Una lunga intervista a Filippo Scòzzari, fumettista, illustratore, scrittore e fondatore di Frigidaire, che vi presenteremo divisa in tre parti durante la settimana. In questa prima parte Scòzzari spiega le sue influenze e discorre di fumetto politico, di satira e dell’Uomo dei Paperi. Ovviamente, alla sua maniera.
Filippo Scòzzari, se escludiamo una ventina di tavole infilate da Gino Sansoni in un dimenticato pocket antologico di fantascienza, la sua prima pubblicazione da professionista avviene nel 1976 su “Il Mago”, con Ripresa registrata di avvenimento agonistico e Vecchia gloria, due storie aventi per protagonista il robot Nekator SuperFly. Il segno è già maturo e si sente una notevole sicurezza nella gestione della tavola e nella scansione ritmica del racconto. Qual è stata la gavetta che le ha permesso di venire alla ribalta da autore già così scafato?
Avevo letto molto gli autori dell’underground americano, da Corben a Shelton, da Crumb a Moscoso (nei quali potevi trovare sia le risate sia il sangue, sia l’impegno politico sia l’avventura o il porno); li avevo studiati, ma mi erano talmente congeniali che forse usare la parola “studiare” è sbagliato: come li leggevo diventavano subito roba mia, anche perché c’era un parallelismo tra le cose che loro facevano e le cose che io del fumetto avevo sempre pensato: sbavavo d’invidia perché era gente che era riuscita a farsi pubblicare o addirittura ad auto-pubblicarsi direttamente, senza editori/intermediari di sorta, ma d’altra parte mi confortava il fatto che ciò che pensavo del fumetto veniva effettivamente realizzato, e quindi non ero sulla strada sbagliata, almeno dal punto di vista tecnico-teorico.
Però non va dimenticato che Ripresa registrata e Vecchia gloria furono pensati e disegnati sfruttando il sordo, lungo apprendistato costituito dalle storie che realizzavo gratis per “Re Nudo”: disegnare dalle due alle quattro tavole al mese – ero lentissimo – è stata una discreta scuola, mi è servita molto. Non sboccio all’improvviso come autore, insomma; e poi tutte le riviste alle quali mi proponevo mi fecero fare anticamera per mesi se non per anni, per cui nelle more uno sta lì a provare, a studiare, a dannarsi…

Le prime tavole con cui mi presentai a Magnus per chiedergli consigli dal punto di vista tecnico (era professore di disegno), erano assolutamente tragiche: enormi, disegnate a rapidograph su carta ruvida, immagina che roba; lui mi regalò consigli tecnici preziosissimi, ma non misi molto a capire che come mestierante sarei migliorato se, e solo se, fossi riuscito a farmi pubblicare.
Ricordo per esempio Sulla collina: mi precipitai a comprare il numero di “Linus” in cui era stata pubblicata e trasecolai, avvampando di vergogna, perché c’era una mano completamente sbagliata, una cosa mostruosa e irrimediabile, e non mi capacitavo di non essermi accorto di quell’orrore. A distanza di molti anni trovai un orrore della stessa gravità in una tavola di Ranxerox di Tanino (Liberatore, n. d. r.), per cui capii che ogni Omero s’addormenta.
Ciò che mi colpisce in quelle prime due storie è la struttura narrativa, da autore navigato. C’entra forse qualcosa l’avere incamerato input per anni, prima di essere pubblicato? La pubblicazione su “Il Mago” avviene quando lei ha trent’anni…
Sì, c’entra moltissimo, lo racconto anche in Prima pagare, poi ricordare. Non avevo nulla di mio da dire, una desolante vuotaggine, della quale almeno ero cosciente, per cui fui costretto a rifarmi a materiali già pronti, in gran parte racconti di fantascienza.
Fu una bella scuola: il pigro che è in me orripilò quando s’accorse, quasi subito, che la proporzione tra disegno e scrittura era 5 a 1, cioè che una pagina di testo mi obbligava a disegnare minimo cinque tavole; quindi fui obbligato alla sintesi, e imparai in fretta ad eliminare il superfluo e l’esercizio di stile, lo show fine a se stesso. Secchezza vince su brodaglia.
Sapevo di esser brocco e ricordo di essermi imposto di non uscire di casa finché non fossi stato soddisfatto di quello che avevo creato; m’ero eletto giudice di me stesso, e questo mi ha aiutato. Ecco perché ti stupisci al vedere sbocciare “all’improvviso” questo nuovo autore. In realtà, come sempre, c’è un lavoro matto e disperatissimo che precede l’esordio, quasi mai consegnato agli annali, però ti posso assicurare che c’è.
Negli anni in cui Moebius teorizza il fumetto che “può avere la forma di una farfalla, di un elefante o di una fiamma di cerino”, realizzando storie in cui la trama è spesso solo un pretesto per tavole immaginifiche, lei invece fa una scelta opposta con una tavola classica, leggibile, con trovate efficaci mutuate da Eisner e dall’underground, ma sempre al servizio del racconto.
Quella frase era citata ne Il manuale della paura di Mondadori, che avevo acquistato pagandolo carissimo; io però, da questo punto di vista, mi sono sempre considerato, tra due quintali di virgolette, un fascista e l’ho sempre detto. Coi fumetti non si scherza; gli esperimenti possono spingersi fino a un certo punto, oltre il quale si precipita nella calligrafia, e subito dopo nell’incomprensibilità. A Bologna la somma calligrafia-più-incomprensibilità la chiamiamo “pugnetta”.
Come ripeto sempre, uno dei miei maestri era stato Will Eisner, un autentico re della messa in pagina, della scrittura, della regia del fumetto; fra l’altro si avvaleva di altri collaboratori di primo piano, Jerry Grandenetti e compagnia bella, e i risultati si vedono.

La qualità dei testi è un altro insegnamento tratto dalla lettura-innamoramento delle storie di “Spirit”, che per fortuna qui da noi furono tradotte abbastanza bene. Un altro maestro, da questo punto di vista, era stato per me Carl “Paperino” Barks, pubblicato in Italia da Mondadori, sul “Topolino” libretto. Quando anni dopo la Mondadori ripubblicò l’opera omnia di Barks in “Zio Paperone”, a una fiera riuscii a beccare una responsabile della Mondadori e la feci a brani perché aveva sostituito la versione degli anni ’50 con anonime porcherie di altri traduttori, mai capito perché. Più corrette dal punto di vista filologico, magari, ma non rendevano più il profumo generale che aveva dorato la mia infanzia, mandando in malora l’intero pool dei paperi. L’idiozia è ubiquitaria.
Comunque la qualità, da qualsiasi parte provenga, mi ha sempre colpito. Mi sembrava che tutto il buono che mi circondava in Italia non venisse assolutamente compreso e quindi ritenevo che fosse uno sciupio totale dimenticare quelle lezioni preziosissime; come gli esperimenti fatti su pellicola da alcuni film-maker italiani, con la pellicola che si scioglie, queste cose qui: il senso ultimo della storia non c’è, o se c’è mai stato non lo capisci: uno stolido fare per fare, un procedere alla cieca, cioè a cazzo.
Io non volevo assolutamente commettere questo errore ai danni del fumetto, non del mio fumetto; e pur sforzandomi in questo senso, se vado a rileggermi, ancora oggi trovo inciampi, quando non veri e propri errori, che rendono parzialmente illeggibili alcune sequenze, alcune frasi. Adesso le farei in un altro modo.
Per esempio?
Ah, non ricordo (sorride, n. d. r.). Non lo dirò mai.
Alla fine degli anni Settanta la lingua utilizzata nei suoi fumetti inizia a farsi più complessa, con i primi esperimenti nelle storie di Åbsölût.
Åbsölût è l’unico debito che ho con Moebius: da una sua unica tavola tirai fuori la sequenza di Åbsölût, che in realtà dopo un po’ mi stufò; io stesso la trovavo faticosa da leggere, sforzata, ripetitiva nei suoi meccanismi, e arzigogolata.

Piuttosto, dal punto di vista invece del linguaggio dei fumetti, della mise en page, altri begli esempi mi vennero dall’odiatissima Marvel; metteva al mondo personaggi ridicoli per tredicenni stupidi, che non ho mai sopportato, ma alcuni loro suggerimenti formali erano interessanti, per esempio la loro mania per vignette con tonnellate di balloon a cascata; non erano solo un pretesto calligrafico ma nell’economia della storia avevano un’utilità intrinseca, affascinante. Soprattutto mi colpiva perché era una cosa nuova. Gli americani, una volta di più, riuscivano a essere maestri nell’arte che hanno inventato, persino in questi particolari.
Anche lì comunque facevo distinzioni: non mi piaceva l’Uomo Ragno, andavo pazzo per Silver Surfer. Feci un’indigestione dei supereroi americani, qui da noi messi in edicola dalla Corno: nel giro di tre giorni lessi qualcosa come una novantina di volumetti, li studiai proprio per bene; leggerli, capire cosa c’era di giusto e di sbagliato, incamerare quello che serviva, dimenticare il resto, rifiutare il facile e la paccottiglia, erano automatismi che non so chi mi avesse instillato, ma li usai alla grande. Tre giorni sul letto, spesi molto bene, alla fine dei quali mi era finalmente strachiaro perché odiassi tanto la Marvel e il concetto di supereroi. Rivalutai alla grande le menate di Moebius.
Come un maiale che tramuta in cibo tutto ciò che ingurgita.
R: Un maiale e un fascista (ride, n. d. r.).

Con Åbsölût, a parte l’esperimento dell’episodio disegnato per sfida da Pazienza, una sequenza di vignette senza capo né coda alle quali lei aggiunse il testo successivamente, mi sembra che nelle sue storie si inizi a sentire il profumo della realtà circostante, attraverso alcuni richiami sarcastici alla società del tempo. La realtà poi esplode in Un buon impiego, una cantata sul ‘77 bolognese.
In realtà il mio fumetto più propriamente “politico” era apparso già quasi tutto su “Re Nudo”, un mensile edito da una masnada di politicissimi flippati. Riuscii a impressionarli con la mia violenza, e a partire da un mio sfogo (Sogno, n. d. r.) in cui descrivevo l’assassinio di un presidente comunista in visita a Bologna da parte di un cecchino delle B. R. appostato su una delle due torri, “Re Nudo” iniziò ad apporre un disclaimer alle mie storie: “La redazione non è necessariamente d’accordo con quello che dice Scòzzari”, più o meno. Se la facevano addosso, ma il clima allora era anche quello. Le storie per “Re Nudo” mi erano sempre suggerite dalla realtà di allora: per esempio Claretta e il lupo, scritta assieme a una femminista di Bologna poi morta d’eroina, parlava del problema della famiglia repressiva, delle donne, eccetera. Un altro di quei fumetti, Lavorare fa male, colpì tantissimo Andrea (Pazienza, n. d. r.), soprattutto per la tecnica dei balloon a cascata, che lui pensava di aver copiato da me, e io non gli confessai mai che era roba Marvel.
C’è quindi una lunga pre-coda di fumetto politico, che poi continua su “Linus”, e intendo per esempio Un buon impiego, Frazz, Il fantasma delle fonderie, un po’ tutte le storie del Dottor Jack…
Nel Dottor Jack i riferimenti politici evidenti si sprecano, dal P.C. I. in avanti…
Sì, era un tentativo di incidere, sotto l’apparenza buffonesca, sulla realtà di quegli anni. Ma in contemporanea uscivano poi anche i divertimenti di Åbsölût e lì secondo me sbagli: Åbsölût non lo considero come un mio intervento “politico” sulla realtà.

Più che un riferimento vero e proprio a partiti e uomini politici, c’è una trasfigurazione satiricamente malata della realtà, già dai titoli degli episodi: Svacchi estivi, Gli istituti politici, Mercati e Religioni, Femmine e Uniformi …
…e L’amùr. In questo senso sì, ma tieni presente che quasi sempre, anche nelle mie cose più strane, c’è un rimando alla realtà schifosa che mi circonda, o nella mezza frasetta, o nella didascalia, o nel particolare fuori centro, e questo mi fu insegnato da Barks.
Paperino e i tre nipotini fanno casino per strada, sono quasi sempre per strada in effetti, e negli sfondi ci sono macchinine strane a una ruota, gente folle, mendicanti. In Paperino e il ventino fatale Paperino, sempre senza soldi, deve racimolare venticinque dollari per riuscire ad averne poi altrettanti da Paperone e poter comperare così i regali di Natale per i bambini dei bassifondi; nella sua questua Paperino incrocia una coppia seguita da una torma di undici figlioli; Paperino dice: “Fate un’offerta! Fate un’offerta per il Natale dei bambini poveri!” e l’uomo risponde: “Sì, volentieri, prendetene uno, quello che volete!”. Un accenno microscopico, ma molto utile per capire gli States degli anni Cinquanta.

Ho sempre considerato Barks come uno dei migliori cantori dell’America di metà Novecento; nessuno l’ha mai considerato da questo punto di vista perché è un autore di fumetti, il suo tool principale era un pennino, ma è in realtà un grandissimo scrittore, che canta la realtà americana, soprattutto il capitale, che dipinge sempre in termini abbastanza dorati, ma i danni del capitale li vediamo poi in Paperino, o nella figura di Gastone, uno che non lavora perché ha l’incredibile fortuna di avere una fortuna incredibile e non ha bisogno di sporcarsi col lavoro. Paperino e i suoi nipoti invece passano attraverso tutti i lavori di questo mondo, da postelegrafonici a consegnatori di carne per leoni, da corridori ad aggiusta tutto.
Se ci si astrae un attimo dalla vernice fumettara di Barks e si cerca di salire un pochino più in alto, ci si accorge insomma che in realtà Barks è un autore a tutto tondo, non un autore di fumetti, ma un autore e basta. Per esempio non riesco a fare le stesse considerazioni per Milton Caniff, per citare un altro americano reputato grande, ma che a me non ha mai detto nulla.
Uno dei temi che ricorre, che affiora qua e là in tutta la sua opera in maniera carsica, è quello della vendetta, declinata in varie forme, dal dispetto alla rappresaglia feroce. C’è una ragione per questa predilezione?
Probabilmente un po’ mi deriva dal cinquanta per cento paterno di sangue siciliano. Peraltro, l’ho detto mille volte, ritengo che la vendetta sia un piatto da divorare caldissimo; non va lasciato raffreddare, altrimenti che divertimento c’è? Se ammazzi uno che ti ha rotto l’anima e quello prima di morire ti chiede: “Ma perché?”, allora la soddisfazione se n’è andata; deve capirlo al volo il perché.
Tornando al fumetto, dal punto di vista drammaturgico la vendetta è una molla potentissima, shakespeariana, e quindi, visto che è un bel tema, perché no?
Nei suoi fumetti ci sono spesso anche forti manifestazioni di odio. Lei inoltre ha detto e scritto che l’odio è una manifestazione di intelligenza e che la satira di oggi non fa abbastanza ridere perché non si odia abbastanza.
Sì, è assolutamente così. Il mio odio ha origini estetiche: il mondo è brutto e quindi va odiato; per cavarmela con una battuta potrei dire che non conosco uno stronzo bello, ma tutti gli stronzi sono brutti. Quindi è facile prendersela con l’orrore, perché ti tira fuori l’odio da dentro.

Il satiro in fondo è uno che in base alla propria morale giudica il mondo. Senza un pensiero forte dietro, non c’è satira, quindi?
Per come si è connotato in questi anni, il satiro pubblicato è in realtà quello che sforna centinaia di vignette, sapendo benissimo che poi in redazione ne sceglieranno cinque, tre, una, per cui è il primo a non impegnarsi. La facilità al cazzeggio è il suo mestiere. Andrea sul “Male”, capì invece al volo (ma io no, allora, e me ne pento ancora adesso), che devi pensare e realizzare ogni vignetta come se fosse l’ultima della tua vita prima di uscire per strada e essere travolto da un camion. È così che ci si deve comportare, se vuoi stare sul palco.
Inoltre c’è il fatto che le radici sono quelle che sono, non le puoi cambiare, e io ho ricevuto in famiglia un gran bell’imprinting, estetico e comportamentale: i report di mio padre medico su ciò che vedeva nelle case altrui sarebbero materiale per molti libri sull’Uomo, e queste lezioncine, questi racconti anche abbastanza schifosi, quasi sempre tenuti a tavola a un ragazzino tredicenne, erano un bel viatico; sono ammaestramenti che non scordi e che non vanno scordati.
Nelle sue vignette ci sono pochi riferimenti a uomini politici e caricature vere e proprie, e tante prese in giro dei luoghi comuni, delle frasi fatte, degli slogan, delle scemenze del linguaggio.
Mi sono sempre fatto i complimenti per non avere mai disegnato la gobba di Andreotti. Mai. Perché non è satira, non significa niente, oltre al fatto che poi scendi in lizza con gli altri cento che hanno disegnato la gobba di Andreotti, che cosa me ne frega? Forattini è l’esempio vivente di quello che non bisognerebbe mai fare con la matita.
La vera satira per me è cercare di indagare per quale motivo qualcuno reputa che tizi come Andreotti ai tempi o Berlusconi adesso lo possano comandare, o fornirgli dritte per la sopravvivenza; se sai affrontarli, se hai voglia di affrontarli, i motivi degli imbecilli sono molto più spettacolari e affascinanti, oserei dire educativi, che non il grasso di Spadolini, o il Craxi in orbace, o il gobbo Andreotti.
Scappai dal “Male” nel momento stesso in cui m’accorsi che stavo dimenticando e sporcando il mio amore per il fumetto di lungo respiro e mi stavo adagiando sulla facilità della singola vignetta.
Qualche volta commisi l’errore di riferirmi in modo troppo diretto alla cronaca o alle scaramucce politiche, e rileggendo le mie vignette dopo qualche mese già non mi dicevano più nulla. Andrea invece aveva scelto di pestare sui comportamenti, e quindi mi insegnò (e lo avrebbero dovuto imparare pure gli altri) che è quella la materia sulla quale esercitarsi, non l’esteriorità del nemico; è la boria del Reale che deve essere illustrata, e tutto il resto non conta.
