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RecensioniClassicLa prescolastica poco scolastica di Antonio Rubino

La prescolastica poco scolastica di Antonio Rubino

Antonio Rubino, anima creativa del Corriere dei Piccoli delle origini, e tra i maggiori fumettisti-illustratori italiani della prima metà del Novecento, era un uomo ordinato e regolare, ma dall’immaginazione capricciosa, nutrita da molteplici ossessioni («se la mia arte è balzana, io sono normale», disse di sé). Tra le più ricorrenti nei suoi lavori, ammantate da figure grottesche e “forme pallottolevoli”, un terzetto si sono rincorse e intrecciate negli anni con particolare evidenza: la scuola, i giocattoli e i congegni ‘tecnici’.

Un libro uscito un anno fa, La scuola dei giocattoli, ne è un sunto davvero mirabile. Si tratta della riedizione di una collana pubblicata da Rubino quasi un secolo fa, nel 1922, sull’onda dei primi sviluppi della moderna editoria scolastica. Una raccolta di sei albi, destinati a offrire una “giocondità istruttiva” ai bimbi tra i 4 e i 9 anni, che è una piccola invenzione.

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I sei albi (16 pagine ciascuno, in formato quadrotto) presentano ciascuno una specifica materia di apprendimento o un qualche messaggio pedagogico, così descritti nel ‘comunicato’ diffuso dall’editore originale, Istituto Editoriale Italiano: Belle lettere è un abbecedario “a figure per imparare a leggere senza sforzo”; Numeretta è invece un abbaco “graziosissimo, per imparare i numeri e le prime operazioni aritmetiche con la più schietta giocondità”; O di Giotto sarebbe una “nomenclatura figurata degli oggetti più familiari”; Bestie per bene raccoglie “una rappresentazione comicissima del mondo degli animali domestici e selvaggi”; Io asino primo è infine un “racconto educativo, divertentissimo”, e Re Bifè una “deliziosa fiaba”.

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In questi libretti Rubino riesce a fare delle forme, dei colori e degli elementi decorativi materiale per raccontare microstorie, secondo la logica – per quegli anni, indubbiamente progressista – dell’“istruire divertendo”. Ma proprio l’educazione fu il tema su cui Rubino toccò le più sorprendenti contraddizioni: da un lato sostenne “più della scuola ha influito su di me la vita libera dei boschi”, e arrivò fino a tenere i propri figli davvero lontani (per qualche tempo) dalle aule; dall’altro, lungo tutta la carriera creò opere dalle palesi finalità pedagogiche, sia nei fumetti per il CdP che con questa stessa serie di albi. Se nelle celebri serie Quadratino o Il Collegio La Delizia lo studio e le competenze scolastiche tornano utili per ristabilire l’ordine in qualche – stralunato, immaginifico – modo, in Pino e Pina o in Caro e Cora (raccolte nell’antologia rubiniana che ho compilato qualche anno fa con Fabio Gadducci) i paradossi esplodono in una tensione quasi satirica, che riguardino due scolaretti ritardatari, assai predisposti alle distrazioni lungo il tragitto verso scuola, oppure due alunni di una poco plausibile “scuola all’aria aperta” alternativa all’istituzione tradizionale.

Il bello dei sei albi riproposti da Scalpendi con appassionata cura filologica, allora, è che l’impulso pedagogico e, al contempo, la visione disincantata dell’istruzione professata da Rubino, raggiungono qui il massimo della contraddizione.

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Per un verso, infatti, il gruppo di libretti configura un vero e proprio “progetto di editoria didattica degli anni Venti”, come giustamente rimarca sin dal sottotitolo il curatore Martino Negri. Belle lettere, Numeretta e O di Giotto, gli albi più didattici anche in senso stretto, per insegnare l’alfabeto, i numeri e le forme geometriche essenziali presentano trovate – insieme grafiche e linguistiche – che funzionano ancora bene, arricchite dalla grazia cromatica e poetica (fatta di consonanze e assonanze quanto mai musicali e fluide) in cui il talento di Rubino sapeva eccellere. Non a caso, la sua efficacia all’epoca lo portò non solo ad essere presto ristampato nel 1927/1928 dall’editore Cartoccino, ma ad ispirare una nuova collana di albi di Rubino, intitolata “Bibliotechina prescolastica”, composta da La casa di Cosa (1926), Il giardino di Fiorella (1926), Il castello d’Abicì (1928), La città di Abaco (1928), La scuola di Scarabocchio (1928), L’arco dei sette colori (1928). Come ha ricordato Santo Alligo, “la collana completa dei dodici albi era pubblicizzata, e quindi conosciuta, anche con il nome di ‘Prescolastica Rubino’”.

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Per altro verso, tuttavia, La scuola dei giocattoli non fu solo editoria didattica ‘divertente’, ma vero e proprio gioco. Gli albi vennero infatti messi in vendita insieme a uno speciale contenitore per riporli. Si trattava di un modellino di edificio scolastico, in cui essi erano collocati alcuni al centro, e altri sui lati, incurvati. I librini erano stati progettati graficamente proprio per questo specifico display, con il titolo collocato in un piccolo rettangolo in copertina, in modo da restare visibile nonostante la curvatura. Le figure in copertina, inoltre, si presentavano curiosamente deformate, ma non senza ragione: erano disegnate secondo i principi dell’anamorfismo, in modo che, una volta arrotolati gli albi, sarebbero state percepite con forme e proporzioni ‘normali’. Le copertine incurvate, poste nelle due sedi ai lati della casetta, potevano così apparire “come vigili pupazzetti, all’apertura delle porticine della ‘scuola’”, ha notato Paola Pallottino. E il designer di questo oggetto fu lo stesso Rubino. Un giocoliere non soltanto della parola e del segno, ma anche della tecnica, come testimoniato sia da tanti suoi racconti (Le cronache del futuro) e fumetti (fra cui l’improbabile scienziato atomico Ilario, in Dino Din e Din Dinora), sia dai tanti oggetti (scenografie, decorazioni, giocattoli e mobili di una memorabile cameretta) e un congegno leggendario: la “macchina da presa sinalloscopica”, da lui brevettata intorno al 1940, creata per integrare colori, suoni e movimento nella produzione di film in animazione, e impiegata per il suo I sette colori, proiettato a Venezia nel 1955.

Una scuola dei giocattoli, dunque, ovvero un giocattolo a forma di scuola, o un giocattolo sulla scuola. Perché “istruire divertendo”, in Rubino, equivaleva a divertirsi istruendo. Senza troppo rendersene conto, e facendo confusione tra cosa venisse prima e cosa dopo, seguendo un ordine del tutto personale e anarcoide, caotico eppure vitale. Un destino inevitabile, forse, per chi come lui aveva frequentato il confine tra la direttività della parola e l’abbandono del segno, a tutti evidente e per lui invisibile, come per un suo personaggio:

«Odigiotto non si accorgeva di una cosa. Credeva di disegnare e invece scriveva. […] Allora Odigiotto prese i suoi disegni e ne fece un libro senza parole. E questo libro piacque molto ai piccoli, perché ognuno era padrone di leggervi quello che voleva. E questo libro fece molto dispetto ai grandi, che mancando di fantasia, non sanno leggere che le parole scritte.»

La scuola dei giocattoli di Antonio Rubino
a cura di Martino Negri
Scalpendi Editore, 2013
140 pag., €30,00

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