Belushi, la biografia a fumetti di un mito generazionale [Recensione]

John Belushi è stato uno degli attori più controversi della sua generazione; uno di quei talenti che difficilmente si dimenticano, e che altrettanto difficilmente si lasciano catalogare. Non sono state né la pazzia né una insana voglia di successo a portarlo sul limite del baratro e a spingerlo oltre. È stata la solitudine, quella tremenda e cocente, che coglie chi è più sensibile e si trova per giorni, mesi, forse addirittura anni in cima al mondo senza anima viva con cui poter parlare.

Era un alcolista e tossicodipendente, ingrassava e dimagriva, viveva di eccessi e di pericolo. Faceva quello che faceva perché, in qualche modo, si sentiva vivo, presente, non l’ennesimo volto, non l’ennesima voce della tv. Come tutti i comici, era estremamente sensibile alla tristezza. E gliela potevi quasi leggere in faccia. I suoi personaggi (quasi tutti, in realtà) sono diventati cult. Pilastri di un modo di fare, di recitare, di una generazione intera. Animal House, Blues Brothers, al Saturday Night Live. E come li racconti i successi e soprattutto gli insuccessi? Come fai, se puoi, a rendere l’idea – anche lontanamente, anche in maniera opaca e incerta – di chi fosse John Belushi?

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Nel graphic novel di Alberto Schiavone (sceneggiatura) e di Matteo Manera (disegni), edito da BD Edizioni, c’è questo: un tentativo di risposta. Ma non è né una sentenza né un assolutismo campato per aria. Un “Belushi era un genio, fine della storia”. O “quell’uomo aveva i diavoli in corpo e alla fine ha pagato con la vita il prezzo dei suoi eccessi”. No. Belushi di Schiavone e Manera è un libro che racconta fatti, storie, numeri, dati. Racconta degli inizi e della morte, una parte che si dissolve come nebbia al sole; e racconta del dolore, della droga, dell’alcol. Delle amicizie, come quella con Dan Aykroyd o con Steven Spielberg. E dei fallimenti, del fatto che, a un certo punto, Belushi venisse visto dallo star system come una macchina per fare soldi. Cosa diventa un uomo se perde la sua umanità? Un deambulante senza pace, che cerca il piacere estremo, il brivido assurdo; la spensieratezza delle droghe e dell’alcol. Dalla cocaina all’eroina.

Il racconto di Schiavone, semplice, immediato, poche parole che si alternano a lunghi periodi, è affiancato da un disegno altrettanto snello e pulito. Non ci sono colori. Solo il bianco (della pagina) e il nero. Le illustrazioni di Manera sono perfette ambientazioni, ottimi ritratti, indimenticabili primi piani. Belushi è un film su carta. Un film che alla fine ha anche i suoi titoli di coda. Le tavole e il loro studio, la loro divisione, sono inquadrature. Inquadrature fantastiche, che sviscerano la narrazione e i suoi toni. È il lettore, con la sua sensibilità, che decide che cosa sta leggendo. Se una commedia, un drama, un semplice ricordo. Proprio come sta allo spettatore, davanti ai migliori film, decidere se emozionarsi oppure no, un procedimento tanto passionale quanto, talvolta, cerebrale.

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Non voglio dire che Belushi sia un capolavoro. Perché non lo è ed etichettarlo, così come etichettare il suo protagonista, non gli renderebbe giustizia (ci sarebbe la soddisfazione del momento, certo, ma un momento passa subito, e qui parliamo di un’opera che racconta la storia di un’icona immortale del cinema contemporaneo). Penso, anzi, che non sia nemmeno nelle corde di chi l’ha scritto e disegnato quello di sentirsi dire “bravi” o “potevate fare di meglio”. Belushi è come un dizionario, un’enciclopedia; come la migliore serie tv che ci convinciamo a comprare in formato home video o un libro di cui non potremmo mai – mai – fare a meno.

È la vita di un uomo, di un artista, di un talento. E ci porta un po’ più vicino alla realtà di quanto tante interviste, tanti editoriali e tanti altri libri abbiano mai fatto.Perché? Perché è nudo e crudo, e una volta che hai urlato CIAK!, il racconto, il vero racconto, inizia e nessuno può fermarlo. Proprio come un film al cinema, da cui puoi allontanarti solo uscendo dalla sala.