Nello studio di Andrea Accardi

Questa settimana, per la rubrica #tavolidadisegno, siamo entrati nello studio di Andrea Accardi. Al solito, abbiamo fatto cinque domande e abbiamo scattato parecchie foto.

andrea accardi

Quali sono i progetti a cui stai lavorando attualmente?

Come puoi notare dall’installazione sopra la mia scrivania sono al lavoro su Tex, una breve storia di 32 pagine per il prossimo Color Tex, scritta da Roberto Recchioni. Una volta completata questa, mi rimetterò sotto con il vecchio Ichi e la sua banda di samurai, sempre insieme a Roberto.

Avrei dovuto portare avanti questi due progetti contemporaneamente, queste almeno erano le mie intenzioni, ma difetto di organizzazione, ahimè, e difficilmente riesco a cambiare registro con i lavori in corso; e poi a questo bisognerebbe aggiungere anche che il personaggio mitico di cui sopra non è che sia proprio facile facile da interpretare e che il minimo che posso fare è dedicargli cura e tempo.

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Quali sono gli strumenti che usi per disegnare? Puoi illustrarci le tue tecniche?

Matita o mina HB per le bozze e poi pennarelli pennelli vari, i brush pen di Muji sono i miei preferiti e ne consumo parecchi. Non resisto alla tentazione di ricaricare con la china qualsiasi strumento atto a disegnare finisca sotto le mie mani; è il mio obiettivo finale, ci provo anche se non è presente un serbatoio. Purtroppo, a volte, l’unico risultato dei miei esperimenti scellerati è quello di accorciare la durata naturale dello strumento. Per quanto riguarda la carta, ormai posso dirlo con certezza, più scarsa è meglio mi trovo.

Per i samurai ho lavorato su carta F2, che per me è un buon compromesso, ma non disdegno la classica risma di carta per fotocopie, quella che sto usando proprio adesso; il suo modesto spessore mi permette di vedere meglio tutti i segni quando vado a lucidare le matite, cosa che mi aiuta molto visto che disegno e inchiostro quasi costantemente sul tavolo luminoso. Poi, per tutti gli effetti speciali, applico una pellicola trasparente e ci lavoro sopra con la china come se fosse un livello di photoshop.

A proposito, il computer lo uso, sì, soprattutto per correggere le bozze a matita e poi per montare eventualmente le strisce di vignette che lavoro separatamente. Se posso, evito di aggiungere retini o altri effetti digitali solo a schermo perché mi piace che l’originale sia più fedele possibile allo stampato finale.

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C’è qualche forma di abitudine ami predisporre prima di metterti a disegnare? Hai degli orari particolari in cui ti metti al lavoro?

Non ho degli orari precisi, a volte seguo i miei, altre volte mi metto sulla scia degli orari della famiglia, per cui, per esempio, ad una certa ora si mangia e quando non c’è scuola si dorme di più. Dipende da un sacco di cose, dall’urgenza della consegna o dal mio stato d’animo, perché no. Ci sono state lunghe giornate di lavoro in cui ho prodotto una sola vignetta. Le uniche costanti, durante una giornata di lavoro tipo, sono la quantità di caffè e Radio 3 Rai sempre accesa; sei caffè tra la colazione e il pranzo e altri due il pomeriggio, non posso farne a meno.

Poi quando inizio ho tutte le mie fisse, che oramai sono diventate il mio “metodo”: comincio ad inchiostrare la tavola sempre in ordine di lettura, e non prima d’aver chinato con un rapido 06 tutte le vignette, considerando anche gli spazi per gli elementi che escono fuori dalla gabbia. Mi concentro prima su tutti gli elementi principali della tavola, persone o quinte, e solo alla fine mi preoccupo degli sfondi (che ho considerato a matita, però) e della profondità. Per carità, se scrivo il numero di tavola in basso a destra prima d’averla conclusa davvero, ho presagi di sventura per tutta la giornata.

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Quali sono i tuoi autori di riferimento? Ci sono testi che devono essere a portata di mano mentre disegni?

Il mio spazio lavorativo deve essere invaso da tutto ciò che può essermi utile per la storia che sto illustrando. Dico “invaso” non per esagerare, mi creo una sorta di rete di sicurezza intorno, per cui dovunque cada il mio sguardo ci sia sempre qualcosa che possa tornarmi utile: una pistola, un cappello, uno stivale, un cavallo, un tipico paesaggio del west, una faccia di Tex disegnata da Villa a monito perenne “non ce la puoi fare!”

In questo momento i miei autori di riferimento sono giocoforza i talenti della testata più longeva di casa Bonelli, Galleppini, Nicolò, Ticci, Letteri, Civitelli, Villa e poi ancora Albertarelli, Zaniboni, Parlov, Frisenda, Venturi e Leomacs, ognuno pronto a confermare o smentire il senso di un mio segno nero sulla carta. In tutto questo, come vedi, ho conservato una porzione di spazio al giappone, perché, per dirla al contrario, occhio che vede cuore non duole.

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A proposito di quanto visto nel tuo studio, e della domanda precedente: quanto è cambiato il tuo metodo di lavoro da quando sei approdato in Bonelli?

Mah, difficile parlare di cambiamento da dentro. Tanto per cominciare credo pur sempre di restare in un limbo stilistico, sghembo per un verace lettore  bonelliano e troppo rigido (leggi falso) per un appassionato lettore di fumetti giapponesi. Per quanto sia difficile da credere, e mi riferisco soprattutto a coloro che hanno amato le mie cose su Matteo e Enrico, il processo, o il cambiamento se vuoi, che mi ha condotto in via buonarroti a Milano, non è stato certo deciso a tavolino, ma è cominciato tanto tempo fa; è passato attraverso le pagine di John Doe, si è rafforzato con Il viaggio di Akai di Massimiliano De Giovanni e stato provato su Hit Moll di Enoch e così sia.

Quello che è cambiato davvero, ma sul serio, è il mio atteggiamento verso questa professione, adesso che ho la possibilità di lavorare con una casa editrice che può metterti a contatto con xmila lettori, un’occasione unica.

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