Nato nel 1976 in Francia da una coppia di attori teatrali, Alfred – pseudonimo di Lionel Pappagalli – è uno dei più talentuosi fumettisti francesi contemporanei. Noto principalmente per il suo lavoro di disegnatore – alcuni dei suoi libri sono stati pubblicati negli scorsi anni da Tunué – nel 2013 scrive e disegna Come prima, il suo primo graphic novel da autore completo, che si aggiudica il Fauve d’or al Festival d’Angoulême. Il libro, ambientato nel 1958, racconta la storia del viaggio attraverso l’Italia di due fratelli che non si vedono da oltre dieci anni, divisi dalla Seconda Guerra Mondiale e dalle scelte diverse compiute. «Un libro sul ritrovarsi e sulla riconciliazione», secondo la definizione dell’autore stesso.
In occasione della presentazione di Come prima avvenuta alla Bao Botique Brera, abbiamo incontrato Alfred per parlare del suo ultimo libro e del suo rapporto con l’Italia. «Come la facciamo?» mi chiede dopo le presentazioni, «mi fa piacere allenare il mio italiano che è un po’ arrugginito, però quando lo parlo sembro un cretino» aggiunge ridendo. Stabiliamo di fare un po’ e un po’ e per tutta l’intervista Alfred continuerà a scivolare agilmente dal francese all’italiano.
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Il tuo vero nome è Lionel Papagalli, che denota chiare origine italiane. Me ne parli? Da dove viene la tua famiglia, chi è emigrato?
È stato mio nonno a emigrare. Io vengo dalla regione delle Cinque Terre, da Chiavari. In quel posto ho tutte le mie radici e quelle della mia famiglia. Quando ero bambino periodicamente andavo lì. È un luogo a cui sono molto attaccato; ci facevo le vacanze d’estate, ma a volte anche d’inverno, ogni volta che ce n’era l’occasione. Una parte della mia famiglia vive ancora a Chiavari e so di appartenere allo stesso luogo in cui loro abitano. Sono cresciuto là, la mia doppia cultura e tutta la mia mitologia italiana vengono proprio da quel posto. Ecco, sono veramente molto attaccato all’Italia e in modo particolare a quel posto. Io stesso più tardi sono tornato a vivere in Italia, ho vissuto quattro anni a Venezia quando è nata mia figlia. Avevo bisogno di trasmetterle questa parte di me, le sue radici sono anche qua e in Italia c’è una parte di me e c’è una parte di quello che lei sarà da grande. Ho un rapporto affettivo molto stretto con l’Italia.
Però prima mi hai detto che non ti piace il tuo nome vero. Da dove viene Alfred?
Alfred è uno pseudonimo che mi porto dietro da quando ero piccolo. Mi chiamavano così i miei amici, è un nomignolo che ho da quando avevo sette o otto anni, non ho mai ben saputo da dove venga. Io mi sono costruito anche con quel nome e poi me lo sono tenuto. I miei amici adesso mi chiamano Alfred, e anche la mia bimba. Anzi lei mi chiama papà [ride]. Ormai il mio vero nome non significa nulla per me da venticinque, quasi trent’anni – ora ne ho 38. Da trent’anni a questa parte io mi sono costruito anche con il nome d’Alfred, è una parte importante di quello che sono, anche i miei fratelli mi chiamano così, ma non so da dove venga [ride]. È un nome nato per gioco!
Hai appena avuto una mostra intitolata ‘Italiques’, il tuo blog ha un nome italiano, così come questo tuo ultimo libro, che ha anche due italiani come protagonisti, oltre ad essere ambientato in Italia; e in generale il tuo rapporto con la nostra nazione sembra essere abbastanza stretto proprio a livello di ‘suggestione’, è così?
C’è stato un momento, sei anni fa, in cui ho avuto il sentimento di perdere il mio legame con l’Italia e non saprei dire perché, ma avevo paura di questa cosa. Io sono cresciuto un po’ in Italia, nella zona delle Cinque Terre, una cultura, un paese importante per me, mi sento e faccio parte anche di questo paese, anche se sono francese… come ti ho già detto [ride]. Sei anni fa ho avuto la paura di perdere qualcosa, non tornavo abbastanza spesso. La mia bimba è nata sei anni fa e quando abbiamo saputo che doveva nascere, abbiamo deciso con la mia compagna di venire a vivere in Italia con questa bimba e quindi abbiamo passato quattro anni a Venezia e poi, due anni fa, siamo tornati in Francia, a Bordeaux.
Però non hai vissuto sempre lì, se non sbaglio sei nato nella regione del Rodano Alpi, vicino a Lione.
Sono nato a Grenoble ma vivo da quindici anni a Bordeaux e quindi siamo tornati là.
Ah, che bella città Bordeaux! Ci sono stato un paio di anni fa e ricordo che rimasi estasiato davanti al Miroir d’Eau.
Pensa che l’architetto che ha progettato quella fontana, l’ha progettata pensando a Venezia e all’acqua alta in Piazza San Marco. Ha voluto più o meno ricreare questo fenomeno dove c’è la Piazza della Borsa e ha quindi progettato questo gioco d’acqua.
Un altro francese per cui l’Italia è stata un’ispirazione!
Sì! [ride] Ti ho raccontato tutto questo proprio perché l’Italia è importante per me, è importante il mio rapporto con lei ed è importante anche per mia figlia, che ha sei anni e ha passato quattro anni in Italia. Lei dice di essere italiana e parla italiano. Sì, l’Italia è proprio importante, ma questo l’ho già detto [ride]. Mi sono dilungato troppo? Ho già risposto a tutte le domande successive? [ride indicando il foglio con le domande]
No, non ti preoccupare, dobbiamo iniziare ancora a parlare del libro: come è nato Come prima, da dov’è scaturito l’impulso? Quanto c’è di autobiografico dentro al libro?
Come prima è molto autobiografico. Ho iniziato il libro dopo un periodo di depressione, ho passato un anno arrivando in Italia – quindi sei anni fa – senza riuscire a disegnare, perché ero in un momento in cui mi ero perso tra diverse cose. Non riuscivo assolutamente più a disegnare e una cosa che mi ha salvato, piuttosto che iniziare a disegnare, è stato iniziare a scrivere, una cosa che non avevo mai fatto prima, non avevo mai scritto davvero qualcosa. Iniziai scrivendo un diario solo per me, all’inizio il progetto non era fare un libro, era solo una cosa per me, una cosa personale per non sparire o morire completamente. Volevo scrivere ansie, ricordi, sogni, cose che avevo bisogno di lasciare, e a un certo punto, dopo sette mesi, mi sono trovato con questi quaderni pieni. Con tutti questi appunti ho avuto il sentimento di trattenere qualcosa, una possibilità di trovare una storia in mezzo a tutte queste cose molto personali quali ricordi, sogni e un sacco di altre cose. Volevo solo seguire quel filo e pian piano ho iniziato a scrivere una storia.
Ho scritto tutta la storia di Come prima e poi, quando ho voluto disegnare questa storia, ho buttato via tutto quello che avevo scritto, perché in realtà volevo fare il viaggio coi personaggi e non volevo sapere in anticipo quello che loro avrebbero incontrato e vissuto. E quindi in realtà ho scritto una storia ma ne ho disegnata un’altra, perché quella che avevo scritto non è quella che ho poi disegnato. La storia che ho disegnato l’ho improvvisata. Un giorno facevo una tavola e il giorno dopo cercavo di rispondere alla domanda che mi ero fatto il giorno prima nella tavola del giorno precedente e quindi mi sono trovato a riscrivere tutto mentre procedevo col lavoro. Così in realtà ho scritto due storie. Una storia che ho scritto per me, che ho buttato, e un’altra che ho disegnato. È questo il libro che volevo fare, non quello che ho scritto, nella prima storia le cose erano molto più arrabbiate, e non volevo fare un libro arrabbiato, volevo fare una cosa che ruotasse piuttosto intorno al concetto di riconciliazione.
Come hai realizzato le parti ambientate nel passato? Il tratto e il colore hanno qualcosa di espressionista e sembra che tu abbia cercato di portare su carta una sorta di flusso di coscienza e restituire la sensazione dei ricordi che si mischiano e confondono, ma anche la difficile determinazione di se stessi quando si è giovani.
La cosa più importante per me quando disegno non è avere un disegno bello. Il mio disegno si muove nel libro e si adatta alle emozioni che sento. Non mi vieto nulla nel disegno, tutto può cambiare, però il disegno deve comunque vibrare e questo è ciò che è più importante per me. Io devo presentare una storia al lettore e il lettore deve seguire una storia che è composta da emozioni e da diversi momenti, una storia che contenga anche dei messaggi. Ve lo mostro [apre il libro]: c’è una parte dello storyboard che ho conservato poi nella stesura finale, era la parte della storia ambientata nel passato, con questi disegni molto semplici. La cosa che volevo fare era evocare con questi disegni l’impressione di avere un ricordo, la sensazione di un ricordo in cui le immagini non sono del tutto precise. Ci si ricorda piuttosto della capigliatura di qualcuno e magari non proprio dei tratti somatici del viso. Si ha un’impressione, ci si ricorda, volevo raccontare un’atmosfera di un posto e anche qualcosa che non si ricorda precisamente. Ci si ricorda di un’impressione, non precisamente dei dettagli.
Ho letto che sei totalmente autodidatta, è vero?
Sì, è così, sono completamente autodidatta. Ho iniziato a disegnare quando avevo sei anni e non ho mai smesso, non mi sono mai fermato. Da bambini, prima di imparare a scrivere, disegniamo tutti, poi imparare la scrittura ci fa perdere il disegno come mezzo comunicativo. Io faccio parte di quei ragazzi che non si sono mai fermati. Tuttavia ho sempre avuto un rapporto… libero con il disegno, non ho mai voluto impararlo, ho sempre voluto viverlo. Sì, sono completamente autodidatta.
È strano, ma il tuo stile è abbastanza ‘ondivago’ e difficile da inquadrare, in questo ultimo libro, per esempio, ci sono dei momenti Sfar – gli occhi sono molto “sfariani” -, in altri mi hai ricordato Gipi ma anche il Fior di Rosso Oltremare.
Sì, Fior sicuramente mi ha influenzato. Come tutti quanti, ovviamente, mi nutro di cose che mi colpiscono, le metabolizzo e le ripropongo. Dopo aver visto delle cose non le vedo più necessariamente come cose che vengono da me o da un altro. Queste cose si mischiano con altro, con il teatro, con la musica, è veramente un melange, è una commistione di tante cose che io ripropongo a modo mio.
La ricostruzione psicologica dei reduci dalla guerra e dalla Resistenza e delle barriere inevitabili fra loro è davvero molto accurata e pertinente. Come ti sei preparato per affrontarla? Hai letto qualcuno dei numerosi romanzi di Resistenza italiani, visto film o magari anche ascoltato testimonianze orali? Tante volte, quando si racconta di questo periodo, si tende a dividere nettamente, senza considerare la ‘zona grigia’.
No, non mi sono preparato. Le cose non sono sempre così nette. Mi sono preparato senza prepararmi. Anche in Francia è nutrita la cultura di Resistenza, è una cosa a cui mi sono sempre interessato la ‘zona grigia’, non solo in tempo di guerra. Nella vita noi non ci dividiamo fra cattivi e buoni.
Infatti lo stesso concetto si può applicare al protagonista di Non morirò da preda.
Sono un po’ la stessa cosa in effetti, camminiamo costantemente su un filo e ci muoviamo da una parte e dall’altra ed è il caso della vita che ci può far pendere da una parte o dall’altra. Nella mia vita l’ho sperimentato coi ricordi che i miei nonni italiani mi raccontavano: vengo da una famiglia dove mio nonno era tendenzialmente un comunista mentre il mio pro-zio era stato una camicia nera. Quindi, per me, la mia mitologia personale italiana sono queste storie che ho sentito, queste due persone che dopo la guerra hanno continuato a vivere e hanno fatto una scelta e alla fine ci si ritrova a vedere le cose un po’ come si vuole. Io mi nutro di queste storie. Non mi sono preparato a livello di cose ufficiali, mi sono basato sui ricordi di ciò che ascoltavo quando ero bambino, delle testimonianze orali. Inoltre, se c’è qualcosa che mi interessa, è appunto la zona grigia – che è una buona definizione -, credo fortemente a questo concetto, non siamo bianchi o neri, molto spesso si vive fra questi due poli separati ed è questo luogo a metà che mi interessa.
Esiste un macro-filone/genere derivante dalla natura multi-culturale e post-coloniale della Francia di cui Come prima fa parte? Per farti capire, parlo di libri come Portugal, ma anche l’ultimo di Baru (Le Silence de Lounes) o, persino, il fumetto che sta scrivendo adesso Lilian Thuram sulla storia di sua madre. Sono comunque tutte storie figlie della Francia multiculturale, solitamente animate da autori che desiderano riscoprire o rivendicare le proprie ascendenze o venire a patti con il proprio retaggio.
Sì, in Francia ci sono molti fumetti di questo genere. Da sempre la Francia è un paese che si è fondato molto sul métissage, e quindi ora si hanno delle generazioni per cui è difficile dire da dove si venga veramente. Io per esempio sono nato in Francia ma ho ricevuto una cultura italiana e non è qualcosa che ha inciso poco, è una cosa che è stata veramente vissuta. Anche oggi ho bisogno di dirlo e di affermare da dove vengo, voglio dirlo: una parte di me è italiana.
Sarà importante anche per tua figlia.
Sì, sarà importante anche per lei trasmetterle questa parte di sé.
In Italia forse avremo questa cosa fra vent’anni.
Eh sì, la vostra storia è diversa.
Si tratta sempre di un’opera di fiction, però potrebbe essere la storia di qualunque francese, ma non di un qualunque italiano. Magari sarà così fra vent’anni per un ragazzo straniero nato in Italia.
Sì, ma comunque c’è anche la parte autobiografica, un mio bagaglio personale da cui ho attinto.
Sembra una cosa abbastanza normale per tanti fumettisti. Anche l’ultimo libro di Gipi, unastoria, è un’opera di fiction ma c’è dentro tanto di lui. E anche lui, proprio come te, non è riuscito a disegnare per un po’ di tempo e si è sbloccato partendo dalla scrittura, da una frase che ha scritto su un foglio: ‘dammi risposte complesse’.
Ah, non lo sapevo, è una cosa molto interessante.
In un’intervista di qualche anno fa ho letto che preferisci lavorare in coppia, in un contesto di continua circolazione delle idee con l’altro autore. Sei ancora convinto di questa cosa?
Sì, è lo stesso ancora oggi. Ho scoperto di avere bisogno di fare cose sia completamente da solo sia in coppia. Adesso vorrei di nuovo lavorare in coppia, anche se non l’ho fatto per del tempo. Rimango comunque dell’idea che lo scambio con qualcun altro sia importante. Oggi però mi sono reso conto che sono anche in grado di lavorare da solo.
Infatti se non sbaglio Come prima può essere considerato il tuo primo vero graphic novel da autore completo. Gli altri o erano lavori brevi o derivavano da altre opere, tipo Non morirò da preda o Café Panique, o erano scritti da altre persone.
Sì. Ho sempre collaborato con persone con cui ho un rapporto molto stretto, perché per me scrivere un libro è una cosa molto intima. Le cose di cui parlo e che dico in un libro diventano sempre personali. Anche quando faccio una cosa distaccata da me, lontana dalla mia realtà, ho sempre bisogno di essere con qualcuno che sento molto intimo. D’altra parte oggi ho anche bisogno di lavorare da solo. Un po’ e un po’.
Vincere ad Angoulême è una svolta decisiva per una carriera? Non che tu fossi uno sconosciuto o non lavorassi, e in Italia eri anche già pubblicato, parlo proprio a livello di esposizione. Te lo chiedo perché in Italia non succede, i premi sono spesso snobbati o criticati per le regole d’assegnazione e hanno pochissimo impatto sull’industria del fumetto.
È stato innanzitutto una grande sorpresa. Sì, ad Angoulême l’esposizione è a livello mondiale. È una fiera internazionale, all’improvviso il tuo lavoro è osservato da persone che vengono da tutto il mondo, quindi la visibilità è enorme e l’esposizione a tante persone è enorme. Questa vittoria dà vita a una serie di reazioni a catena: ti chiamano per incontri, mostre, esposizioni, interviste, per dei progetti di film, da ovunque. È un’occasione molto importante. Sì, è stata decisamente una svolta molto intensa, e, dal mio punto di vista, una sorpresa, perché è stata la mia prima volta che ho ricevuto un premio ad Angoulême e vincere il Fauve d’Or è una cosa sconvolgente. Vincere un premio ad Angoulême ha delle grosse ripercussioni.
A cosa stai lavorando ora?
Sto lavorando a un libro su un cantante francese – non posso dire molto -, un libro su Etienne Daho, che è molto conosciuto in Francia. Sto scrivendo insieme a lui un carnet de voyage del suo ultimo album. L’ho seguito nel suo studio a Londra per del tempo. L’altro è un libro a cui sto lavorando da solo. Per ora lo sto solo scrivendo. Dovrebbe parlare del desiderio e di due persone che si incontrano e si desiderano l’un l’altra, che provano del sentimento reciproco ma non possono confessarsi subito il proprio sentimento.