Esistono una solitudine, un feticismo e una paranoia che appartengono soltanto ai fumetti. Un artista che voglia essere grande e che per esserlo abbia scelto il fumetto – prova, questa, di autenticità e perversione estreme – deve confrontarsi con queste tre qualità. Nella parola “grande” qui condensiamo un’attitudine e un’assunzione di responsabilità, quelle di produrre opere che costringano la realtà a specchiarsi in esse e la mettano alla prova in una quasi-inversione del processo mimetico; opere che costringano l’autore a mettersi in dubbio, se necessario a umiliarsi, a sacrificarsi. Daniel Clowes, credo, ha voluto fin dall’inizio essere grande, non per superbia – o anche, affari suoi – ma per senso del dovere, per la riluttanza a concepire qualsiasi altro modo di essere artista.

Nato a Chicago, Illinois, nel 1961, autore di una quindicina di libri e di una rivista personale senza contare cinema e grafica, Daniel Clowes è dunque uno dei grandi narratori e creatori di immagini in bilico tra il vecchio e il nuovo millennio: una posizione scomoda e, al contempo, carica di opportunità. È questione, come sempre, di ampiezza di visione e di esattezza, ma oltre a questo Daniel Clowes sembra essere immune alle principali malattie endemiche del presente: alieno all’autoindulgenza senza neanche cadere nel suo subdolo rovescio, mai derivativo nonostante costruisca i suoi palazzi con materiali di recupero di cui non troppo difficile riconoscere l’origine, ironico senza spocchia ma con molta inquietudine. (Quel misto di disagio e divertimento che si può provare leggendo i sui fumetti – lo diciamo ora e tra parentesi perché poi non ci sarà tempo di tornarci – dipende forse dal fatto che, spesso, Clowes ride. Sembra di sentirlo ridere, anche nei momenti peggiori, ed è una risata che non c’entra con l’ironia ed è difficile da spiegare.) Per introdurci nel suo lavoro proviamo allora a usare come porte le tre parole citate all’inizio: solitudine, feticismo e paranoia.
La solitudine del fumettista non è funzione solo del suo lavoro (le lunghe ore incatenato al tavolo), ma anche dell’aspettativa che ne può trarre, nel migliore dei casi una pallida larva di riconoscimento pubblico. Questo fa da specchio alla solitudine del lettore di fumetti, un abisso che visto da fuori sembra una buchetta e dunque non paragonabile alla solitudine dei lettori di libri senza figure. Da questo stato nasce il sentimento di solitudine di Wilson, David Boring, Enid e tutti gli altri suoi protagonisti. È una solitudine di quest’epoca perché respira nell’accumulo di immagini intense ma incapaci di comunicare, perché nasce da un’insoddisfazione cronica nei confronti di se stessi e del mondo. È una solitudine che non si raccoglie nell’isolamento ma si evolve nello scontro, e credo che sia questo a renderla, nonostante tutto, così familiare e così divertente da guardare.
Il luogo della solitudine è il museo, la discarica delle immagini, una wunderkammer virtualmente illimitata che Daniel Clowes mette in mostra fin dal 1985 con il suo primo comic-book autogestito – Lloyd Llewellin: alieni, gangster, supereroi, beatnick, streghe… – e porta avanti in maniera sempre più complessa, profonda e precisa. È un feticismo struggente, assolutamente americano, che si manifesta nella concentrazione intensa e ossessiva su alcuni manufatti dell’industria culturale, con la consapevolezza dei capolavori, ma con una preferenza per gli scarti, i vicoli ciechi, le sottoculture e gli outsider involontari. Perché al fondo c’è la convinzione che questi ultimi siano impregnati di passioni e sofferenze autentici, carichi di storie. In parte è qualcosa di simile a quella trasparenza delle cose di cui scrive Nabokov – «Quando noi ci concentriamo su un oggetto materiale, ovunque esso si trovi, il solo atto di prestare ad esso la nostra attenzione può farci sprofondare involontariamente nella sua storia» – in parte una sorta di ironica, materialistica sacralizzazione.

Con questi feticci tragici e buffi Daniel Clowes popola una realtà che tende e si ritrae dal nulla – le tante figure della perdita, dell’annichilimento, della sparizione – mentre sovrabbonda di significati. La ricchezza espressiva – nei capolavori David Boring e Ice Haven come nelle storie brevi – suggerisce il caos, ma è organizzata sulla pagina fin nei minimi dettagli al punto da dare il senso di una leggibilità potenzialmente assoluta. Nella messa in pagina Daniel Clowes preferisce sfruttare la giustapposizione di immagini fisse e il potere delle ellissi all’illusione di fluidità. Gli ambienti sono resi con precisione eppure mai troppo carichi da disturbare l’impalcatura complessiva. E questo rispecchia anche il lavoro selettivo di una memoria a lavoro, che aggiunge e sottrae elementi nello stesso tempo, nell’atto di dare forma a un presente allucinato quanto nitido.
Il Daniel Clowes scrittore è un maestro di economia e precisione, i salti di registro non sono mai gratuiti e ogni parola è sempre collegata, da radici profonde, al disegno che la contiene. Anche lo stile è, al fondo, controllo e organizzazione degli stili. Lo stile grafico è subordinato alla progettazione e al servizio del linguaggio.
Wilson – dove il disegno varia sistematicamente di pagina in pagina dall’umoristico al realistico, dall’espressionista al sintetico senza che questo influisca sulla coesione della storia – ne è solo l’esempio più evidente. Nelle figure umane il segno in indugia sul grottesco – una fisiognomica sui generis che non abbiamo qui lo spazio di affrontare – e cerca generalmente la rigidità, assumendo ed esaltando una tendenza che ha una sua genealogia: Steve Ditko, Wally Wood, Bernard Krigstein… La rigidità è potenza emotiva compressa, la commozione e la violenza sono sempre sul punto di esplodere, e spesso lo fanno. La commozione è spietata quanto il resto, la violenza contorta e meticolosa. Oppure, come nei libri più recenti, è l’aggressività del protagonista, la forma sofferta e buffa del suo disagio.

C’è sempre un personaggio principale che ci accompagna nella storia, sulla quale non ha peraltro nessun tipo di controllo. Più narratore di altri grandi della sua generazione, Daniel Clowes sa rendere intensamente reale la fragilità dei sui personaggi e la precarietà della società che li circonda.
La paranoia – un sovraccarico dell’attenzione che si focalizza – è qui il principio in grado di organizzare un mondo. Può darsi che sia il fumetto, che per natura e struttura invita a creare collegamenti plurimi e arbitrari e a ripercorrerli ossessivamente, a essere un arte paranoica. Un po’ più delle altre, diciamo. Di certo per Clowes la paranoia è sia un approccio creativo che un nodo tematico fondamentale. Un guanto di velluto forgiato nel ferro, la prima storia di ampio respiro, espone paranoie come in un campionario: un’immersione viscerale nell’America deviante che si direbbe lynchana, se non per il fatto che Lynch, essenzialmente un mistico, tende all’estasi, luminosa o terminale che sia. L’accurato delirio di Clowes invece è tutto immanente, si chiude nella materia, ma una materia imprevedibile, traboccante di segreti, zone grigie, interpretazioni possibili.

È all’interno di questa complessità che l’egocentrismo – l’egolalia, la rivolta, il vittimismo – degli eroi di Clowes diventa discorso e interrogazione sull’esistenza, che fissa sulla pagina gli stadi di decomposizione di una realtà che non sembra avere via d’uscita. È quasi sempre il racconto di una perdita – dell’infanzia, della stabilità familiare, dell’amicizia, della relazione amorosa – e di una frustrazione, che riguarda il sesso, gli affetti, il successo, preferibilmente le tre cose insieme. Ed è un racconto che rende inattuabile ogni divisione tra realismo e fantastico, perché si situa in una realtà assoluta e inappellabile, che non imita niente ma è aperta a letture plurime e stratificate. Per questo le riflessioni sulla paura e sul potere che affiorano da tutti i suoi fumetti non attengono solo al privato, ma sono politiche in senso pieno.
Non si tratta solo delle fantasie di potenza in Death Ray o della prossimità con l’estinzione in David Boring, è un’attitudine nei confronti delle cose e forse, magari più chiaramente negli ultimi libri, un’oscillazione tra l’abbandono e l’ostinato rifiuto della resa di fronte alla vita, che pure a ogni pagina si propone come soluzione apparentemente inevitabile. Il lettore, per divertirsi e magari imparare qualcosa su si sé, deve essere disposto ad adeguarsi a questa oscillazione, a questa incertezza e a questa ostinazione. Da solo, nei fumetti.
*Articolo pubblicato originariamente su Blow Up n. 181 del giugno 2013.
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