Sarà buono o cattivo? La religione ‘patinata’ di The Wicked + The Divine

Il lungo spettro della serialità televisiva statunitense continua, a distanza ormai di una quindicina di anni dalla sua esplosione di popolarità, a influenzare in maniera sempre diversa ogni altra forma di narrazione popolare. Se prima la parola d’ordine era “approccio adulto” piuttosto che “complessità e profondità” ora l’asse dell’attenzione pare essersi spostato più sull’affezione a lungo termine.

Esauritasi la spinta propulsiva dei concept geniali (misteriose isole deserte, narrazione in tempo reale, famiglie mafiose anti-Padrino,…) siamo arrivati al punto in cui occorrono almeno 2/3 stagioni per entrare realmente in contatto con il nucleo di interesse della produzione. Sia ben chiaro, tranne nei casi più aderenti alle regole “di genere”, è sempre stato così (si veda la scrittura di The Wire). Ma ora pare diventata la prassi. L’ultimo grande fenomeno televisivo, Breaking Bad, richiedeva un bel grado di sopportazione per passare le prime stagioni (buone, ma certo non eclatanti) e arrivare poi a gustare gli ultimi, esplosivi archi narrativi. Che assumevano una potenza ancora maggiore proprio per via dell’empatia sviluppatosi con il protagonista. Un meccanismo che richiede più attenzione nella gestione dei tempi lunghi della serialità, che non un classico lampo di genio.

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Di questa cosa sembrano essersene accorti anche alla Image, impegnata ultimamente a lanciare serie prive di un pitch davvero convincente, e piuttosto destinate a “crescere” sempre più con l’avanzare dei numeri. Abbiamo la crime novel sudista (Southern Bastards), il buddy movie fantascientifico (The Fuse), il badass fantasy al femminile (Rat Queens) e da oggi anche l’ennesimo tentativo di normalizzazione del pantheon religioso (The Wicked + The Divine, una cui anteprima trovate qui).

Proprio quest’ultima serie, indicata da alcuni come il prossimo grande fenomeno Image, parte in realtà malissimo, adagiandosi su un’idea trita e ritrita, sviluppando il ritorno degli dei in maniera molto più normalizzante rispetto a serie recenti come East of West o God is Dead. Abbiamo quindi Lucifero, che diventa una ragazza androgina e cinica (e che fuma!) e la sua controparte positiva, resa come una popstar diciasettenne seguita da legioni di fan impazziti. Insomma, niente di che, nello spunto di partenza.

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Eppure, la cura e la compattezza della direzione creativa lasciano intendere il gran lavoro alle spalle della prima uscita. Dalla costruzione delle copertine (ispirate all’estetica dei magazine patinati di più alta caratura, à la V Magazine) al lavoro chirurgico del disegnatore Jamie McKelvie, mai così pulito ed estetizzante. Per certi versi con questa serie siamo alle prese con la controparte fumettistica di ciò che, in ambito audiovisivo, potrebbe essere definito il tipico stile da pubblicità-di-profumi. Una visione leccatissima, sfacciatamente leziosa e priva (volutamente) di reale profondità. Qualsiasi cosa sia al centro dell’inquadratura deve sembrare la cosa più bella al mondo, quantomeno per la manciata di secondi in cui invade il campo visivo dello spettatore.

Il risultato che ne deriva, offre così una sottile metafora del mondo della musica pop – e perché no, della visone moderna della religione – in cui si muovono i protagonisti. E forse – chissà – contiene qualche altro indizio di ciò che potrebbe arrivare: spingere ancor più sulla superficie (estetizzante) per dirci della superficialità (di certi simboli collettivi). Peccato si dovrà aspettare qualche – se non parecchi – episodio per percepirlo. Ancora presto per gridare al nuovo Saga, ma attendiamo il secondo numero con una discreta aspettativa.