La volpe e il polledrino

La volpe e il polledrino, appena uscito per Topipittori su testo di Antonio Gramsci, conferma il talento di Viola Niccolai, che con questo libro entra nel panorama dell’editoria “ufficiale” ma che già aveva dato segni importanti della propria capacità con altri lavori, a partire da quelli del collettivo La Trama, di cui fa parte insieme a Silvia Rocchi, Francesca Lanzarini e Alessandro Palmacci e che è sicuramente tra le realtà più significative del panorama dell’autoproduzione italiana di oggi. Bosco di betulle, in particolare, mi aveva impressionato, come opera di assoluto valore, e capace di delineare già una poetica solida, che va oltre alla riconoscibilità di uno stile, o a una serie di immagini riuscite. Lì Viola, Silvia e Francesca inscenavano un dialogo disegnato a tre, sul filo di una memoria antica e di un legame forte con le proprie radici, in una Toscana appartata, fuori dai canoni del turismo di massa, dove oggetti, paesaggi, persone, sembravano apparire dal nulla, solide e concrete sulla pagina, ma già con il presentimento di una dissolvenza, della necessità di tornare là da dove sono state richiamate.

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L’evanescenza e la persistenza del ricordo sono una costante nel lavoro di Viola, che spesso muove da spunti autobiografici, ma sfugge ai rischi di un’autoreferenzialità sterile o di un narcisismo poco giustificato, perché i suoi ricordi sono solo il trampolino per disegnare il Ricordo nella sua essenza, la lotta per la sua conservazione, la malinconia per la sua lontananza: case, paesaggi naturali, bambini, uomini e donne si mettono in fila di fronte ai nostri occhi, quasi usciti da vecchie fotografie,  per un ultimo saluto. L’atto del disegnare diventa saluto a sua volta, affettuoso ma con una sua tragicità, e strenuo tentativo di conservazione, di trasformare l’assenza in presenza.

Non è un caso allora che spesso nelle sue immagini compaiano l’infanzia e gli animali, perché esse sono accomunate dal loro esserci e sparire subito dopo, dal contrasto che si crea tra la concretezza della loro presenza e la loro imprendibilità, tra la quotidianità del qui e il mistero dell’altrove. È una cattura difficile quella a cui si impegna Viola, eppure pienamente riuscita nel suo procedere per intermittenze, per apparizioni, dove conta molto il gioco tra i pieni e i vuoti, il contrasto tra  il grigio della matita e le accensioni dei pastelli, tra la delicatezza di alcuni segni e il violento tratteggio delle campiture.

Queste caratteristiche si ritrovano pienamente ne La volpe e il polledrino. Il testo è una delle storie che Antonio Gramsci dal carcere mandava con le sue lettere al figlio, un ponte lanciato tra il presente della prigionia e il passato della propria infanzia in Sardegna, tra un padre e un figlio costretti a una lontananza forzata. Sembra che sia proprio lo sforzo a superare queste distanze a torcere il racconto dalla linearità, perché esso si pezza in due, prima concentrandosi sulla minaccia della volpe nei confronti del polledrino, poi sull’improvviso incontro con una volpe, lui da bambino insieme ai suoi due fratellini, come in una fiaba. L’alterità dell’animale imprime una forza precisa al racconto, insieme ad una scrittura secca e assai parca di parole, estremamente concreta nei pochi dettagli che esplicita, ma ricchissima di allusività, dove la volpe è vera volpe ma anche presenza totemica di fronte allo stupore bambino.

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Viola lavora attorno al testo alternando fedeltà e trasfigurazione delle parole e provocando nel lettore un’attesa sempre vigile per cosa si troverà ad ogni nuova pagina, perché non è mai prevedibile. Né cerca di dare attraverso le sue immagini una maggiore solidità strutturale al racconto, una rotondità che non ha, anzi piuttosto ne accentua le spezzature e la non linearità procedendo per scarti improvvisi. Quando, ad esempio, dopo tre doppie pagine con la volpe e il polledrino come protagonisti che ci hanno abituato ad un’atmosfera da favola esopiana, si legge: «Perciò appena il polledrino nasce, la madre si mette a correre in circolo intorno al piccolo che non può muoversi e scappare se qualche animale selvatico lo assale.» Ma la continuità di senso rispetto al testo delle pagine precedenti viene rotto dall’immagine che ci presenta una classe di primo Novecento, con bambini e insegnante che ci guardano come fossimo noi il fotografo e sulle teste e le spalle di qualcuno un piccolo cavallo blu, lanciato in una corsa frenetica. Immagine con cui si abbandona la realtà e si varca la dimensione del meraviglioso, ma anche quella di una memoria dell’autore da bambino. E così si prosegue per strappi, attese, ritorni alla realtà e nuove fughe, come se la corsa in circolo fosse non solo il modo per tenere lontane le volpi, ma anche l’unico per catturare il mistero, sia esso animale, bambino, o ricordo.

Emilio Varrà // Hamelin Associazione Culturale