei personaggi, più o meno illustri, che dedicano le proprie giornate lavorative ai diversi mestieri dell’industria del fumetto: sceneggiatori, matitisti, inchostratori, letteristi, coloristi, … Ogni anno, vengono premiati anche dei fumetti, distinguendo tra serie, storie, raccolte in volume, libri con materiale inedito, strisce, fumetti online… La granularità delle categorie, la numerosità dei premi e il dovere di assegnarli sempre tutti rendono difficile l’identificazione di quel singolo titolo (o di quei pochissimi titoli) che, per quell’anno, dovrebbero arricchire il nostro canone.

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Mi concentro infine sul premio di maggior prestigio in Europa oggi: quello assegnato pochi giorni fa ad Angoulême. Il premio più importante a un fumetto, la “Fauve d’or” per il miglior libro, traccia, dal 1976, una traiettoria del gusto che, pur indicando quasi sempre fumetti molto distanti dal famigerato 90% di Sturgeon, mostra puntualmente mode e modi d’oltralpe. Per trovare un premio con un equilibrio molto più saldo tra meriti e compromessi bisogna guardare al “Grand prix de la ville d’Angoulême”. Nato nel 1974 e storicamente assegnato ad autori francofoni salvo pochissime eccezioni: Will Eisner nel 1975, Hugo Pratt nel 1988, Robert Crumb nel 1999, José Munoz nel 2007 e Art Spiegelman nel 2011.

Accidenti, nomi importanti! Davvero! Eppure trovo che anche questa lista sia inadeguata alla definizione di un canone e non solo per il fatto che identifica degli autori e non dei fumetti. La lettura delle date di quei riconoscimenti evidenzia come la giuria del Grand Prix sia vittima di un tremendo ritardo rispetto al momento di maggior fulgore dei premiati. Un ritardo che si accentua. Anno dopo anno.

A dimostrazione di questa mia sensazione, l’anno scorso, è stato per la prima volta premiato un autore di manga: Akira Toriyama. L’importanza del mercato giapponese e l’influenza sull’immaginario e sui media dei grandi personaggi nipponici è stata ufficialmente riconosciuta dalla giuria del premio quando ormai era evidente a chiunque, negli ultimi 20 anni, avesse avuto tra le mani un albo, un telecomando, un mouse o un joypad.

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Adesso sono un po’ preoccupato.

Pochi giorni fa il Grand Prix è stato assegnato a un fumettista gigantesco: Bill Watterson, l’autore di “Calvin & Hobbes”. Un tipo che ha realizzato la sua striscia per un decennio, tra il 1985 e il 1995. Poi, ha semplicemente smesso. E non lo ha fatto perché voleva dedicarsi al grande romanzo americano a fumetti. Ha semplicemente smesso. Da allora, Watterson non pubblica più nulla.

Non vive segregato in casa, prigioniero del proprio mito, come un Salinger qualunque. Gestisce la propria normalissima esistenza, campando di diritti d’autore ben amministrati e di gestione oculata delle proprie pochissime apparizioni pubbliche.

Da quasi vent’anni.

Quasi a dire che il fumetto era un bene di consumo. Un manufatto effimero e disperato, usa e getta, nato per durare il tempo esatto della sua vita commerciale: un giorno, una settimana, un mese, … E quel bene di consumo adesso non c’è più. E’ finito.

Da quasi vent’anni.

E, accidenti, se n’è accorta anche la giuria del “Grand prix de la ville d’Angoulême”.

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