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FocusDalla littérature en estampes al visual language: nuove direzioni della fumettologia

Dalla littérature en estampes al visual language: nuove direzioni della fumettologia

Si possono scrivere storie fatte di capitoli, righe, parole: questa è la letteratura propriamente detta. Si possono scrivere delle storie fatte di successioni di scene rappresentate graficamente: questa è la letteratura per immagini.

È il 1845, siamo a Ginevra e con queste parole – si tratta dell’incipit del suo Essai de Physiognomonie – Rodolphe Töpffer traccia una vera e propria linea di demarcazione, un prima e un dopo della storia del fumetto. Non solo (e non tanto) nelle vesti di vero e proprio padre del fumetto moderno, ma soprattutto perché primo grande teorizzatore di una nuova forma d’arte, una letteratura per immagini, secondo la sua stessa definizione.

Già nel 1827 il professore ginevrino aveva realizzato quella che con la stampa e la pubblicazione del 1833 sarebbe stata considerata da molti la prima vera opera a fumetti, l’Histoire de Mr. Jabot. Eppure ciò che maggiormente ci interessa è proprio l’essai del 1845, nel quale già con il primo capitolo si intende delineare una sorta di definizione – piuttosto semplice ma anche innegabilmente caustica – del  proto-fumetto. Ciò che conta, infatti, non è tanto stabilire l’esatta origine storica o geografica della forma espressiva in questione – primato per anni rivendicato dagli statunitensi con il loro Yellow Kid, considerato fino a non troppo tempo fa il primo vero personaggio a fumetti della storia e ormai ufficialmente spodestato proprio dalle opere di Töpffer – quanto piuttosto individuare il momento in cui ne è sorta la piena consapevolezza teorica e formale, una coscienza effettiva delle caratteristiche e delle potenzialità del mezzo. Il momento, insomma, in cui l’abbinare ad un’immagine un testo non descrittivo, anzi, presumibilmente portatore di “informazioni altre” e dotato, al pari dell’immagine stessa, di significato proprio ed imprescindibile dall’abbinamento delle due, comincia ad essere percepito non come la semplice somma delle due parti, bensì come una sintesi di esse.

È qui, infatti, che si definisce la linea di demarcazione tra, da un lato, tutte quelle forme storicamente note, alcune anche particolarmente antiche, in cui un testo veniva aggiunto all’interno o al di sotto di un’immagine a scopi educativi o divulgativi – si vedano, a titolo esemplificativo, la Biblia Pauperum, il celebre affresco del Miracolo di San Clemente o le incisioni medievali dotate di filatterio, ossia la proto-forma di quello che poi diverrà il futuro balloon – e dall’altro il vero e proprio fumetto in quanto tale.

Ma torniamo a Töpffer. Spinto dalla necessità di chiarire gli strumenti del proprio lavoro, egli si appoggia naturalmente al campo che ritiene più affine: non le arti figurative, diversamente da quanto si sarebbe potuto ritenere, bensì la letteratura, evidentemente più vicina, per lo meno negli intenti dell’autore, alla littérature en estampes di cui fu assoluto iniziatore. Si tratta, ci dice Töpffer, di un modo “altro” di fare letteratura, non un genere letterario, bensì un particolare approccio alla letteratura stessa, approccio dotato peraltro di vantaggi specifici quali, innanzitutto, la concisione e la possibilità di rifarsi ad una più icastica ricchezza di dettagli. La questione non è da sottovalutare e ci dà modo, anzi, di riflettere sul motivo per cui gli studi sul medium fumetto, fin dalle loro prime timide apparizioni, si siano quasi sempre affidati agli strumenti della critica e della speculazione letteraria – o comunque di ambito umanistico – piuttosto che a quelli della critica delle arti figurative.

Ma passiamo dalla Svizzera all’Italia, e dal 1845 ad oggi. Sebbene la nona arte sia ormai stata definitivamente, e da tempo, riconosciuta in quanto tale, si stenta ancora ad attribuirle i meriti – o per lo meno l’interesse, anche e soprattutto di studio – che merita. Proprio qui si insidia il disagio tipico di chi si trova a scrivere dell’argomento nel tentativo di immergersi un po’ più in profondità, tralasciando magari quanto di già detto c’è in superficie: un disagio dato dall’obbligo di partire da qualcosa che si sperava fosse già stato interiorizzato e che invece a malapena si identifica in una problematica, almeno per ciò che concerne la ricerca e l’insegnamento universitari. E tutto ciò in concomitanza ad un altro rischio piuttosto diffuso, ossia quello di cadere nella trappola di un vittimismo accademico, quella frequente tendenza a giustificare un ambito rilevandone le affinità con un altro considerato ben più potente e soprattutto di innegabile rilevanza culturale. Non a caso la naturale affinità del fumetto con gli strumenti della critica letteraria di cui sopra, nonché il suo costante rivolgersi a tali strumenti, si traduce nella percezione comune in un atto di manifesta inferiorità; un senso di colpa da esorcizzare parlando di graphic novel piuttosto che di fumetto, poiché al sapore dignitoso, erudito e ricercato del primo corrisponde quello indecoroso, puerile e a malapena accettabile del secondo.

Ancora oggi si avverte una certa titubanza nel momento di definire una vera e propria critica italiana del fumetto, tant’è che all’atto pratico sarebbe preferibile parlare di critici più che di critica. Complice di tutto ciò, l’assenza di una vera e significativa offerta formativa universitaria in materia: ci troviamo sempre di fronte ad un’offerta didattica diretta maggiormente agli aspiranti fumettisti che non agli aspiranti critici.

Le facoltà e i corsi di laurea di impronta umanistica non vengono certo in soccorso: l’interesse per il fumetto finisce con il manifestarsi soltanto nelle spinte dei singoli docenti, che decidono magari di dedicare parte del programma d’esame – i settori maggiormente coinvolti sono per lo più la sociologia, le scienze della comunicazione e più raramente le lettere e la semiotica – all’analisi del linguaggio del fumetto o della storia dello stesso, ma sempre senza l’effettiva introduzione di veri e propri insegnamenti dedicati. Se dunque è possibile scovare all’interno del manuale di Storia e Testi della Letteratura Italiana di Giulio Ferroni, Paolo Cortellessa, Italo Pantani e Silvia Tatti, uno fra gli strumenti di base imprescindibili per ogni studente lettere, un piccolo focus sul fumetto, inserito però all’interno di una tavola tematica insieme a romanzo poliziesco, romanzo rosa, fantascienza e fotoromanzo, oppure, in alcuni casi, rilevare l’interesse per l’argomento in intellettuali provenienti dai campi più disparati – a titolo puramente esemplificativo, Umberto Eco e il suo fondamentale Apocalittici e Integrati – purtroppo difficilmente si va oltre l’intervento sporadico, il frammentario riferimento percepito come parentesi fuori contesto o una leggera divagazione di interesse culturale.

Proprio Umberto Eco ci fornisce un importante nesso fra le scienze umanistiche ed un altro punto di vista piuttosto prolifico, quello della semiotica. Le innumerevoli possibilità di riflessione e speculazione legate al concetto di segno grafico, nonché tutte le implicazioni – strutturali e narrative – ad esso legato, hanno portato e portato tuttora molti studiosi a scegliere tale approccio come via preferenziale, una porta verso uno studio analitico e scientifico del modo in cui la mente umana recepisce la struttura narrativa di un fumetto, i suoi passaggi, la closure e gli espedienti finalizzati a rendere l’idea di spazio, tempo, ritmo e suono; studio che, non a caso, spesso approda proprio alle scienze cognitive.

In questa direzione, il saggio a fumetti Understanding Comics di Scott McCloud negli anni ’90 ha fatto scuola: allo stesso modo, fra coloro che negli ultimi anni proprio di questo metodo hanno fatto una chiave di lettura imprescindibile c’è Neil Cohn, classe 1980, ricercatore californiano della UC San Diego. Cohn a soli 34 anni si è già distinto nell’ambiente accademico statunitense per la sua teoria del visual language, strettamente legata alla sua espressione più articolata e completa, il linguaggio del fumetto.

neil cohn

Il presupposto di partenza, come Cohn ha argomentato nel suo recente The Visual Language of Comics, è il seguente: gli esseri umani possono comunicare in tre modi diversi, ossia emettendo dei suoni (la scrittura viene considerata come trasposizione visiva della lingua parlata), facendo dei gesti e disegnando; nel momento in cui ognuno di questi “canali di significato” assume una struttura complessa nasce quello che definiamo linguaggio. Se esistono le lingue (scritte e parlate) e il linguaggio dei gesti, allora esiste anche quello che viene definito per l’appunto visual language, il quale, proprio come gli altri due canali comunicativi, tende ad assumere le caratteristiche tipiche e proprie di un linguaggio in quanto tale: si affianca ad altre modalità espressive, si basa su di un vocabolario schematico già interiorizzato dal fruitore, differisce da cultura a cultura, crea una vera e propria identità culturale per coloro che lo condividono, è un sistema presente – magari in forma ben più semplificata – fin dagli albori della civiltà e viene acquisito definitivamente solo dopo uno specifico processo d’apprendimento. Le ricerche di Cohn fino ad ora si sono focalizzate su quattro macrocategorie: le modalità di realizzazione della visual narrative (ossia il modo in cui attribuiamo senso a delle immagini in sequenza); le differenze cross-culturali del visual language; la struttura cognitiva legata alla capacità di disegnare e di imparare a disegnare; i processi cognitivi condivisi con gli altri linguaggi. Tutto ciò attraverso analisi comparative ed esperimenti psicologici.

In Italia una classe di dottorato in grado di accogliere un ricercatore interessato a studi di questo tipo non è, attualmente, nemmeno lontanamente ipotizzabile. Senza contare che oltre al necessario supporto universitario, Neil Cohn ha ricevuto un sostanziale appoggio anche da parte di numerose case editrici, tra cui Dark Horse, che hanno deciso di collaborare donando diversi volumi a sostegno delle sue ricerche. Insomma, un panorama piuttosto ricco e suggestivo.

cohn

Viene da chiedersi cosa potrebbe succedere se anche in Italia gli studi sul fumetto approdassero capillarmente nei testi universitari, nei corsi di laurea e nelle classi di dottorato; si passerebbe, in una prima fase, dagli strumenti – da non disdegnare assolutamente – della critica letteraria e della semiotica, ma con l’idea di approdare ad una disciplina appositamente pensata, ad un metodo che non sia solo il figlio ibrido di approcci diversi affiancati per l’occasione. E, probabilmente, si arriverebbe molto presto a concepire un settore disciplinare appositamente strutturato e dotato di strumenti propri, in grado di formare i futuri critici e ricercatori del settore. Risultato, questo, quantomeno auspicabile.

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