Gradi di coinvolgimento, gradi di distacco critico

Coconino Press torna alle origini pubblicando il seguito de Il vampiro che ride, di Suehiro Maruo, la cui prima parte è stata, nel 2000, il primo titolo della allora neonata casa editrice. Si tratta di un testo al tempo stesso raffinato e terribile, come nello stile di Maruo (su altri lavori di Maruo avevo scritto qui), che mette in scena sesso e violenza estrema, ma anche sentimenti sottili e un disegno raffinato e pieno di riferimenti colti.

All’estetismo del male Maruo non è affatto estraneo, perché è sempre attorno a questo che girano i suoi lavori. Non di rado mi viene da domandarmi il perché di questi eccessi e di questo godimento nel rappresentarli; ma poi è così evidente che si tratta (anche) di un gioco intellettuale, che mi viene da pensare che una condanna a sfondo moralistico del lavoro di Maruo sarebbe in realtà un cadere nella trappola stessa tesa dall’autore, il quale, in fin dei conti, lavora sempre un gradino più in là, e sembra sempre giocare appositamente sul limite dello scandaloso affinché il lettore si scandalizzi.

Suehiro Maruo, da "Il vampiro che ride, 2 - Paradiso", Coconino 2014
Suehiro Maruo, da “Il vampiro che ride, 2 – Paradiso”, Coconino 2014

Ma non è questo ciò di cui voglio parlare nel post di oggi, anche se è proprio questo ciò che me ne dà l’occasione. Mi rendo cioè conto che una parte dell’efficacia della strategia di Maruo sta proprio nel suo raccontare per immagini. Se lo stesso racconto fosse contenuto in un romanzo (solo verbale) inevitabilmente l’impatto delle scene di uccisione e di sesso sarebbe più debole; certo, molto dipenderebbe dal modo in cui queste scene sarebbero raccontate; tuttavia, anche immaginando lo stile narrativo più crudo ed efficace possibile, una storia raccontata a parole presenta un livello di mediazione in più rispetto a una storia raccontata per immagini.

Proseguiamo l’analogia. Immaginiamo che la medesima storia sia sempre raccontata per immagini, ma che ora le immagini siano fotografiche. Fatta salva la variabile della qualità (ci torniamo su dopo), indubbiamente l’effetto delle scene di sesso e violenza sarebbe ancora più forte di quello delle immagini disegnate: gli organi genitali sarebbero veri, e le ferite di arma da taglio pure (o tali apparirebbero) così come il sangue che ne sgorga. Se mettessimo queste immagini in movimento, arrivando all’audiovisivo, al cinema, avremmo un nuovo scatto di efficacia e di eventuale disturbo: e credo che sarebbe necessaria una qualità di regia altissima per evitare di cadere nei generi del porno e dello splatter.

Infine, se tutto ciò diventasse un videogioco iperrealistico, in cui sei tu stesso il protagonista della storia, sarebbe allora forse impossibile evitare le galassie del porno e dello splatter. Nessuna mediazione estetica o intellettuale ci proteggerebbe dal male: lo realizzeremmo (virtualmente) e basta.

Che cosa cambia nei vari gradi della progressione parola-immagine disegnata-fotografia-cinema-cinema interattivo? Potremmo dire che è una questione di realismo, se non fosse che la parola realismo è, in sé, talmente vaga da richiedere una serie di contestualizzazioni e precisazioni per poter essere utilizzata. Proviamo allora a dire che, almeno qui, stiamo definendo il realismo attraverso la minore presenza di gradi di intermediazione tra il fruitore e la vicenda raccontata – indipendentemente dal fatto che si tratti di una vicenda plausibile, ovvero che, al di fuori della finzione accettata che regola gli universi letterari (dal romanzo al videogioco) sia una vicenda alla cui possibilità reale potremmo arrivare a credere.

Se dovessimo infatti mettere in gioco la credibilità, o plausibilità, certo la vicenda del Vampiro che ride non potrebbe essere considerata realista. Ma quello che ci importa qui non è se sia o meno tale.

Quello che ci importa è capire perché il grado di realismo (come definito sopra) del racconto verbale sia inferiore a quello del fumetto, e questo sia inferiore a quello del romanzo fotografico, e questo a quello del cinema e questo a quello del videogioco, il cui grado di realismo sarebbe ovviamente inferiore a quello della realtà, se mai potesse avvenire in questi termini.

La nozione semiotica di débrayage (letteralmente, distacco) ci viene in aiuto qui. Nel racconto verbale, tipicamente, siamo sempre di fronte a tre tipi di débrayage: un narratore, posizionato in un certo tempo e in un certo luogo, racconta la storia di altre persone (personaggi) in un altro tempo e in un altro luogo; in termini semiotici, cioè, siamo di fronte a un débrayage attoriale, un débrayage temporale e uno spaziale. Poco importa che il narratore possa raccontare la propria storia in quello stesso posto in cui sta raccontando: in ogni caso l’identità è solo parziale, e io non sono lo stesso di allora, e nemmeno il luogo lo è.

Esistono strategie, anche nel racconto verbale, per ridurre la sensazione di distacco, oppure per aumentarla. Tutta la teoria dell’enunciazione (parte della semiotica) si occupa di queste strategie; e buona parte della qualità stilistica di un narratore sta nel saperle dosare.

Nel racconto per immagini, qualunque esso sia, il narratore non è necessariamente presente. Mentre non esistono parole senza che siano pronunciate, e la finzione narrativa ne deve tener conto, esistono tranquillamente immagini senza che siano prodotte (basta aprire gli occhi e guardarsi attorno), e la finzione narrativa ne può tener conto. Per questo tante storie a fumetti e film non hanno un narratore, e la storia si sgrana davanti ai nostri occhi. In termini tecnici, è scomparso un débrayage, ovvero un livello di distacco, quello attoriale; e con esso è scomparsa la mediazione della parola del narratore. Ora io vedo direttamente gli eventi.

Anche il débrayage temporale è indebolito: certo noi sappiamo che la vicenda si svolge in un altro tempo, però di fatto essa si sgrana davanti a me, al presente, senza la mediazione di un passato remoto narrativo a mantenere le distanze.

Finché l’immagine è disegnata, il disegno può permettersi di nascondere e formalizzare/idealizzare molto più di quanto non faccia la fotografia. Non c’è un narratore di mezzo, ma c’è comunque la mediazione di una mano grafica che decide cosa mostrare e come mostrarlo.

Questa mediazione non scompare del tutto nemmeno con la fotografia e col cinema, tuttavia indubbiamente si riduce. Fa parte del discorso stesso della macchina fotografica che quello che essa mostra abbia effettivamente avuto luogo in un qualche momento di fronte a lei, anche se si trattava di una messa in scena. Ma la messa in scena di un atto sessuale è a sua volta un atto sessuale; e la messa in scena di un atto di violenza è esso stesso un atto di violenza (magari senza le conseguenze tragiche o dolorose di uno effettivo). La fotografia documenta, e il livello di controllo sul modo di mostrare il dettaglio è per sua natura minore di quello del disegno.

Nel caso della fotografia in movimento accompagnata dall’audio, cioè il cinema, il distacco temporale si trova a essere ulteriormente diminuito, perché il tempo sta scorrendo realmente insieme con la pellicola, e la sensazione di identità tra il presente della fruizione e il presente della vicenda è fortissima.

Quando si arriva al videogioco cinematografico, i débrayage sono caduti tutti, interamente o quasi. Io, qui e ora, agisco direttamente per avere delle conseguenze. Si tratta di un io, un qui e un ora fittizi, tuttavia non meno diretti per questo. Il livello di coinvolgimento è facilmente totale, e questo in special modo se il videogioco ti impone anche i suoi tempi, tipicamente incalzanti, piuttosto che assumere i tuoi, basati magari sulla riflessione a proposito dei suoi enigmi. Tra il coinvolgimento di un videogioco incalzante e realistico e quello di una situazione effettivamente reale, la differenza è scarsissima, specie se la situazione reale è un po’ assurda, e ci sembra “di essere in un videogioco”.

In ogni caso, minori sono le mediazioni e maggiore è il coinvolgimento del fruitore; e maggiore è il coinvolgimento e minori sono le possibilità di intendere il testo come discorso, ovvero come qualcosa che qualcuno ha prodotto per dire qualcosa. Evidentemente, una volta stabiliti questi gradoni di minore o maggiore realismo, l’insieme delle strategie messe in atto dal testo (dall’autore) conta molto per aumentare o ridurre l’effetto. Così come ci possono essere romanzi (verbali) più o meno coinvolgenti (nel senso usato sin qui), ci possono essere anche fumetti, fotoromanzi, film o videogiochi che giochino più sulla produzione di un discorso oppure su quella di un coinvolgimento acritico. Parlo di coinvolgimento acritico perché si dà anche il caso di testi in cui un forte coinvolgimento non esclude il peso del discorso; tuttavia, man mano che si sale di gradone di realismo, diventa sempre più difficile stimolare la riflessione critica pur coinvolgendo fortemente il fruitore. Per un videogioco dal ritmo frenetico credo che sia proprio impossibile.

Suehiro Maruo, da "Il vampiro che ride, 2 - Paradiso", Coconino 2014
Suehiro Maruo, da “Il vampiro che ride, 2 – Paradiso”, Coconino 2014

Ecco, dunque: Maruo è sottile nel suo gioco di coinvolgimento, e il suo stile grafico si presta a coinvolgere il lettore e a turbarlo pesantemente, senza abbandonare mai del tutto un certo distacco – non foss’altro per il preziosismo delle sue linee di fronte all’orrore di quello che rappresentano. Ma non è solo questione di disegno: il montaggio e la storia stessa depongono a favore dell’ipotesi del distacco critico. Per dirla semplificando, magari anche troppo: Maruo ci fa entrare nell’orrore perché attraverso quel livello di coinvolgimento che comunque viviamo l’orrore ci appaia ancora più forte e crudo.

E’ una strategia pericolosa, che nel fumetto può reggere ancora. Può reggere anche nel cinema, ma il pericolo di un coinvolgimento totale rimane maggiore. Non so se reggerei, io, all’eventuale videogioco.

(sul tema della violenza nelle arti avevo scritto anche questo nel 2001)