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RecensioniNovitàUn futuro spietato e sovraccarico: Le Cronache di Centrum

Un futuro spietato e sovraccarico: Le Cronache di Centrum

Che i nostri siano anni bui, lo sappiamo. Uno degli specchi più efficaci di questa percezione della realtà rimane la produzione fantascientifica, con tutte le sue metafore e iperboli, in verità mai troppo lontane dalla vita di tutti i giorni. Considerate le ultime stagioni di produzione di intrattenimento: difficile, se non impossibile, trovare un film/libro/fumetto di scifi in cui il domani abbia un’aura, diciamo così, almeno un po’ “attraente”. Per esempio, raramente si tratta un tema come il prossimo stadio dell’evoluzione sociale: il futuro è fosco, e la fantascienza fatica a pensare al domani. E quando non si assiste alla descrizione di distopie spietate, c’è qualcuno che vuole distruggere la Terra. Senza contare i casi in cui sembra di assistere a una specie di en plein, il cui assunto pare essere: perché mai qualcuno – chiamiamolo ‘eroe’ – dovrebbe lottare, se nello scenario che lo attende avrebbe comunque vita breve?

Le Cronache di Centrum

Le Cronache di Centrum (di Jean–Pierre Andrevon e Afif Khaled, Mondadori Comics) non fa certo eccezione, e parte in quarta dedicando tutto il primo capitolo alla descrizione del suo arido protagonista. Una sorta di sicario/controllore della sovrappopolazione che si aggira, fasciato in impermeabile e cappello a falde strette, per una megalopoli traboccante un’umanità rovinata e perennemente bagnata da piogge torrenziali. Rivolgendosi al lettore con la consueta voce off da manuale del noir, ça va sans dire. Nelle didascalie che costellano le pagine, gli autori spiattellano cifre e dati per sottolineare quanto si possa stare male in questa futura Europa (non si parla esplicitamente del nostro continente, ma c’è un tunnel che si chiama Silvio Berlusconi… difficile immaginarlo a Tokyo, no?): spietate statistiche circa lo spropositato numero di abitanti del megaghetto in cui si svolge la vicenda, o ansiogene quantificazioni del tempo impiegato dal protagonista a tornarsene a casa dopo il lavoro (compresa la conta dei kilometri percorsi). Dati, numeri, cifre.

Potrebbero sembrare piccolezze, ma in realtà questi dettagli ci salvano da una sensazione di déjà vu proprio grazie alla loro freddezza. E andando oltre, offrono non solo un supporto alla narrazione, ma veri e propri elementi informativi (ed eemotivi) preziosi, complementari a quanto siamo in grado di capire su quell’opprimente metropoli grazie alla trama. Nonostante le premesse non siano tra le più fresche, l’interesse della storia risiede allora proprio nella cupezza del contesto sociale, perfettamente incarnato nel totale disinteresse mostrato dal protagonista nei confronti del dolore portato ai comuni cittadini. Per risolvere il problema del sovrappopolamento della città di Centrum, infatti, ogni anno 400.000 individui vengono sorteggiati da un computer centrale, ed eliminati (leggasi: brutalmente ammazzati) durante operazioni di una forza speciale di polizia di cui il protagonista fa parte. Soprannominati informalmente “Furetti”, perché visti come predatori di una popolazione affollata come in un ‘pollaio’, ne seguiremo piano piano le esecuzioni sommarie, scoprendo come agiscono ma anche il loro oscuro passato, e le dinamiche di queste assurde estrazioni a sorte.

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I ‘furetti’ sono freddi come un’elenco di dati (appunto): il loro ruolo è una mera funzione, all’interno di uno spietato meccanismo di sopravvivenza per evitare il collasso sociale. Un aspetto solo leggermente stemperato da occasionali incursioni sentimentali, infilate nella storia in maniera però quasi pretestuosa, mai completamente riuscita. Sempre nella stessa ottica di distruzione di ogni tensione romantica, il mondo di Centrum è sovraccarico di particolari anche sul piano grafico. Come nella narrazione nulla viene lasciato all’immaginazione del lettore, alla stessa maniera le matite colmano ogni angolo dell’apparato visivo con particolari di particolari. Compresa la colorazione digitale: cupa al punto da suonare, persino, al limite dell’incomprensibile. Anche se in alcune sequenze ci si può imbattere in sorprendenti scivoloni stilistici, a prevalere è il senso di soffocamento e di claustrofobia.

Il risultato finale non è certo un capolavoro, ma perlomeno riesce a strapparsi di dosso gli abiti dismessi dell’ennesimo clone di Blade Runner (si basa su di un romanzo dello stesso Andrevon pubblicato nel 1983, solo un anno dopo l’uscita del film di Ridley Scott). Chissà se, in questo, abbia contato l’ispirazione dello scrittore, che ha riferito di avere avuto una prima idea della storia partendo dai fumetti (ben poco sci-fi) di Georges le Tueur, realizzati sulla rivista “Hara-Kiri” dal maestro di satira Georges Wolinski. Il mestiere, per il resto, è tanto – ma una certa rigidità di fondo riesce, paradossalmente, a evitare di cadere nella consueta sudditanza statunitense per quanto riguardi dialoghi hard-boiled e accelerazioni action. Di certo questi aspetti non mancano, ma non si finisce mai nello scimmiottamento più scellerato. Forse si poteva fare qualcosa di più. Basti pensare al magnifico lavoro fatto da Darwyn Cooke sui libri di Richard Starck (o Donald Westlake, che dir si voglia). Ma viceversa, le cose potevano andare anche decisamente peggio. In fondo, proprio come tiene a farci sapere – verso la conclusione di questa trilogia – il protagonista.

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