Golem, l’universo e tutto il resto. Intervista a LRNZ

Al di là dei giudizi e i gusti di ognuno, Golem di Lorenzo Ceccotti in arte LRNZ è oggettivamente un libro di notevole interesse, quantomeno per l’ambizione del progetto, la profondità dei temi affrontati e la vasta gamma di tecniche grafiche utilizzate. Chi scrive non solo ha avuto il piacere di redigere la postfazione del libro, ma soprattutto ha avuto il privilegio di seguire l’evoluzione del progetto fin dalla sua genesi, quasi venti anni fa. Questa conversazione è stata dunque l’occasione per approfondire con l’autore gli aspetti più complessi e nascosti della sua opera.

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lrnz1Golem è finalmente uscito, dopo una rocambolesca gestazione durata quasi vent’anni. Mi ricordo che la prima volta che mi parlasti dell’idea eravamo credo in Primo Liceo. Vuoi raccontarci un po’ le varie fasi dell’evoluzione del progetto?

Si, ti chiamai di notte, tornando da casa di un nostro amico comune, dicendoti che avevo avuto l’idea di realizzare un’opera di ampio respiro che avesse come tema l’utilizzo corretto della tecnologia. Ed anche sull’utilizzo doloso di essa da parte dell’industria, che tradisce su base quasi regolare le oneste intenzioni dell’ingegno. Quella fu la prima ispirazione, non per realizzare un’opera ambientalista ma per trattare della cultura dell’uomo. Il tema che mi premeva affrontare, all’inizio, era lo sviluppo del Potere attorno ad una serie di menzogne, mascherate per beni di consumo utili all’umanità. E di come l’onestà e la purezza dei sogni dei bambini siano la chiave vera per l’innovazione.

Venendo da una scuola di industrial design, ho imparato ad acquistare con molta attenzione. Sono molto severo nei confronti dei prodotti industriali, proprio perché sono consapevole di cosa c’è dietro. Ho imparato a essere molto diffidente verso l’industria e il marketing, specie dopo averci lavorato anni, anche a livelli piuttosto alti. Uno dei miei chiodi fissi è un’idea che ho sempre ritenuto affascinante. Mi riferisco a uno stereotipo dominante in qualunque film su uno scienziato o su un inventore: viene sempre enfatizzato l’aspetto bambino, infantile, grazie al quale egli insegue il suo sogno contro il buonsenso comune. Dunque, nel sogno è presente l’intuizione, la scoperta che cambierà la storia dell’umanità, per intenderci.

Ora, dal punto di vista dello stereotipo questa cosa mi disgusta profondamente. Però, se ci riflettiamo, l’abduzione (fondamentalmente un’intuizione da verificare empiricamente) che ispira le grandi scoperte scientifiche viene stimolata solo in individui che sono liberi culturalmente, affrancati dai condizionamenti. Spesso tutt’altro che infantili, ma liberi si! I bambini, almeno nella loro condizione ideale, vivono in quello stato. Sono creature meravigliose perché hanno un rapporto ancora libero con la loro immaginazione, sono nella condizione di credere a quello che sognano.

Per anticipare un tema di cui voglio trattare in seguito, possiamo dire che l’innocenza dei bambini gli consente un un contatto puro con gli archetipi. 

Appunto. Quindi, l’idea di unire il concetto dell’uso corretto della tecnologia e dell’innovazione con il sogno di un bambino è divenuta una sorta di ossessione. Qui arriviamo alla fase Rodion. Enrico D’Elia, nel 1999 credo, fece la copertina per il disco di un musicista romano, Edoardo Cianfanelli, per un suo progetto di musica elettronica che tuttora si chiama, appunto, Rodion. Quando vidi la copertina di Enrico rimasi colpito perché rappresentava un bambino che emetteva onde psichiche dal cervello. Chiesi, dunque, quale fosse il concept dietro al disco. La coincidenza fu impressionante: suggestionato dal nome del disco, Enrico voleva narrare la storia di un robot, abbandonato, che di notte dava i suoi ricordi a un bambino che dorme. Si è innescato un processo irreversibile.

Visto che stiamo parlando in termini junghiani direi una sincronicità!

Esatto. Era chiaro che dietro a quella suggestione fortissima si annidava la soluzione per la metafora che cercavo. Diventò il racconto di un bambino che controllava un robot, o meglio una creatura supertecnologica non meglio identificata, e che lo facesse solo in sogno. Ovviamente, questo era in linea col mio immenso amore per i super-robottoni giapponesi. Trider G7, in particolare, è palesemente omaggiato: Trider è non solo un’eredità paterna, pilotato da un bambino a capo in di una corporazione, è proprio la sua rappresentazione ad essere interessante. Trider G7 viene rappresentato come una testa gigante in un buco. Esce da un parco giochi, ogni volta che viene evocato. Non è dissimile da ciò che vediamo in Golem.

D’altro canto, mi aveva molto colpito l’intervista ad Otomo, nell’edizione limitata di Akira per la Pioneer, in cui lui rivelava un aspetto sconvolgente: nessuno si era accorto, almeno in Occidente, che Akira è un esplicito spin-off di un classico dell’animazione giapponese, che si chiama SuperRobot 28, in cui c’è un bambino che guida un robot gigante con un telecomando. Si tratta del primo caso in cui c’è la rinascita industriale giapponese, la ricostruzione del dopobomba, messa in mano ad un bambino. Akira è una trasposizione evidente: entrambi i protagonisti si chiamano Shotaro Kaneda, Akira stesso ha nella mano il numero 28, il professore che utilizza Super Robot 28 come arma speciale dell’esercito ha lo stesso nome del colonnello di Akira (Tetsuo prende il nome di suo figlio) e così via. Otomo rifletteva sul fatto che se la serie originale del 1963 descriveva l’arma di un futuro avveneristico come un prodigio elettromeccanico radiocomandato, nel suo caso il futuro erano armi genetiche/biochimiche e le loro applicazioni psichiche. Una proiezione del futuro sviluppata in proporzione all’originale, in un certo senso. Golem, in maniera senz’altro più modesta sia a livello grafico che di intenzioni, l’ho progettato con un approccio simile.

A riguardo, già in una precedente intervista avemmo occasione di chiarire l’equivoco giapponese che sempre ti riguarda. Forse, in questo caso, è ancora più opportuno sottolinearlo. L’evidente utilizzo di uno stile manga è però al servizio di contenuti, se vogliamo di uno sguardo culturale, che sono profondamente occidentali. So che lo hai spiegato molte volte, ma vuoi ribadire come la pensi?

Il punto è che per me il manga non è questione di contenuti, ma di tecnica. In realtà, se uno andasse ad analizzare graficamente Golem in maniera approfondita scoprirebbe che non ha neanche la sfacciataggine, stilisticamente necessaria, di Astrogamma. Se cerchi le linee cinetiche, delle soggettive dinamica (tratto distintivo del manga) le trovi tre volte, l’uso massiccio delle onomatopee non è presente. Se mi dovevo chiedere come risolvere un problema grafico la domanda era “come lo avrebbe disegnato Winsor McCay?”. Mi spiego? Ciò che mi interessava era riportare la linea chiara dentro di me, lì da dove era venuta, il più possibile incontaminata. Per dire: il primo disegnatore immenso in linea chiara è comunque McCay appunto. Nato nel 1869, non so riesco a spiegarmi. A me interessa l’universalità di quel segno. Un’universalità che fonde, in maniera molto efficiente, l’archetipo e il segno occidentale. Che può capire chiunque. Nel caso del manga. ciò che mi affascina è il rapporto col disegno completamente, drasticamente, diametralmente opposto a quello occidentale.

Cioè la priorità del codice rispetto al culto dell’autorialità?

Esatto, c’è un codice condiviso tra più autori.  L’autore eccellente è quello in grado di introdurre un nuovo segno all’interno di questo codice condiviso, che possa finire nell’immaginario collettivo.

Una sorta di neologismo grafico. Torniamo sempre a Baudelaire che diceva: “Creare luogo comune è genio”.

Esattamente. Spesso parlando dello stile Tezuka si dice: “Ah, gli occhi sono quelli di Bambi…ah, il corpo è di Betty Boop, o di Braccio di Ferro….ah, gli sfondi vengono dalle illustrazioni degli anni’50…ah, molti elementi provengono da Disney…”. Bene, è così. Stiamo parlando del primo grande autore di fumetto giapponese e sarà così per tutti i grandi autori di fumetto giapponese. Ma per un semplice motivo: i giapponesi sono alla continua ricerca di un sistema (che per loro è infinitamente perfettibile ma deve costantemente tendere alla perfezione) per esprimere le idee con segni che non richiedano spiegazioni.

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golem lrnz

Come fa una mente occidentale a distinguere, in questo discorso, il plagio dalla citazione, lo stereotipo dalla creazione originale?

In realtà, è facile. Come in poesia tutti i poeti usano lo stesso dizionario. Le parole rappresentano ciò che per i disegnatori rappresentano i segni grafici condivisi. L’ordine in cui questi elementi vengono disposti fa la differenza fra il citato Baudelaire e Fabio Volo.

A livello poetico-musicale, un approccio simile è quello di un artista caro ad entrambi, cioè Carmelo Bene, se tu ascolti quando recita le poesie di Leopardi, Majakovskij o Laforgue, quando interpreta alcune parole (ad esempio “infinito” o “nuvola bianca”) le intona sempre nello stesso modo. Come se avesse trovato la dizione, quasi la nota esatta per esprimere quel concetto o quel sentimento.

Non a caso era un genio. Da questo principio ne deriva che dal momento che le idee grafiche sono dei moduli rigidi, una volta che le sai dominare con massima tecnica, sei libero: poiché hai un dizionario di moduli grafici da poter combinare all’infinito.

Un po’ come quando ai videogiochi uno si impara a fare tutte le “mosse” di un personaggio! 

(ride) Esempio calzante. A quel punto, infatti, si può giocare con quegli elementi come giocheresti con i Lego. La differenza è che noi occidentali abbiamo una visione molto più de-strutturata, in cui si tende all’unico, all’irripetibile unicum. Si cercano nomi propri, non nomi comuni. Ciò è più che mai vero in pittura. Prendiamo La Vergine delle Rocce di Leonardo o  La Vocazione di S.Matteo di Caravaggio: sono capolavori che nella loro unicità trovano la loro forza. Se, come già dicemmo in passato, invece vai a vedere il libro degli appunti di Hokusai , troverai che lui usa una sorta di rudimentale clipboard, alla stregua di un software vettoriale, con cui raccoglie degli elementi che può ripetere ed applicare in continuazione per ottenere delle immagini che abbiano la massima efficienza e riconoscibilità da parte di tutti, Oltre tutto, i manga hanno una caratteristica da non sottovalutare: sono lunghissimi. E vanno letti ad alta velocità. Quindi il tipo di disegno scelto non può, in un certo senso, mettere i bastoni fra le ruote alla lettura. Questa in Golem è stata un’esigenza fortissima. Altro aspetto: i manga sono in bianco e nero. Quelli che puoi trovare a colori sono sperimentali, non hanno il respiro narrativo dei manga classici. Hanno un alto tasso grafico, sembrano una sorta di ricorso storico delle riviste francesi a la Metal Hurlant.

In tutto questo, come si configura l’uso del colore nel libro?

Ti racconto un episodio interessante. Parlavo con Gipi e gli ho detto che per me lui ha un tipo di disegno che è la cosa più vicina a quella che per me è il fumetto  preistorico, cioè una grafìa che diventa disegno e un disegno che diventa grafìa. Disegna come scrive! Ha trovato quel bilanciamento perfetto per cui come disegna le lettere così scrive i volti dei personaggi, quindi il testo e i disegni dal punto di vista tecnico sono allo stesso livello.

Stavo affrontando l’opzione di inserire il colore  all’interno di Golem, quindi riflettendo su Unastoria gli ho chiesto: “Con una tecnica così perfetta, a che ti serve il colore? Non ti allontana dall’immediatezza del tuo stile?”. Lui mi ha risposto dicendomi che era una domanda giusta, poiché in teoria questo equilibrio stilistico dovrebbe escludere, rendere superfluo il colore. In pratica, però, mi ha risposto: “Per me il colore in un fumetto è come la colonna sonora in un film”. Un aspetto che non sta nella regia, nell’immagine ma che agisce su un piano più emotivo, inconscio, limbico. E fornisce una potenza di segnale che altrimenti non puoi avere. Questa affermazione, oltre a spaccarmi al cuore per la sua bellezza, mi ha rimandato a casa con molte riflessioni. Era evidente che io stessi ragionando su un tipo di utilizzo diverso del colore. L’utilizzo del colore unito a questa ricerca degli archetipi grafici di cui parlavamo prima, mi ha portato alla seguente riflessione: se i manga classici non utilizzano il colore, vuol dire che esso potenzialmente è nemico di una narrazione per archetipi. Dunque, l’unica soluzione era…

…un utilizzo archetipico del colore.

Precisamente. Ho quindi preso ad esempio un autore che non ha potuto fare a meno del colore nelle sue opere, ma che ha uno sguardo profondamente archetipico, cioè Miyazaki. Quando ha realizzato Conan non è partito con l’idea di fare un fumetto, con i limiti di riproducibilità meccanica che il giappone imponeva all’epoca, ma con l’idea di fare una serie tv. Lo studio di Miyazaki mi stava molto contaminando anche dal punto di vista registico. Devo infatti molto a Werther Dell’Edera che si è letto le prime 50 pagine e mi ha avvertito:”Attento, che stai raccontando come in un film, non come in un fumetto!”. Spero di aver corretto l tiro in tempo. Ce lo dirà Werther, che considerò uno tra i più grandi registi che abbiamo mai avuto a fumetti: dove mette la “macchina da presa” lui non la sa mettere nessuno, a mio giudizio. Per un attimo sono dunque rimasto smarrito, diviso fra questi tre approcci diversi: l’animazione che aveva risolto in un determinato modo il disegno per una resa a colori senza compromessi, il manga che raccontava in bianco e nero e l’approccio occidentale alla ricerca dell’unicità. Golem, in qualche modo, cerca di prendere il meglio che potevo da questi tre mondi.

Ora, non lo so se questo tentativo è riuscito o no, e senza falsa modestia credo di no. Quello che posso dire che l’obiettivo unico mio è sempre stato, dall’inizio alla fine, raggiungere la capacità di imprimere il massimo numero di informazioni possibile nel minor tempo possibile, ma che permettesse una rilettura a più livelli. E’ fisiologico che la prima lettura sia complessa, perché è un libro traboccante di informazioni. Ma proprio per questo ho cercato un disegno leggerissimo che non fosse di ulteriore intralcio per il lettore e, a conti fatti, anche per me autore.

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Quindi, sintetizzando, potremmo dire che lo stile manga ti ha consentito di raccontare in maniera rapida e fruibile una racconto “occidentale” molto complesso. Terminando il discorso sul colore, sulla base di alcuni spunti che mi hai rivelato in passato, esagero a tirare in ballo l’alchimia? 

Il colore ha sempre un codice preciso nell’opera. Su i colori di Steno e Rosabella ci sarebbe da parlare un bel po’ ad esempio.

C’è comunque una grande varietà grafica, che mi sembra scandisca le differenti fasi del racconto, è corretto?

Si, in Golem ho messo in campo esplicitamente cinque registri grafici diversi, ognuno con un preciso significato. Il primo è il racconto del presente, che vuole illustrare la modernità, caratterizzato da colori squillanti, molto brillanti, carico di loghi ed elementi grafici, più vicino al cartone animato, per intenderci, che tende spontaneamente a quella koinè fumettistica che si propaga inarrestabile grazie alla rete; la visione nel cervello di Steno, in cui la linea chiara sparisce e c’è un approccio pittorico volto a ottenere degli effetti di grande intensità, assolutamente disgiunta dal resto, fatta di unici, senza vignette; poi ci sono i flashback, con una tecnica più vicina al fumetto antico, dunque linea chiara e tinte piatte, dalla sobrietà quasi esasperata; poi ci sono i “sogni ad occhi aperti” di Steno, che sono una sorta di mescolanza dei primi due stili, con un risultato pittorico e grafico insieme; infine, ci sono le visioni degli Shorai, ciò che loro vedono su gli schermi, una rappresentazione vettoriale della realtà con un layer di informazioni sovrapposte.

So che non vuoi rivelare i colti giochi etimologici che si celano dietro ai nomi dei personaggi, ma almeno in questo caso ti chiederei un’ eccezione. Puoi spiegarci perché hai scelto questo nome per i “ribelli”?

Si, anche perché credo sia divertente. In giapponese, “mirai”significa: “il futuro che non conoscerai”. Mirai shōnen Konan infatti è il titolo originale del capolavoro di Miyazaki tradotto Conan il ragazzo del futuro… ma è un futuro che non conoscerai, che non ti spetta, perché sarai già morto. Shorai invece è il futuro che puoi conoscere.

Affrontiamo la copertina. So benissimo, essendo un autore che abbiamo scoperto insieme, che è un omaggio a Tarkovskij. Credo abbia profondamente influenzato il tuo sguardo e la tua visione dell’arte, concordi?

Tarkovskij è stato un autore che mi ha fatto porre degli interrogativi profondissimi su che cos’è una sceneggiatura di fumetti. Ti spiego perché: se vediamo l’inizio di Andrej Rublev, la famosa scena in cui il cavallo si rialza…

…accostata all’uomo che tenta il volo su una rudimentale mongolfiera e precipita rovinosamente al suolo…

Esattamente: quell’effetto non può essere trasferito in una sceneggiatura. Si dice che in una buona sceneggiatura deve esserci scritto tutto ciò che verrà mostrato, non ci deve essere nulla di lasciato all’interpretazione. Deve raccontare le informazioni necessarie in modo che qualsiasi regista la prenda in mano possa essere in grado di realizzare la scena, d’accordo? La sceneggiatura di un fumetto non fa eccezione, non deve lasciare nulla al caso. Tarkovskij mi ha messo davanti alla crisi di questo schema. Ho provato a scrivere la sceneggiatura di Andrej Rublev, e mi sono accorto che la grande maggioranza delle inquadrature di quel capolavoro non possono essere scritte secondo le regole della sceneggiatura convenzionale. Non funzionerebbero. In quanto tali, non arriverebbero mai da uno sceneggiatore di cinema, ciò rende probabilmente unico il contributo di Tarkovskij al cinema. Quando ti siedi e vedi un suo film ti stai confrontando con qualcuno le cui immagini non sono passate per la scrittura tradizionale. O meglio ci sono passate, ma sono un appunto per una prefigurazione che era completamente visiva prima ancora di scrivere. Questo segna una differenza abissale col cinema alla ricerca di un metodo industriale replicabile. A me interessa il cinema in cerca di artisti onesti e di capolavori (bella forza, dirai!).

Tornando alla copertina, l’inquadratura finale, indimenticabile de L’Infanzia di Ivan, che è stata la mia ispirazione come tu stesso hai colto, se tu la scrivi….non vale nulla. Il valore è nella forma e nella scelta tecnica che porta a quella forma. Perché vuol dire che non solo l’immagine l’hai catturata dentro di te ma hai anche la grande dote di portarla fuori da te esattamente come te l’eri prefigurata. Quello è il miracolo di Tarkovskij. Ciò che mi interessava è: un autore di fumetti completo, che scrive e disegna le sue storie, può accedere a questo patrimonio. La possibilità di visualizzare la fantasia senza passare per i limiti della scrittura. La scrittura fornisce un vantaggio straordinario sull’ astrazione. Ma sulle immagini no. Sulle immagini diventa una gabbia. Tarkovskij mi ha fatto vedere non solo come è uscito dalla gabbia … ma anche come non entrarci per nulla. La scrittura doveva diventare solo una punteggiatura per le immagini. La scrittura per me è stata fondamentale come scheletro concettuale della storia, non come definzione delle immagini. Se volessimo prendere un esempio estremo dalla storia del fumetto, penserei a Pompeo di Andrea Pazienza. Come fai a scriverne la sceneggiatura? La libertà dalla griglia, dello stile…come fai a renderla in sceneggiatura?

Altro esempio, quando Jodorowsky racconta come creava con Moebius, usa l’espressione “era come andare a girare”. Jodorowsky parlava e Moebius disegnava. E la sera tornavano col “girato”: le riprese fatte nella testa di Moebius. Questo è il segno dei grandi. Questo è il motivo per cui non credo nelle catene di montaggio. Perché ciò dimostra come lo schema attuale, industriale della catena di montaggio sceneggiatore/ fumettista, sia enormemente limitato. Questo approccio, può funzionare solo per un determinato tipo di prodotto. Altra cosa, per intenderci, è un rapporto simbiotico tra sceneggiatore e scrittore, come quello che si è instaurato tra Tamburini e Liberatore. Io credo nell’opera d’arte, non nella catena di montaggio. In Golem ho provato a prendere il meglio dei due approcci. Ci sono parti sceneggiate, altre che ho disegnato direttamente per visualizzarle.

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Al di là degli aspetti grafici e stilistici, secondo me uno degli aspetti più importanti del libro è nella complessa struttura simbolica. Iniziamo dall’aspetto più immediato e facile. Perché Golem?

Di Golem ce ne sono addirittura 3 nel libro. E sono tutti e tre riflessioni su cosa sia, possa o debba essere lo stato. Non esiste metafora più calzante del rapporto fra uomo e stato della leggenda del Golem, a mio avviso. Era li, pronta per essere declinata.

Andando più in profondità, c’è una notevole densità di richiami, allusioni, messaggi oserei dire occulti, che ad un occhio non avvezzo alla conoscenza esoterica potrebbero non apparire evidenti. Alcuni li avevo colti, altri, più nascosti, me li hai rivelati tu. Il gioco simbolico è praticamente la mappa del racconto. Cosa vuoi rivelare a riguardo?

Tutto in Golem, anche le piante, la palette cromatica di ciascun personaggio, i marchi delle corporazioni, i rimandi interni, perfino la disposizione delle tavole…tutto ha un rapporto simbolico. Anche apparenti ripetizioni, omissioni e contraddizioni non sono casuali (ok, qualche errore qua e la c’è eh!), ma assolutamente volute. C’è una quantità di informazioni mostruosa nel libro. Ma non sarò certo io a spiegarle, no? Ti pare?

Certo, pensa se Lindelof avesse spiegato il simbolismo del 108 o della dea Taweret quanta adrenalina sarebbe stata bruciata invano. Un problema è che Golem ha la densità di citazioni simboliche che Lost dispiega in 6 stagioni … però in un volume solo di 270 pagine.  Come accennavi, non credi ci sia un eccesso di densità ad una prima lettura?

Golem è un racconto che nasce su una intenzione originale di centinaia e centinaia di pagine in più. Per varie circostanze, volendo e dovendo confrontarmi in fase di  stesura finale con un formato notevolmente ridotto, ho dovuto distribuire le informazioni invece che su un normale asse x/y, come avviene normalmente nei fumetti, su  un asse di profondità. Mi spiego: ho stratificato le informazioni, invece di metterle una accanto all’altra. Dunque, si è creato questo asse ulteriore di diversi livelli di lettura, sovrapposti, dei quali quelli simbolico è sicuramente il più collaudato culturalmente.

Quindi intendi che paradossalmente la complessità simbolica rende più comprensibile la narrazione? Questo è anche il motivo per cui ci sono degli evidenti riferimenti archetipici, dei punti di riferimento universali?

Si.

Golem è un’opera allegorica. E per me un’allegoria felicemente realizzata non nasconde nulla. Tutto, anche un gesto, che può apparire banale, opera sottotraccia quando sei nell’allegoria. La complessità non deve rendere più complicata la lettura, il livello zero della narrazione non deve mai essere tradito da quelli più profondi, perchè la superficiè è proprio l’interfaccia per la profondità. E la profondità, di ritorno, ci riporta a una più comprensibile e semplice della superficie.

Del resto simbolo deriva da symbállō ‘metto insieme”. Alla base delle allegorie medievali c’era l’assunto: “Per visibilia ad invisibilia”, attraverso simboli visibili si esprimeva ciò che è l’invisibile, eterno.

Appunto.

Anche se non è riferito direttamente alla tradizione cabalistica, come il titolo del libro potrebbe far pensare, dietro nomi dei personaggi c’è un complesso gioco  tra etimologia e gematria (NdC studio del valore numerico delle parole). Anche in questo caso in parte l’ho intuito, in parte me lo hai rivelato.

I livelli sono molteplici e sono tutte piccole conferme delle mie intenzioni. Mi hanno aiutato ad avere le idee chiare fino alla fine, infatti. Tutto ciò che è in Golem archetipico o simbolico, diciamo su un piano non direttamente esplicito, vuole coincidere esattamente con quello che è il suo significato letterale, esplicito. È anche vero che il piano letterale è senza dubbio un involucro di una sostanza più complessa, certo. Gli archetipi sono universali perché in realtà non sono un prodotto culturale ma sono collegati a una dimensione umana molto più radicale e profonda. Lo stereotipo è già sul medium, è un feedback culturale. L’archetipo è nel profondo dell’uomo, di qualsiasi era o nazionalità esso sia.

Quindi agiscono anche a livello inconscio, per tornare a Jung…

Si, c’è anche una filigrana nascosta, giocosa, che rappresenta una sorta di testamento personale, che svela le mie intenzioni riguardo l’opera. Ovviamente non la svelerò mai.

Appunto in Golem, oltre a evidentissime citazioni, rappresenti degli archetipi. Spesso si fa una disdicevole confusione, si citano o si copiano opere altrui e poi ci si riempie la bocca con la parola “archetipo” . Vogliamo finalmente distinguere  nettamente tra archetipi (da Archè, “principio”, “origine”) e stereotipi (da Stereo, “fisso, rigido”)?

Si, ma anche tra archetipi e simboli.

Gli archetipi, come ad esempio possono essere rappresentati nelle maschere del teatro, o nei segni zodiacali, sono dei concetti  preistorici, universali. Le parti indivisibili di una storia. In Golem ho dovuto esprimere una quantità di concetti complessi notevole. Dunque, ho adottato un sistema cardinale di riferimenti molto esplicito, riconoscibile, che ogni volta che mi sedevo a disegnare mi illuminava la strada: mi ha consentito di non perdere l’orientamento nella gestione di una storia molto articolata (per i miei standard, per lo meno), oltre tutto di natura fantascientifica, dunque soggetta continuamente alla tentazione di spaziare fuori programma con la fantasia. Gli archetipi sono i nodi di una rete che mi ha protetto e mi ha consentito di realizzare questo libro. Un libro che ho terminato comunque per grazia ricevuta, eh, sia chiaro. Devo ringraziare innanzitutto Daniele Capuano e Alessandro Caroni che si sono prestati fin dall’inizio a fornire una revisione lunghissima della prima versione di Golem (quella uscita su Pic-Nic, per intenderci). Soprattutto, se dovessi scegliere una persona da ringraziare per Golem sarebbe, senza dubbio alcuno, Emanuele Sabetta. Emanuele mi ha accompagnato lungo tutta la costruzione della struttura simbolica di Golem. Non solo mi ha aiutato a scartare alcune idee, ma mi ha proprio nel pratico fornito delle soluzioni determinanti che sono poi rimaste nella stesura definitiva. Credo che almeno la metà delle decisioni prese sulla definizione dei personaggi sia farina del suo sacco. E’ stato sempre lui a portarmi pazientemente lontano da un modo di concepire la storia che era fatta di soli stereotipi. I disegnatori non sono dissimili dai bambini, vogliono sempre qualcosa di qualcun’altro, per omologarsi, essere accettati. Abituarsi a ragionare per conto proprio significa magari rischiare una pessima figura, ma significa battere la propria strada, la migliore possibile per coronare le nostre pulsioni primigenie, archetipiche, appunto…

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Appunto, torniamo alla distinzione…

Sfruttare uno stereotipo (così anche le citazioni, spesso usate un po’ a sproposito), dalla moda al luogo comune, significa prendere un elaborato che ha già un suo livello di complessità applicata. Sostanzialmente stai prendendo un semilavorato culturale, mentale, artistico, che ha già il suo stile, ha già una serie di caratteristiche definite e una sua finalità. E’ già morto, insomma e altera per definizione la mira verso il tuo obiettivo, perchè si porta dietro l’obiettivo di qualcun’altro. L’archetipo, invece si situa molto prima della cultura, ha una radice primordiale. Da un archetipo possono derivare infiniti stereotipi. Da uno stereotipo può solo derivare uno stereotipo peggiore.

Sembra una distinzione capziosa, invece è fondamentale. Spesso chi copia opere altrui si giustifica con la scusa del “postmoderno”. In realtà, i più grandi autori postmoderni del Novecento (T.S. Eliot o Joyce in letteratura, Alan Moore o Moebius nel fumetto) oltre alle citazioni e ai “furti”, rappresentano archetipi immutabili, e creano, sull’humus della cultura precedente, nuove forme. Per questo risultano originali.

Accedere agli archetipi vuol dire in realtà ripartire ogni volta da zero. Anzi, dagli atomi.  È più facile, oltretutto. Basta resistere alla tentazione di sembrare subito belli e simpatici.

Certo, anche se le forme sono diverse, l’archetipo è eternamente vivo. Può essere declinato in varie forme, ma la sostanza è immutabile. Ad esempio, Hanuman nella cultura indù, Hermes/ Mercurio in quella greco-latina, l’Arcangelo Gabriele in quella cristiana e il Bagatto dei Tarocchi sono forme diverse dello stesso principio.

Esattamente.

Accennavi alla distinzione anche tra archetipi e simboli?

Nel simbolo, invece, tu stai già creando una struttura fra concetti, è una forma di retorica ben più avanzata, è grossolanamente una metafora visiva.

Hai utilizzato simboli preesistenti o ne hai creati di nuovi?

Siccome Golem tratta tantissimo della cultura dell’uomo, applicata alla tecnologia, alla natura, alla politica etc. i simboli esistenti a cui attingere erano migliaia. Spesso nel mio libro ne sono il ribaltamento, la distorsione e la parodia. Diciamo che nascono da un’analisi approfondita di simboli universali, rivoltati in chiave allegorica o  addirittura satirica.

Altro punto da chiarire. Golem viene spesso presentato come una satira sociale. Ma se lo leggo, avendo una formazione letteraria, penso più ad Apuleio che a Petronio o a Marziale. Rimanendo in ambito fumettistico, mi ha fatto pensare più a certe cose di Alan Moore che a Mac Nelly. L’aspetto satirico secondo me è superficiale rispetto al significato iniziatico. O sbaglio?

L’ironia parte dall’assunto di esprimere un concetto col suo esatto contrario. Se io mostro un marchio solare e naturale di una lobby che produce cibo sintetico e artificiale è il più facile dei rovesciamenti satirici, però parte purtroppo dall’osservazione della realtà. Ciò che è impressionante è che molte persone che hanno letto il libro sono rimaste colpite dalla rappresentazione delle corporazioni, delle multinazionali che di fatto si dividono il mercato e ricattano i governi, gestendo fondamentalmente la politica internazionale. Mi hanno scritto per complimentarsi, come se la mia fosse una stilizzazione del reale molto inquietante. La tragedia è che, a mio giudizio, è già così! C’è un filtro comunicativo tra la produzione industriale e l’utente finale che è regolato ad arte. Basta andare su Wikipedia e vedere quanti e quali sono i i brand che stanno dentro ad Unilever o per chi produce Foxconn, per citarne due a caso. Zibò e Yoko non potrebbero fare di meglio. E’ la civiltà creata dall’uomo ad essere ironica. Ad essere una bizzarra, lugubre, sconcia parodia della vita.

Chiaramente, hai dovuto comprimere la grande ricchezza di temi nello spazio ridotto della versione definitiva. Senti di non aver espresso a pieno le potenzialità dell’opera? Questo apre a un Golem 2?

No. Almeno, non è un argomento che si può trattare adesso, visto che il libro ancora deve ancora arrivare in libreria! Non dimentichiamoci, inoltre, che Golem ha un impianto tale da lasciar proseguire l’approfondimento attraverso una serie di contenuti speciali. Posso solo dire che ci sarà del materiale in più …  forse proprio dedicato ad una speciale corporazione.

Affrontiamo ora il presente. Fumettologica ha inserito il libro, addirittura prima dell’uscita, fra i 10 graphic novel più importanti del 2014. Qual è stata la tua reazione?

Mi sono praticamente commosso. In realtà, non ci credo ancora, e continuo a sospettare che sia uno scherzo. Un pesce d’Aprile fatto a Dicembre.

Questa scelta, secondo me condivisibile avendo letto il libro, ha destato però molte perplessità e obiezioni, non essendo il libro ancora uscito. Cosa vuoi rispondere?

Il mio motto è: tacere e fare. Anzi, da quando ho smesso di “parlare”(mi sono preso un break per questa intervista, si vede?) e mi sono dedicato a “fare” la mia vita è migliorata, anche proprio in termini di qualità della mia produzione. Non ultimo, per realizzare Golem ho talmente superato qualsiasi ragionevole buon senso  dell’impegno che vi ho profuso, per me era divenuta letteralmente una chimera da decapitare nella mia storia di autore, che il semplice fatto di averlo finito mi pone in una condizione mentale che non avevo mai vissuto prima: sono contento. Sono talmente soddisfatto, e mi sento talmente onesto con me stesso, che ho serenamente preso in considerazione l’ipotesi che il libro potesse fare schifo a tutti. Paradossalmente, è irrilevante se domani vincesse premi ambiti o venisse stroncato. Sarebbero eventi che andrebbero a toccare solo la mia sfera superficiale. Io comunque quello che dovevo fare l’ho fatto. Poi, sono consapevole dei limiti. Puoi chiedere a tutte le persone che l’hanno letto in anteprima (anzi, lo sai perché eri fra quelle): ho chiesto a tutti di dirmi al limite quali fossero secondo loro i difetti del libro, dei complimenti me ne infischio. Non mi servono. Mai come in questo caso ho fatto mio l’insegnamento di Scott McCloud: “learn from everybody, follow nobody, work like hell”.

Concludiamo con una nota lieta. Quando ho intervistato Tuono Pettinato dopo la vittoria del Gran Guinigi, lui aveva espresso, tra l’altro, il desiderio di leggere al più presto Golem per la grande stima che nutre nei tuoi confronti. Ora che state a parti invertite, vuoi commentare la sua vittoria come autore completo?

Ci tengo a dire questa cosa: per la mia indole, non mento mai. Ho scritto pubblicamente sui social, non appena giunto in possesso di una copia di Corpicino, che per quello che mi riguarda Tuono è l’unico vero fumettista che ci sia in Italia. Lo sostengo da sempre. Ma Corpicino, in particolare, è senza dubbio una delle cose più belle che ho letto mai. Includendo i grandi e gli dei sumeri, eh. Ovviamente, per i miei gusti personalissimi. Ma è un libro in cui il medium fumetto è utilizzato come si deve: è una gioia per gli occhi, e una gioia per la mente. Tuono, come i fuoriclasse, fa sembrare tutto semplicissimo. Mentre, invece, dal punto di vista meramente tecnico, è un libro di complessità rara. Non ho dubbi che dovesse meritare il Gran Guinigi. Ma probabilmente, per ciò che mi riguarda, lo avrebbe dovuto vincere negli ultimi anni sempre lui.