Luke Pearson: il folklore moderno delle favole

Luke Pearson è la “rivelazione” del fumetto britannico – come raccontammo in questo articolo – che sta scalando la popolarità internazionale. La sua serie dedicata al personaggio della piccola e coraggiosa Hilda, pubblicata dall’editore londinese Nobrow Press e tradotta in Italia da Bao Publishing (qui le nostre anteprime del primo, secondo e terzo volume), gli ha permesso in pochi anni di affermarsi grazie a “fantasie (non sempre) innocenti” – come le ha definite il critico Paul Gravett – che seducono lo sguardo con il loro aspetto ipercromatico e stiloso, per portare l’attenzione verso gli aspetti bizzarri, persino surreali, nascosti dietro all’ordinarietà delle cose.

Ormai uscito dalla semioscurità dell’editoria autoprodotta e apprezzato anche dai lettori italiani, Pearson non è più solo una “giovane promessa”, e con la graphic novella Everything We Miss ha iniziato a esplorare nuove vie: le derive di una relazione sentimentale, in una prospettiva tanto amara quanto toccante. Del suo percorso fino ad oggi, e dell’identità ‘british’ dei suoi lavori, abbiamo parlato direttamente con lui. Partendo dal contesto della nuova generazione di autori da cui è emerso, e di cui si trova ad essere una sorta di ‘portabandiera’.

I tuoi lavori hanno contribuito a creare una new wave in Gran Bretagna. Credi si possa parlare di una vera e propria scena o di una comunità con caratteristiche e obiettivi condivisi?

Esiste senza dubbio una sorta di comunità. Dopo qualche convention finisci per conoscere abbastanza bene la gente e praticamente quasi tutti i miei migliori amici sono legati a questo mondo, in qualche modo. Non so se ci sia una particolare visione condivisa, però. L’impressione che ci sia una new wave del fumetto britannico è collegata al fatto che oggi ci sono più possibilità di essere pubblicati, più che il fatto stesso che ci sia un vero movimento. Non credo nemmeno che sia un fatto limitato all’Inghilterra. Sembrerebbe che l’asticella limite per essere pubblicati si sia abbassata e che la piccola editoria sia in crescita, portando così a un maggior numero di persone nelle condizioni di fare il loro lavoro e trovare uno spazio di pubblicazione.

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Nel lavoro tuo o dei tuoi colleghi – presso Nobrow, ma non solo – trovi che ci sia qualche ingrediente tipicamente british?

Non credo ce ne siano, e ciò mi rattrista davvero. Sono costantemente alla ricerca di elementi di Beano [popolarissima striscia britannica apparsa per la prima volta nel 1938, NDR] e di quella scuola fumettistica, che ritengo un’ispirazione per parte del mio lavoro, ma del resto finisce anche per sembrarmi melensa, quindi finisco per allontanarmene. La rivista 2000 AD fu una parte importante delle mie prime letture a fumetti, ma anche di questa non vedo riferimenti nel mio lavoro. L’unica cosa che mi viene fortemente in mente quando penso ai fumetti britannici degli anni recenti è quel brutto complesso di inferiorità nei confronti degli Stati Uniti e dell’Europa, e il disperato bisogno di dimostrare di saper fare bene i fumetti quanto loro.

Vorrei pensare che ci sia qualcosa di prettamente britannico nei miei lavori in un modo anche inconscio, ma temo che non sia così. Un giorno vorrei essere in grado di realizzare un fumetto che evochi l’atmosfera del luogo da cui provengo, qualcosa di fortemente “british”, ma senza somigliare ai “fumetti british”. Jon McNaught è un ottimo esempio di questo [altro esponente di punta della scuderia di autori Nobrow, NDR].

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Da quali idee è nata Hilda? Nella trama come nell’iconografia sembra unire la mitologia nordeuropea e l’immaginario naturalistico di Miyazaki.

Ci sono ovviamente un sacco di idee fortemente derivanti dal folklore scandinavo. Ma, nello specifico, i racconti popolari realistici di gente normale e le cose che incontrano nel mondo reale, in contrasto con le epiche saghe nordiche. Mi piaceva l’idea di raccontare le mie storie su queste creature e mettere in risalto le cose che trovo emozionanti e misteriose riguardo a queste ambientazioni. Una direzione leggermente diversa – che talvolta mi chiedo se fosse stato meglio intraprendere – sarebbe stata quella di fare adattamenti diretti di leggende scandinave e ambientarle più rigidamente in un luogo e un tempo precisi. Ma mi sono presto reso conto che ogni paese ha le sue versioni leggermente diverse di queste storie e creature, che arrivano anche in Gran Bretagna, e i Nisser in pratica da noi sono i Brownie [folletti, NDR]. Quindi, per me ha avuto più senso creare un mondo immaginario che assorbisse i vari aspetti che mi piacevano di quelle storie e ne catturasse lo spirito, permettendomi però anche di introdurre elementi miei.

Un’altra influenza per me è stata la serie di libri Queste oscure materie, di Philip Pullman, nel senso che ho immaginato il mondo di Hilda come se esistesse in parallelo col mondo reale, con una differenza principale consistente nel fatto che le creature fantastiche lì sono reali ed esistono da molto tempo.

Hilda mostra una contrapposizione tra natura e città. La protagonista esprime un chiaro disprezzo per la seconda. È anche la tua opinione?

La disprezza solo all’arrivo. Il trasferimento in città succede per varie ragioni, ma una è il fatto che la vita di Hilda nelle campagne sembrava fin troppo idilliaca e perfetta. Mi sono divertito a usarla per i primi due libri, però poi ho iniziato quasi ad annoiarmi del fatto che se la passasse così bene. Mi piaceva l’idea di inserire una situazione che potesse essere vicina all’esperienza del lettore bambino. Ovviamente, lei rifiuta il luogo, inizialmente, ma vederla struggersi in continuazione per un ritorno alla natura nel modo in cui farebbe se fosse in un film di Miyazaki, e vederla poi “scappare” dalla città e avere quei sentimenti a un certo punto giustificati, ho pensato che sarebbe stato in un certo senso un calcio nello stomaco per il lettore più giovane che è costretto a vivere in città. Lei invece inizia a concentrarsi sulle parti della città che le interessano e inizia a divertirsi per tutti i dettagli e la varietà di cose e persone che esistono lì. Spero che, visto che lei vede per la prima volta il posto, possa aiutare il lettore a notare cose che fino a quel momento aveva dato per scontate.

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I primi due volumi hanno una struttura diversa; vicino al picture book il primo, e tradizionalmente fumettistico il secondo. Perché?

Direi che dipende dalla complessità delle storie. Il primo libro aveva un numero di pagine prestabilito e doveva essere corto, così ho pensato a una storia molto semplice. Volevo imitare il tono realistico di alcuni racconti del folkore che avevo letto. Volevo raccontare una sua giornata tipo, con un sacco di cose strane che succedono, con lei che però affronta tutto con tranquillità. Dato che col secondo libro avevo a disposizione più pagine, ho avuto ovviamente modo di scrivere una storia più elaborata, forse anche più complicata di quanto potessero permettere 40 pagine. Ho avuto l’impressione che da quella storia avrei potuto tirar fuori un intero graphic novel, davvero. Dato che c’era molto da poter inserire, il layout delle tavole si è fatto più denso, con più balloon e un maggior uso di stilemi classici del fumetto atti a comprimere un sacco di informazioni in poco spazio. Credo sia per questo che il libro dà più l’impressione del fumetto tradizionale.

Quali sono, per te, i punti di riferimento principali (autori, opere, editori, eventi) nel mondo del fumetto contemporaneo?

Le solite cose, in realtà. Credo che Chris Ware possa essere considerato il personaggio più importante del fumetto contemporaneo, e che Michael Deforge sia l’artista migliore e probabilmente il più influente nel campo del fumetto alternativo, oggi. Però, l’idea della gente di quale sia l’area principale nell’attuale mondo del fumetto, è complemente diversa. Ciò che alcune persone considerano un punto di riferimento o qualcosa di essenziale, altri fumettisti nemmeno lo conoscono, o nemmeno lo hanno mai visto. Personalmente, conosco bene solo la scena britannica e quella americana, ma sono consapevole, essendo anche stato a convention da altre parti, che ogni paese ha la sua scena e artisti di cui posso aver sentito vagamente parlare, e che per molte persone sono importanti.

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Con il tuo racconto Everything We Miss hai toccato temi lontani dal fantastico. Stai lavorando ad altri racconti simili?

Sto lavorando a un nuovo progetto per il pubblico maturo. Il mio prossimo libro probabilmente non sarà uno della serie di Hilda. Al momento il futuro è piuttosto incerto, poiché, da quando ho realizzato Everything We Miss, la mia sicurezza nella scrittura di storie simili è crollata bruscamente. Me ne rendo bene conto e ciò costituisce una barriera.