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Gianni De Luca, nato con la matita [Intervista]

Questo articolo comprende otto conversazioni sul fumetto fra Gianni De Luca e la figlia Laura, fedelmente trascritte da altrettante registrazioni realizzate non continuativamente fra il 1987 e il 1991. Gianni De Luca è stato fra i più grandi autori del fumetto italiano. Fra le sue opere più importanti, quasi tutte prodotte per il settimanale cattolico Il Giornalino, ricordiamo le storie de Il commissario Spada (su sceneggiatura di Gianluigi Gogano) e gli adattamenti delle opere di Shakespeare: AmletoRomeo e GiuliettaLa Tempesta, realizzate con lo scrittore Raul Traverso.

Come ricorda la figlia nella breve prefazione di queste trascrizioni, pubblicate originariamente su Il commissario Spada vol. 3 (Black Velvet, 2004):

Mio padre Gianni De Luca è annoverato tra i massimi autori del fumetto italiano, ciò nonostante misconosciuto e sottovalutato in patria soprattutto a causa della sua volontaria autosegregazione nel “ghetto” dell’editoria cattolica. Del Fumetto egli avrebbe voluto contribuire a fare (e solo in parte riuscì nell’impresa) uno dei più efficaci mezzi di comunicazione e di educazione all’immagine, ritenendolo il più adatto ai nostri tempi nonostante lo strapotere di altri media.

Di questo si parla nei seguenti dialoghi, ma anche della professione e della storia di Gianni De Luca, che emigrò da un paesino del catanzarese nel 1933 alla volta della capitale e che, attraverso l’esperienza diretta del fascismo e della guerra, nel corso della ricostruzione e del boom economico, fino agli anni di piombo e alla caduta dei regimi totalitari in Europa, avviò e perfezionò, senza di fatto concluderle mai, la sua personale formazione artistica e la sua originalissima poetica del fumetto.

Sono anche, quelle che seguiranno, conversazioni di inevitabile conflitto generazionale, dati i trent’anni che dividevano l’intervistatrice dall’intervistato.

gdeluca

1 – 10 dicembre 1987

Laura De Luca: Dirò subito che non intendo realizzare questa intervista con la tecnica, per così dire, dell’andamento storico, lineare, retrospettivo. Preferisco la tecnica denominata “di palo in frasca”.

Gianni De Luca: Bontà tua.

L: Anche se fatalmente, e a causa della mia ossessiva mania dell’ordine, cominceremo dall’inizio.

G: E da dove vorresti incominciare? Ma poi, scusa, perché questo orrore per il caos?

L: Chiariamo subito una cosa. L’intervista la faccio io.

G: Giornalisti!

L: Potrei ribatterti con il medesimo sussiego: fumettari!

G: Me ne vanto.

L: Eccolo, l’inizio. Tu ti vanti di fare il fumettaro…

G: Sì, ma non come quelli che negli anni Sessanta si gloriavano di essere “artigiani della cinepresa”, “operai della macchina per scrivere”, “manovali del pennello” e simile boiate. Sai come li qualifico io, quelli?

L: No.

G: Inqualificabili ipocriti.

L: Torniamo a bomba. Il Fumetto, perché?

G: Perché non c’è niente di più elementare, di più arcaico, di più semplicemente e, cavernicolamente, passami la parola, umano. […] Le grotte di Altamira. Ci sei mai stata tu? Non mi risulta. Bè, ci sono dipinti di bisonti e di altri animali. Messi di traverso, sospesi in un’aria che non c’è, sembrano aquiloni.

L: Cosa c’entra?

G: Il cavernicolo ha intinto il dito nella terra, nel carbone, nel succo d’erba o che ne so io, e ha rappresentato come poteva, sulla parete di roccia, quello che aveva vissuto, quello che voleva fosse ricordato, magnificato, esaltato, fatto entrare di diritto nell’eternità, nella Storia, ammesso che ne avesse una qualche cognizione (ma non lo possiamo escludere). Ha, cioè, rappresentato la sua preda di caccia, la sua vittoria sulla natura, un fatto. Insomma si è disegnato un desiderio realizzato, gli ha dato forma immediata e sempiterna per gli occhi.

L: Aveva, cioè, inventato il Fumetto?

G: La sua prima metà, ovvero il Disegno. Per inciso, è dietro al cavernicolo che, dopo, si sono accodati tutti gli altri: Fidia, Michelangelo, Goya, Picasso, Chagall, a dare forma visibile ai loro desideri… ma, al fondo, il desiderio era sempre lo stesso: rappresentare una mancanza, un bisogno, e farlo nel modo più diretto. Attraverso un’immagine, appunto.

L: Mi hai dato una definizione di Arte Figurativa in generale, non di Fumetto…

G: C’è qualcosa nel Fumetto che è immediatezza, (che poi la diffusione a mezzo stampa ha esaltato) e che l’Arte in senso tradizionale invece aborrisce. Il cavernicolo di Altamira, senza saperlo, aveva colto proprio questa immediatezza del Fumetto, la sua estemporaneità. Anzi: quell’immediatezza aveva trovato lui, guidando la sua mano.

L: Già mi gira la testa. Quasi quasi spengo il registratore e lasciamo perdere, visto che abbiamo già trovato quello che ci siamo messi con santa pazienza a cercare soltanto un attimo fa.

G: Cosa ci siamo messi a cercare?

L: Fra le altre cose, una definizione attendibile di “Fumetto”.

G: Non lo sapevo.

L: Sì, va bene. Lasciamo perdere (Per ora). Debbo fare un’altra precisazione doverosa, prima di incominciare sul serio, e la faccio a te ma anche a me stessa, in modo che me ne ricordi bene. Intervisto un fumettaro anche per raccontare un secolo – o quasi – di sperimentazioni ne campo del Fumetto. Cioè la parte per il tutto.

G: Non ti è venuto in mente che forse, invece, stai per intervistare “il tutto per la parte”?

L: Tu saresti il “tutto”?

G: Dal mio punto di vista, sai com’è, posso presumere qualunque cosa, e me lo devi concedere fino a prova contraria (… se fossi anche modesto sarei perfetto!).

L: Bè, io non so se sto intervistando un mostro sacro o semplicemente un fumettaro. Il tutto per la parte o la parte per il tutto. Di certo, scusa, sto intervistando un presuntuoso.

G: Prego: uno che conosce i propri limiti, ma che soprattutto non teme di riconoscere le proprie capacità.

L: … Ma ti intervisto (e vorrei concludere) anche perché sei un uomo di questo secolo, e ci sei entrato con trent’anni di anticipo rispetto a me, e perché ho un paio di questioni irrisolte sulla Storia che tu potresti contribuire a dissiparmi…

G: Bontà tua.

L: Comunque, non raccontare balle. Non è vero che fin dall’inizio tu avevi deciso di fare il fumettaro.

G: Se volessi fare la radical chic potresti dire “il cartoonist”.

L: … È che il gioco ti ha preso la mano, dì la verità. Ti sei accorto che ti ci divertivi e che potevi inventarti questa storia della immediatezza, della universalità del di-scorso… come il tuo amico Traini che…

G: Piano. Io ho pochi amici, e di quei pochi, dico tutto il male possibile.

L: Okay, mi correggo. Come l’editore Traini che da ragazzino era avido di fumetti e da grande si è messo a fare l’editore per poter continuare a leggere quello che gli piaceva.

G: Intanto sul mio conto, hai detto una falsità. Io non mi sono affatto inventato una missione strada facendo. Vatti a vedere il mio primo fumetto. è del 1941 e avevo tredici anni. Un’età al disopra di ogni sospetto.

L: Lo conosco. Facevi il verso agli illustratori di regime e raccontavi una storia di guerra in cui glorificavi il coraggio dei marinai italiani.

G: I nostri incrociatori contro i cacciabombardieri britannici.

L: Che pena.

G: Perché?

L: Quelle figure ingenue… quel lettering svolazzante…

G: Io piuttosto, mi chiederei quanto c’è di inventato, e quanto invece di assorbito dalla retorica del regime…

L: Bah. Di una cosa ti debbo rendere atto. Per propagandare il valore dei nostri marinai, non ti piegasti allo stile del Ventennio, quello dei guerrieri virilissimi e mascelluti, per intenderci… riuscisti, almeno su questo, a mantenere le distanze. La superiorità dei nostri è resa semmai da una naturale eleganza di lineamenti…

G: Ti ringrazio. Ho saputo da abbastanza subito che era meglio cercare di distinguersi in qualche cosa.

L: Però in qualche cos’altro eri omologato. Il formato di queste mini-tavole, per esempio.

G: Sì. Basso e lungo, in sintonia con gli albi dell’epoca, che ristampavano le strisce o gli inserti dei quotidiani d’oltre-oceano. Il formato comic-book, invece, sarà lanciato dalle ditte sponsorizzatrici solo successivamente.

L: Mi sembra comunque di poter concedere che in quest’opera c’è già, chiarissima, una tua predisposizione al Fumetto…

G: Grazie della concessione. Vedi, per me il disegno è stato fin dall’inizio una cosa seria, vitale. Non avevo da scialare con i giornaletti e allora me li disegnavo da solo…

L: Perciò dici “che pena”?

G: No… così.

L: Non diventare evasivo. Stai pensando alla casa di via Aubry, vero?

G: E anche ad altro. Comunque, di queste cose preferirei non parlare. Ognuno, i ricordi dei propri drammi se li coltiva in privato.

L: Tu eri venuto su dalla Calabria da appena sette anni. Cioè ne avevi sei, quando la lasciasti. Te la ricordavi? Te la ricordi? E cosa ti ricordi oggi, della Calabria di allora?

G: È difficile… ricordarsi di un ricordo. È quasi come entrare nella memoria di un’altra persona. E io, probabilmente, a sei anni ero veramente un’altra persona. Mi ricordo del rosa dell’alba sullo Ionio. Il mare lo vedevo dal terrazzino di casa mia, lontano, all’orizzonte. Una striscia cobalto. Mi ricordo il profumo dell’origano, l’odore del sapone di strutto e cenere. Mi ricordo il buio, quando mia madre spegneva la luce. Un buio che chi è nato in una città non conosce…

L: E allora spiegamelo.

G: Un buio assoluto, totale, simile a quello che avrà assillato l’ignoto autore dei bisonti volanti ad Altamira quando, in qualche notte senza luna, avrà messo il naso fuori dalla sua caverna… solo chi ha visto quel buio, presumibilmente, (intendo quel vuoto assoluto di forme, di spiragli, di chiarori) può davvero capire il Disegno.

L: Vuoi dire che la generazione delle metropoli il Disegno non lo potrà capire mai?

G: Un certo Disegno forse no. Un Disegno fatto di essenzialità e di cultura, di povertà e di ricchezza insieme… in questo, l’essere nato in un paesino della Calabria mi ha aiutato.

L: Mi fai pensare all’arte concettuale.

G: Cosa?

L: Sì, al Dipinto segreto di Mel Ramsden, a quel quadrato nero, ti ricordi? Nero pieno di chissà che.

G: Cosa c’entra?

L: Non lo so. Nel nero tutto è possibile.

G: A quel proposito lo sai cosa diceva Gombrich? Che “non sempre le opere d’arte che costituiscono una perfetta traduzione di un principio teorico sono le migliori del loro tempo”…

L: E secondo te aveva ragione?

G: Un artista che, come Ramsden, ricorre alle parole per spiegare che in un quadrato nero c’è nascosto il suo messaggio invisibile e puro, finisce che, per non contaminarsi con immagini impure, si contamina con le parole. E allora, scusa tanto, che artista è?

L: Un artista molto contemporaneo, visto che l’arte oggi le contaminazioni le va cercando. Comunque, anche il Fumetto è immagine e parola!

G: Ma è Fumetto in quanto, per l’appunto, non teme contaminazioni!

L: A proposito. Dopo Altamira, il Fumetto si riaffaccia, o si affaccia veramente, solo in seguito all’invenzione della scrittura. E cioè al tempo degli Egizi…

G: Sì… con quelle magnifiche figure di contadini che guidano buoi… e con quelle battute… “Tira forte!”… “Spingi l’aratro!”… così banali. Così quotidiane…

L: Tu che professi la priorità dell’immagine, come vedi questa intrusione della parola scritta?

G: Il suono è ineffabile. Ammetto che per dei disegnatori, diciamo, primitivi, poteva rappresentare un problema rendere il dialogo fra due personaggi… senza contare l’ebbrezza, la pruderie della scrittura appena conquistata. Tuttavia io professo la priorità dell’immagine non a proposito del Fumetto. Il Fumetto è, per l’appunto, parola e immagine. Oppure non è Fumetto.

L: Mi sono persa… torniamo per un momento alla tua Calabria dei cieli neri… la lasciaste perché…?

G: Lo sai perché. Non c’era lavoro. Non c’erano possibilità.

L: Io, la questione meridionale mi ricordo di averla studiata a scuola… quella famosa relazione di Nitti sulle condizioni dei contadini in Basilicata e in Calabria… lui diceva di aver fiducia che quando un giorno la Calabria fosse stata coperta di boschi e quando fossero state sistemate le acque e la malaria debellata, si sarebbe aperto un grande sviluppo di ricchezza agraria e industriale. Perché secondo te non è mai successo?

G: Non lo so se non è mai successo… certo Nitti parlava bene ma… non era molto meridionale. Lo era un po’. Non apparteneva al profondo Sud. Solo chi è di quel Sud dimenticato (quello senza università e senza strade, per intenderci), può veramente capire. Cristo si è davvero fermato ad Eboli.

L: Che vuol dire?

G: Che il Sud è uno stato d’animo, con tutte le sue miserie, i suoi ritardi. C’è di mezzo il fato, quello dei Greci, la rassegnazione, una specie di vedovanza eterna…

L: Però tuo padre, cioè mio nonno, non ci si è rassegnato mica a quella miseria. Ha chiuso la casetta col terrazzo che scopriva il mare ed è partito per la capitale…

G: Ma è sempre rimasto uno del Sud. È sempre rimasto al Sud. Di cuore, di mente, di stato. Questo intendo con “vedovanza”. Una separazione che rimane, un distacco che marchia per sempre. Secondo me, sui documenti anagrafici, accanto alla specifica sullo stato civile, si dovrebbe inserire quello sulla meridionalità. Sposato o celibe. Meridionale o no. Nel senso: appartenente o no a qualsiasi meridione della Terra, Calabria o Africa che sia.

L: Faresti felice quel pazzo… come si chiama? Quel Bossi…

G: Non voglio fare del razzismo. Parlo proprio in quanto meridionale. Il Sud è un modo di pensiero. Mi passi il termine, tu che hai studiato filosofia? Il Sud è una categoria. Mi vengono in mente Campanella, Giordano Bruno, Socrate, se vuoi. A Sud si attende. I contributi, il calare del sole, l’intervento dello Stato, nonché che i fichi maturino sulla pianta… si attende, anzi si sta. In contemplazione, in estasi, pensala come ti pare.

L: Allora è anche per questo che al Sud c’è la mafia?

G: “Mala jente” diceva mia madre. La mafia è una punizione del Sud, mica una sua manifestazione.

L: Ma cosa c’entra tutto questo col Fumetto?

G: Dovrai dirmelo tu.

L: Mi sono persa per strada. Volevo sapere che cosa ti ricordi della Calabria, di quando sei partito, ed eccoci qui a parlare di categorie di pensiero.

G: Te l ’ho detto. Mi ricordo di un certo buio. Di un certo rosa e di un certo cobalto.

L: Colori?

G: E poi di certe figure, mi ricordo, che mi danno brividi retroattivi. Quelle donne sempre velate, nere, con una specie di chador perennemente in testa. Insomma le Parche. Collocate a ogni angolo di vicolo come promemoria. Al Sud ci sono sempre vedove, il Sud è una vedova.

L: Di cosa?

G: Del resto dello stato, del resto del mondo. È un abbandono cosmico.

L: C’è un tuo disegno a china di una di queste vedove. L’ho visto una volta, qui in questo tuo marasma di cose… hai capito a che alludo?

G: Uhm… sì, forse… è una cosa del ’52 …

L: Lo intitolerei “Disperazione di donna del Sud” È la disperazione di una vedova? O di una donna come tua madre che a un certo punto dovette partirsene per la capitale?

G: O forse di mia nonna… chissà… che ci vide partire e iniziò ad aspettare che ritornassimo… aspettò fino alla morte…

L: Uhm… poi che altro ti ricordi della Calabria? Di questo attendere?

G: Non lo so… vagamente… una volta, (ma è una specie di dagherrotipo sbiaditissimo…) certi signori del Nord vennero da noi in visita e furono accolti con tutti gli onori. C’era qualcosa di borbonico in quella cerimonia, almeno come me la rivedo io, che giravo praticamente scalzo nelle classiche “braghe di tela”, e c’era l’arciprete con la tonaca fino ai piedi che si prostrava davanti a questi visitatori “schranieri”… scendevano da una specie di diligenza, sulla strada bianca davanti alla chiesa…

L: Quella dove tu, quasi quarant’anni dopo, avresti affrescato il San Pietro?

G: Quella… ed era estate e faceva un gran caldo e l’acqua ancora non c’era nonostante le speranze di Nitti, e quelli si asciugavano il sudore delle fronti con certi fazzoletti bianchi. Ispettori del Governo? Chissà. Inviati del tuo Nitti, certo non potevano più essere. Sarà stato il 1930, forse il 1931… magari venivano dalla Prefettu-ra… non lo so.

L: È con questo aereo bagaglio di “immagini” nella tua mente, che sei sbarcato a Roma?

G:  Chissà con quante altre di cui né allora né ora potrei dirti nulla. Svanite. Ci pensi quante immagini si perdono nel corso di una vita? Dove finiranno? Ci sarà una banca delle immagini di tutta l’umanità, un cantinone?

L: Può darsi. Magari ci starà dentro anche la Pop Art…

G: Perché no?

L: Non divagare, per piacere. Dunque tirando le somme, mi pare si possa ufficialmente ammettere che sei più romano che calabrese.

G: Fai tu. Io mi sento piuttosto greco, europeo… universale.

L: Già. Dovevo saperlo. Ma pensi che… che per esempio quei colori di Calabria (proprio quelli, non altri) abbiano avuto in qualche modo il tempo di determinare il tuo modo di essere, e quindi di diventare?

G: Di questo sono sicuro. Uno non è quello che è per un caso della sorte, per capriccio, diciamo, delle sue molecole. Ci deve essere un destino, un tracciato. (Le Parche!) Io vengo da quel buio del cielo senza luce elettrica e da quel nero delle eterne vedove e di questo sono fiero, diciamo consapevole. […] Del resto il Fumetto, la grafica in genere, non si giocano proprio sul bianco e sul nero? È un sistema perfettamente binario. L’inchiostro di china è il mio erpice.

L: Il nero della Calabria, dunque.

G: Il nero dei cieli primitivi, direi. Alla faccia di Ramsden e dei suoi trucchetti.

L: Non abbiamo prove della sua malafede.

G: Neppure di quella buona.

L: E gli altri colori?

G: Perché dici gli “altri”? Abbiamo parlato, finora, solo di nero.

L: Sì, lo so che il nero non è un colore.

G: Rosa di alba e Jonio cobalto. Aggiungici, se vuoi il verde metallico degli ulivi. Te li ricordi, no? Se non c’è vento, gli uliveti sembrano distese di arnesi impolverati, in disuso. Basta un alito e ti svelano la loro anima argentata, la loro doppiezza di creature… la realtà è apparenza. E non solo quello che appare è reale.

L: Anche questo è il Fumetto?

G: Una delle sue possibilità. C’è di mezzo, di nuovo, la grazia del Disegno, quell’erpice di cui sopra. Ognuno svela quello che può, scavando e osservando la realtà. Se lo può fare e fintanto che lo può fare. Se no, fa il decoratore. Mestiere rispettabilissimo, beninteso. Ma un’altra cosa.

L: Uhm. Dunque, all’origine della tua esperienza visiva ci sono questi colori della terra, di cielo e di mare… più il nero assoluto, se non sbaglio…

G: Il colore è un concetto. Chi fa Fumetto deve saperlo più degli altri. Non puoi disseminare le vignette di tinte così come capita…

L: Tu le tue tavole te le sei sempre colorate da solo?

G: Quasi. Oppure mi sono fatto aiutare da persone che potevo guidare, indirizzare…

L: Salvo poi imbestialirti quando i tuoi colori finivano per essere stravolti dalla resa tipografica.

G: Appunto. Ma è lo scotto che bisogna pagare alla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte.

L: Alludi a Benjamin?

G: Può darsi. Se lo cito senza citarlo, è un lapsus che ammetto volentieri.

L: Il colore è così importante nel Fumetto?

G: Te ne meravigli? Il colore completa la grafica e ci sono colori evocabili perfino dalla sola grafica.

L: Che vuoi dire?

G: Che è possibile suggerire un rosso o un viola solo dosando diversamente il tratto a china.

L: Alludi alla tecnica a spugnetta? O a quella a puntini?

G: Alludo a tutto quello che un autore è in grado di fare oppure no. C’è una sequenza di “Fantasmi” in cui due personaggi soccorrono un drogato. Solo lui è a colori. Gli altri restano nel limbo del bianco/nero.

L: Io avrei fatto il contrario.

G: Per me il dramma era lì, su quella crisi di astinenza, sugli occhi allucinati, sull’immobilità che andava in qualche modo staccata, evidenziata…

L: Tutto questo è il Fumetto?

G: Questo e un’infinità di altre cose. Ma in pochi lo sanno. E sono ancora meno quelli che lo accettano.

L: Perché?

G: Forse perché bisogna venire dal profondo Sud della vita. O più semplicemente perché, di nuovo, bisogna saperlo fare.

L: Che vuol dire “dal profondo Sud della vita”?

G: Dai suoi meandri, delle esperienze più di confine. Appartenere a un sud geografico forse ti aiuta. Anche se io, come ti ho già spiegato, mi sento piuttosto universale.

L: È un discorso di umiltà?

G: Anche. Ma soprattutto di chiarezza (Bene, si vede che sei mia figlia, certe cose le intuisci a volo). Quell’attendere della gente del Sud mi ha insegnato che l’umiltà è divisa in chi sta lì ad attendere perché non può fare altro e in chi deve soddisfare attese perché la natura lo ha dotato di mezzi per farlo.

L: Tu chiaramente, appartieni alla seconda categoria?

G: Sono passato per certi gironi e so cosa vuol dire…

L: Cosa vuol dire cosa?

G: Soddisfare le attese, anche quelle che la gente non sa di avere. Lo sai che, ancora oggi, per alcune categorie di persone il Fumetto è l’unica occasione di lettura? E allora perché dargli brutture? Subito dopo la guerra, il pubblico dei fumetti divenne gigantesco. Questo, certo, ha aperto il discorso della mercificazione (fortunatamente!), ovvero della diffusione popolare delle immagini, ma anche, di conseguenza, il discorso delle logiche industriali, non sempre oneste…

L: Scusa, che vuoi dire?

G: Niente, non mi va di riaprire lo stra-ammuffito dibattito sulle scelte e sulle decisioni dei padroni del vapore. Ti farò un altro discorso, che attiene al mio lavoro e a nient’altro. Se un ragazzino di borgata si compra un giocattoletto, si aspetta di trovarci dello svago, che ne so, piacere degli occhi o relax per la mente, storie che lo divertano. Questo solo sa di sapere, il ragazzino di borgata. E poi neanche tanto. E attende di conseguenza, è di quelli lì che attendono. Io soddisfo quelle sue elementari attese, se sono un fumettaro, e sta a me soddisfarle al meglio. Ma se sono anche cosciente di quello che posso, soddisferò anche l’attesa principale, quella che il ragazzino di borgata non sa nemmeno di avere, che è l’attesa del bello, della sua educazione e conoscenza, che è un’attesa che c’è in chiunque, anche se non lo sa, anche se la prende per fame di bignè o di altro, ma che invece è quello che lo fa uomo. Don Nicolino, per esempio, giù in Calabria…

L: Allora?

G: No. Lasciamo perdere. È un discorso lungo.

L: E allora?

G: … Era diventato così per via di quella mina che gli esplose a un passo, nella guerra ‘15-‘18… lo sai no? Non sentiva e non capiva più tanto. Però vedeva… bè, io quando disegno, se punto a farmi capire, finisce che penso sempre a don Nicolino. È lui il mio criterio di universalità, di rigore. Nel senso che se mi capisce lui, mi capiscono davvero tutti. Sono disposto anche a rinunciare a parte della mia libertà, per avvicinarmi a tutti i don Nicolino della terra.

L: Ma don Nicolino almeno lo sapeva che lavoro facevi?

G: Non lo so se lo sapeva. Quando mi incontrava, mi chiedeva sempre i soldi per andare a farsi un bicchierino, ti ricordi? Basta, non so altro. Non lo so davvero, ma non importa. […] Bah.

L: Bah cosa?

G: Brividi retroattivi. Abissi. Che pena.

L: È la seconda volta che dici “che pena”. Tu ti compatisci?

G: Compatisco certi gironi, te l’ho detto.

L: Mi ricordo che una volta ti compatisti anche aprendo la tua vecchissima cartellina dei disegni del liceo.

G: Uno compatisce sempre le proprie passate illusioni.

L: Eri illuso quando sei arrivato nella grande città?

G: Avevo sei anni…

L: Dopo, come ti ci sei trovato?

G: Che debbo dirti? Mi ricordo tutti questi palazzoni, queste strade, questa grandezza… un’invasione di linee tutte nuove che cominciano a chiudermi l’orizzonte visivo. Però era strano. Chiudendo, aprivano. L’occhio si instradava in percorsi prefissati, spigolosi come i palazzoni dell’EUR, o come suggeriva il titolo di quella raccolta fotografica di Lattuada… proprio in quegli anni… l’occhio quadrato… sì… l’occhio era obbligato in percorsi prefissati, ma in compenso… adesso potevo contemplare miliardi di cose. I palazzoni umbertini, i cornicioni coi fregi, le piazze barocche, i campanili, le cupole di Piazza Navona… potevo vedere, imparare… non so, ma è come se la città con le sue linee prefissate, contenesse a beneficio dei miei occhi verginelli un’indicazione anticipatoria di vignetta: la delimitazione dello spazio a servizio di un evento, di un fatto ancora da raccontare, che teoricamente avrebbe potuto dilatare all’infinito quello stesso spazio…

L: Come come?

G: Vedi, prima tutto era fluido, ai miei occhi. Ero uno scugnizzo del profondo Sud in quelle famose braghe di tela. Poi, tutto è entrato in binari, in prospettive lineari, ritagliate in quadrati e in rettangoli… la vignetta è questo. A me il Fumetto mi ha perseguitato… poi avrei conosciuto Arp, per esempio: «Noi vogliamo far uscire lo spirituale, non la materia, e per questo ci limitiamo a servirci unicamente di piani verticali e orizzontali. Il verticale e l’orizzontale sono i segni estremi di cui l’uomo dispone per andare oltre, nell’interiorità.»

L: “Oltre” dove?

G: Dove vuoi . Il Fumetto, nel suo spazio assoluto, fantastico, è infinito. Anche se è costretto in quelle due dimensioni, chiamiamole così, del verticale e dell’orizzontale. Anzi: proprio perché ci è costretto.

L: Dove abitavate?

G: Via dei Soldati, dietro piazza Navona. Un altro quadrato, un’altra costrizione: un appartamento minuscolo per i genitori e noi tre figli. Poi ho iniziato la scuola, in quegli anni di adunate fasciste…

L: Ti pesavano?

G: Guarda, io non sono di quelli che allora aderivano e oggi storcono il naso, non lo sono mai stato. Per noi ragazzini essere balilla o avanguardisti era un divertimento, e in certi casi perfino un onore. Giocavamo alla guerra… io portavo quei pantaloni d’ordinanza… belli… di panno verde… e quel fez… poi c’era anche un giornalino, Il Balilla, ma non aveva veri e propri fumetti, solo storielle illustrate. E poi c’era la Befana fascista, che distribuiva perfino la marmellata…

L: Eri… fascista per la gola?

G: Ma che ne so io, che ne sapevo del fascismo. Ero bambino. Guardavo i manifesti di Cambellotti, Riccobaldi, Mancioli… mi piacevano quei colori decisi, le forme semplici (all’epoca si diceva virili; io, più che altro, le trovavo austere…). Su certi libri invece guardavo Tofano, Rubino… quello che conta, per un bambino, è la magia, l’atmosfera di certe cose. Atmosfera per me ce n’era in Harold Foster, nel suo Tarzan e nel primo Principe Valiant. Poi in Cino e Franco, non so… oppure nelle figurine del concorso Perugina… o in giornaletti come “L’Audace”, “L’Avventuroso”, con quelle storie magari un po’ troppo edificanti…

L: E Mussolini?

G: Sentivo la sua voce alla radio, lo vedevo ritratto sui manifesti, nelle foto dei giornali, in un quadro che avevamo in classe… al suo posto ce l’ho trovato, non mi ha mai fatto una particolare impressione… mi fece impressione la vittoria dell’Italia alla Coppa del Mondo di Calcio nel ’34, o quella di Achille Varzi alle Mille Miglia…

L: Quando hai scoperto che dovevi disegnare?

G: Non lo so. Io ci sono nato, con la matita in mano.

L: Come?

G: Sì… ritraevo mia madre che cucinava, tuo zio Franco che dormiva…. progredivo in maniera istintiva, senza regole e neppure maestri. Quando impugnavo la matita sentivo una specie di vibrazione…

L: Ah, sì. Tipo quella del rabdomante. L’hai già detta, questa cosa, in qualche intervista.

G: Brava. Ti sei documentata. Io disegnavo dove capitava. Dietro gli stampati dell’Opera Nazionale Balilla, sui bordi di giornali, sui cartoncini delle sigarette… e con quello che capitava. Pezzi di carbone, gessi rubacchiati…

L: Il Disegno è un’attività economica?

G: Essenziale, direi. Puoi disegnare con uno stesso sulla sabbia… o con uno stuzzicadenti intinto nel caffè…

L: Ti senti molto vicino a quel cavernicolo di Altamira, vero?

G: Più a lui che ai cosiddetti artisti che oggi (o anche allora) espongono (o esponevano) nelle Biennali. E poi, ora che ci penso… un cavernicolo non fu anche protagonista di un fumetto?

L: Non mi risulta…

G: Ma se andava per la maggiore quando tu facevi il ginnasio…

L: Ah, sì. B.C. di Johnny Hart…

G: L’età della pietra come parodia dei nostri tempi, possibile smascheratura dei nostri vizi capitali…

L: È per questo che preferisci il cavernicolo a certi artisti contemporanei, perché il cavernicolo è più duttile a rappresentarci rispetto a un Ramsden?

G: Non esattamente. Vedi, quand’ero ragazzo io furoreggiava la Quadriennale romana di Cipriano Efisio Oppo… ma io sapevo che erano tutti intrecci di ipocrisie. Lo sentivo dire da certi pittori che frequentava mio padre, tra i suoi amici socialisti. Come liberarsi dal sospetto che certi esponessero perché avevano sposato le idee del regime, perché erano graditi a Farinacci?

L: Questo sospetto conviene coltivarlo sotto ogni regime.

G: E difatti. Perciò ho sempre preferito starmene alla larga dell’arte cosiddetta ufficiale, dalla politica delle mostre… insomma, ho sempre preferito “fare il cavernicolo”, se vuoi… da ragazzo disegnavo, mi bastava. Avevo un antro allora e ce l’ho anche adesso. Oggi penso che se continua ad esistere, come esiste, una frattura fra l’arte cosiddetta pura delle gallerie e l’arte commerciale, preferisco parteggiare per ciò che è di-sprezzato dalla gente “raffinata”.

L: I tuoi che dicevano?

G: Niente, mi lasciavano fare… […] poi, quando avevo quindici anni, un conoscente di mio padre mi presentò alla redazione de Il Vittorioso. Forse la si poteva mettere a frutto, quella mia abilità.

L: E non certo nelle esposizioni della Quadriennale, dunque?

G: Direi di no. La mia era proprio arte “applicata”. Da scialare, a casa mia, non c’era…

L: Era scoppiata la guerra?

G: Sì, certo.

L: Che pensavi?

G: Della guerra?

L: Uhm.

G: Niente. Pensavo quello che mi facevano pensare. Certo, alcuni giornalini cessarono di esistere. Nerbini dovette chiudere, e anche Topolino di Mondadori uscì di scena. Però noi non eravamo allarmati… ci dicevano che noi italiani avremmo stravinto, e davvero ci sembrava solo una partita di calcio. Poche settimane, forse tutta l’estate (forse neppure) e sarebbe finita. Caduta la Francia, ci dicevano, non resta che prendere l’Inghilterra. I grossi calibri tedeschi erano già puntati sulla Manica… e poi anche gli eroi dei giornaletti andavano in guerra… Cino e Franco si arruolarono in marina, per esempio. Flash Gordon abbandonò le sue costellazioni per tornare sulla terra e combattere contro il nazismo…

L: Scusa, quest’ultima cosa come la presero i tedeschi?

G: Flash Gordon fu scomunicato.

L: Ma non avevate paura?

G: Con quegli esempi? Scherzi? E poi dicono che il fumetto è evasione. Non lo so… forse avevamo una specie di incoscienza. Non ci si pensava e basta, Io mi ricordo giusto qualche sacchetto di sabbia che copriva la statua di Paolina Bonaparte. Sulla guerra inventavo delle storie a fumetti, e quando suonava l’allarme, alla fine non mi muovevo neanche per scappare al rifugio.

L: E che facevi?

G: Restavo lì, sul letto, a sentire quel rombo che ci passava sopra la testa… no, tu quel rumore non te lo puoi immaginare. E nemmeno la sirena d’allarme. Era un suono… tremendo, non so. Perforava dentro… poi quel buio dell’oscuramento… mi ricordava il cielo senza stelle di Calabria. Il nero assoluto della china: eccolo di nuovo… stavo come dentro una bottiglietta di inchiostro, ma non ero infelice, no.

L: Vuoi dire che “non vedevi nero”?

G: Eravamo impregnati di sano orgoglio fascista, quale “nero”? Quello delle camicie nere, senz’altro, ma non era un colore luttuoso. La guerra, ancora dovevamo cominciare a sospettare che l’avremmo persa. E poi, tutto sommato. La cosa mi toccava e non mi toccava… te l’ho detto: io leggevo Cino e Franco, Dick Fulmine, il principe Valiant… in certe avventure, Flash Gordon lottava contro Ming, cioè contro la tirannia. L’Uomo Mascherato forse sarà stato anche un colonialista, ma invece di proporre modelli occidentali ai nativi della giungla di Bengali, cercava di conservare le antiche tradizioni dei Bandar… e Topolino giornalista che si batteva contro i politicanti corrotti, non alludeva forse alla libertà di stampa? Pensa che L’Audace faceva anche una certa azione di fronda…

L: Vuoi dire che i giornali a fumetti non dovettero mai e poi mai fare i conti con le restrizioni del regime?

G: Sì che dovettero farli, da un certo punto in poi. Ma in ogni caso a noi ragazzini nessuno dava fastidio.

L: Nel senso, evidentemente, che vi toglievano alcune storielle per raccontarvene altre…

G: Nel senso…?

L: So di un’avventura di Mandrake che lottava contro gli agenti segreti di Hitler, che però poi fu ritoccata. I nazisti divennero spie alleate, la Gestapo diventò la polizia americana e Berlino fu tramutata in Washington…

G: Cosa vuoi? Forse alcune cose, noialtri non arrivavamo neppure a saperle.

L: Ti pare poco?

G: Oggi, credi che si arrivi a sapere tutto? E questa è una democrazia, mi dicono. Ha mai sentito parlare di Ustica? O del delitto Pecorelli? La verità è che a me, quand’ero ragazzino, nessuno mi ha mai impedito di crescere, di evolvere, di pormi anche delle domande…

L: Quali?

G: Perché, per esempio, quello zoticone di Hitler ci imitava così… così pedestremente.

L: Ci imitava?

G: Sì, lo so cosa pensi. Che, dopo, l’allievo ha ampiamente superato il maestro. Ma, sai, i tedeschi, quando si mettono nelle cose…

L: Il marchio di fabbrica di uno dei massimi orrori del nostro secolo lo deterrebbe dunque un italiano?

G: O un sovietico, chissà. Che ne diresti di includere nei massimi orrori del nostro secolo anche un certo Stalin?

L: Va bene va bene, sorvoliamo.

G: Sì, ti conviene.

L: Non sono mica comunista. Te lo levi dalla mente, questo pregiudizio?

G: Sì, ma certe ideuzze, tu e quelli della tua generazione… ve le portate dietro dietro…

L: Sarebbe una colpa?

G: Niente affatto. Se non di ingenuità.

L: In ogni caso certe “ideuzze” discendono da un sistema filosofico.

G: Appunto.

L: Appunto CHE? Il fascismo invece era pragmatismo puro?

G: Diciamo così.

L: Allora tu non ti sei mai sentito oppresso a causa del fascismo?

G: No, mai. Mio padre ha continuato a pensare socialista, per esempio. Ti stupirò, ma nessuno glielo ha mai impedito. Io, semmai, mi sono sentito più oppresso sapendo quanti politici ed intellettuali si erano autoesiliati, invece di provare a contrastare la dittatura, visto che la ritenevano tale. Facevano antifascismo in America. Per chi lo facevano? Per gli emigrati? La verità è che sul fascismo ci sono molti luoghi comuni. A noi nessuno impediva di ridere di certe esagerazioni, per esempio. Nessuno, per esempio, ha mai censurato un personaggio come don Gradasso Sbudelloni…

L: Chi?

G: … Era una parodia di Mussolini… mai sentito nominare? Allora l’hanno praticata a te, la censura.

L: Può essere un semplice caso di ignoranza personale.

G: … E la tua ignoranza ti ha mai consentito di sentir nominare un certo Marmittone?

L: Quello di Angoletta?

G: Brava. Antesignano di tutti gli antimilitaristi e i pacifisti del mondo…

L: Forse sarà sfuggito ai censori…

G: E allora un giornale come Il Vittorioso? Poté nascere e prosperare nonostante tutto…

L: Probabilmente lo poté in quanto si allineò disciplinatamente col regime.

G: Questo è vero. Soprattutto ai primi tempi, cioè verso la fine degli anni Trenta, quasi tutte le storie glorificavano il valore degli italiani… Gino e Piero, in Africa orientale convertivano gli indigeni… era una storia di Caprioli…

L: Lo vedi che ho ragione? E quel titolo, poi…

G: Sì, hai ragione, hai ragione, non lo nego. L’editoriale del primo numero, a firma, come i successivi, di un certo Romano (altro nome non casuale, probabilmente era lo stesso Gedda a siglarli)…

L: Gedda chi?

G: Gedda Luigi.

L: Lo specialista di genetica? Quello dell’Azione Cattolica?

G: Ti stupisce?

L: No, semplicemente lo immaginavo impegnato in tutt’altre sedi…

G: Dicevo che un suo editoriale (presumo suo) raccontava di aver visto la foto di un balilla insieme al Duce, che gli aveva suggerito questo pensiero: “Ecco un vittorioso”.

L: Dunque “vittorioso era un altro nome per “balilla”?

G: Se vuoi. Il punto è che, a incoraggiare l’Azione Cattolica in questo sostegno per il fascismo, c’era stata anche la Chiesa. E il papa… Mussolini definito “uomo della Provvidenza”… ”Defensor Fidei”… un altro editoriale di Romano faceva un bilancio esaltante del primo anno di autarchia, insistendo sul concetto di vittoria… Il Vittorioso è un giornalino nato con la benedizione della Madonna di Pompei, Regina delle Vittorie, nell’anno della grande vittoria imperiale d’Italia, ecc. ecc…

L: Parlami un po’ di quella redazione…

G: Io ci sono entrato praticamente a guerra finita… Come sai Il Vittorioso era stata un’iniziativa della Gioventù di Azione Cattolica, ecco perché fu Gedda a dirigerlo per parecchi anni. C’era tanta voglia di fare, di aggregare… e quel motto: “Essere forti, lieti, leali, coraggiosi…” Sul fronte dei disegni, poi c’era soprattutto tanta stanchezza verso gli eroi americani tipo Superman, che giocavano sulla forza e certe volte anche sulla violenza.

L: Ma questa è rimasta una caratteristica degli eroi a fumetto per parecchio tempo…

G: Cosa?

L: L’esibizione della forza, di una certa superiorità fisica straordinaria…

G: Sì, se vuoi…

L: E perché, secondo te?

G: Il Fumetto consente (o consentiva, all’epoca) una maggiore libertà inventiva rispetto al cinema. Senza bisogno di effetti speciali e di trucchi particolarmente costosi si poteva far volare un uomo, trasformarlo in qualunque cosa…

L: Era solo un fatto di mezzi tecnici?

G: Cosa vuoi? I mezzi sono il linguaggio che usiamo. Le cose da dire sono il mezzo che usiamo.

L: Stai citando McLuhan?

G: Forse. Poi però possiamo aggiungere anche il mito della forza americana. E il fumetto moderno viene dall’America. Anche se l’eroe tutto muscoli e poteri non è un’esclusiva degli americani… insomma, stando così le cose, Il Vittorioso aveva cercato di fare qualcosa di nuovo. Comunque, quando ci arrivai io, l’inevitabile allineamento iniziale col regime era bello che esaurito…

L: Aspetta, un passo indietro. Dunque, per tutti gli anni della guerra il giornale sostenne il fascismo?

G: Proprio no. Si passò abbastanza presto a un certo di-stacco, a un certo disimpegno dettato dalla non condivisione per quelle scelte politiche suicide…

L: Che vuoi dire? Come fu possibile, scusa?

G: Per esempio nel primo numero del 1940 (l’anno dell’entrata in guerra) non si accennava per niente alla possibilità di un conflitto… in quegli anni si pubblicavano cineromanzi di storia, di fantascienza, di guerra, di avventura… di tutto un po’.

L: “Cineromanzi”?

G: Sì, all’epoca si diceva così per intendere “storie a fumetti”… comunque la sfida rimase la stessa, fin da subito: pubblicare storie di soli autori italiani. All’inizio fu una scelta di contenuto. Non si ritenevano i fumetti americani adatti ai ragazzi italiani.

L: Poi però si cavalcò la tigre dell’autarchia?

G: Malizia inutile, la tua. Quella scelta che a qualcuno poteva essere apparsa in un primo tempo un anacronismo, un andare contro le mode, diventò un vanto e un punto di forza. Il Vittorioso fu l’unico a trovarsi in regola con le direttive del Minculpop. Non solo. Mentre le altre testate ricevevano un durissimo colpo dal non poter più pubblicare il materiale importato che avevano sempre pubblicato, Il Vittorioso visse la sua stagione d’oro. È nata così (indirettamente proprio grazie al fascismo) la scuola, se così vogliamo chiamarla, del fumetto italiano.

L: È stato così che vi hanno scoperti?

G: Diciamo…

L: Chi erano gli autori collaudati del tuo periodo?

G: Franco Caprioli, Kurt Caesar, Franco Chiletto, Sebastiano Craveri… poi, tra i giovani, Polese, Landolfi, Giovannini…

L: … E altri che preferisci non citare.

G: Ci sono autori da citare, autori da ricordare e altri da dimenticare.

L: Come autori o come amici?

G: Lasciamo perdere.

L: Non sei molto obbiettivo, ammettilo.

G: Non rientra nei miei compiti esserlo.

L: Ora cerca di rispondermi con sincerità. I dirigenti de Il Vittorioso credevano davvero che i fumetti americani non fossero adatti al suo pubblico, o l’Azione Cattolica non aveva mai avuto soldi sufficienti per acquistare i mostri sacri americani?

G: Sono vere entrambe le cose e anche una terza. Non c’erano soldi, non si credeva nel mito americano, ma soprattutto c’erano autori, in casa, che scalpitavano per lavorare. E che sicuramente meritavano attenzione.

L: Tu fosti ufficialmente fra questi a partire da che anno?

G: Appena finita la guerra, come ti dicevo. Però, fin da quando avevo quindici anni avevo incominciato con illustrazioni di novelle e racconti. Quando ne avevo diciannove mi fu affidato il primo cineromanzo, Il Mago da Vinci. Fu pubblicato nel 1947, frequentavo ancora il Liceo. Dopo di allora, non mi presentai più in redazione per chiedere lavoro. Sono sempre stati gli altri a cercarmi.

L: Te ne vanti?

G: Beh, sai… dati i tempi.

L: È un discorso sul quale dovremo tornare .

G: Quando vuoi.

L: Se dovessi commentare oggi quel tuo primo cineromanzo, cosa diresti?

G: Che ci avevo già messo tante cose dentro, anche se non avevo ancora vent’anni e un po’ di conformismo me lo si sarebbe potuto perdonare.

L: Esempio?

G: Non è bello, per un autore, mettersi a elencare le cose che fanno di lui quell’autore e non un altro.

L: Va bene. Allora le elenco io. C’erano le vignette a mezza tinta… una ricerca già maniacale della scenografia… e il tentativo di inventare qualcosa di alternativo rispetto al balloon all’americana… a proposito: che ti avevano fatto gli americani?

G: Niente di speciale. Tranne che ci avevano lanciato “Lachistraik”, cioccolata e gomme da masticare quando erano entrati a Roma, quel giugno del ’45… come ad animali in gabbia.

L: Vi avevano liberato…

G: Dipende da come si legge la storia.

L: Come si deve leggere?

G: Avevamo cacciato i tedeschi, certamente. Ma, i tedeschi noi li avevamo traditi…

L: A te questa cosa non è mai andata giù vero? Io penso che, sotto sotto, tu eri fascista, ammettilo…

G: Perché parli tanto per parlare? Dovresti saperlo che le etichette, le appartenenze, lasciano il tempo che trovano. Ero, e sono, una persona coerente, credo. Non mi piacciono i paroloni, ma, per necessità… diciamo che ero e sono una persona leale, e pretendo dagli altri la medesima lealtà.

L: “Essere forti, lieti, leali, coraggiosi…”, vero?

G: Bah!

L: Per coerenza, per lealtà, secondo te, gli italiani avrebbero dovuto finire di suicidarsi dietro a quel pazzo di Hitler?

G: Non lo so. Non sono uno stratega né uno statista. Forse vi sarebbero stati mille altri modi per smettere di suicidarsi. Senza passare per un popolo di voltafaccia…

L: È vero che il Sud è una categoria del pensiero. Per te conta molto la parola data, evidentemente. C’é, in questo, qualcosa di mafioso, secondo me…

G: Nel senso che chi mantiene la parola è mafioso? La parola data non è un mito dei meridionali, ma delle persone leali. Dei meridionali leali, forse. Ma anche dei settentrionali leali. O no?

L: Perché ti aveva dato tanto fastidio che vi lanciassero sigarette, gomme e cioccolata?

G: Non eravamo animali in gabbia. In gabbia forse sì. Ma animali no. C’era una canzone sfottò che diceva: “Con caramelle e cioccolata, la donna più onesta è conquistata!”… ragazzini e donnette urlavano ed esultavano intorno ai carri armati, alle camionette… un corteo infinito lungo viale delle Milizie, via Andrea Doria, e poi su verso la via Trionfale… tutti si buttavano a terra a raccogliere quelle elemosine… io no, io sono rimasto in piedi. Avevamo fame, sì, ma non fino a quel punto…

L: Mi spezzo ma non mi piego, eh?

G: Se vuoi. Del resto, quegli stessi americani, a San Lorenzo…

L: Cosa?

G: Il bombardamento di Roma, nel luglio del ’43…

L: Nemmeno quella volta scendesti dal rifugio?

G: Scherzi? Salii in terrazza.

L: Inorridisco.

G: Io con Zio Franco. Io avanti e lui dietro.

L: Racconta.

G: Che debbo dirti? La porta della terrazza era aperta… “Andiamo un po’ a vedere che fanno…” (Forti, lieti, leali, coraggiosi…). I bombardieri facevano una specie di ronzio d’api, all’inizio. Ondate di aeroplani per tre, quattro volte, che passavano e se ne andavano… poi iniziarono gli scoppi… BOUUUM BOUUM… quel rumore cupo… e il cielo era tutto nero, in direzione sud. Sentivamo le bombe fischiare… e la contraerea da Monte Mario, vicinissima. BOBOM! BOBOM!

L: Incoscienti. Ce li ho io, i brividi retroattivi.

G: Sì, fu incoscienza, lo ammetto. Ci cadevano vicine certe schegge, pezzi di metallo fuso… finito tutto, la gente raccoglieva per la strada pezzi simili a quelli. Se li tenevano in casa, per ricordo. Bè, lo sai cosa disse Eisenhower in quella occasione? “Stiamo per invadere un paese ricco d’arte, di storia, di cultura. Ma se la distruzione di un bellissimo monumento può significare la salvezza di un solo soldato americano, ebbene si distrugga quel monumento”.

L: Non aveva ragione? Sacrificheresti un monumento a un uomo, anche se americano?

G: Ma che ragione o non ragione? Io non discuto la ragion di stato, la strategia bellica. Dico solo che un Presidente di Stati Uniti non può permettersi di parlare così. Era tutta una follia. Cosa significa “bellissimo monumento”? Che ne capisce uno stronzo presidente ex-cow boy di quell’entità che lui chiama “monumento” e che non trova altro sciatto aggettivo per definire se non “bellissimo”?

L: Per capire il bello non si deve essere americani?

G: Non ho detto questo.

L: Alexander Calder, per esempio, lo conosci?

G: Cosa c’entra? Un ex-ingegnere, figuriamoci… sognava un’arte che riflettesse la matematica… Bah.

L: Perché devi denigrare? Ogni tentativo è degno di rispetto, secondo me.

G: Sì, come no. In questo non c’entra, comunque, l’essere americani oppure no… c’entra il sentire oppure no.

L: Aspetta, torniamo indietro un secondo… torniamo… su quella terrazza… davvero non vi rendevate conto del pericolo?

G: Forse sì, forse no. Per noi era ancora un giocare alla guerra, che ne so io. In un certo senso… uno stare dentro a una vignetta. Forse pensavo che saltando la cornice, mi sarei potuto mettere in salvo…

L: In salvo dalle bombe che cadevano? Insisto… che pensavi?

G: Non c’era tempo per pensare. Se ci rifletto, mi sembra che la nostra generazione non abbia mai pensato, non ne abbia avuto il tempo. Più che altro ha vissuto, ha fatto delle cose…

L: E va bene. Pragmatici per necessità. Vuole dire che la nostra generazione invece ha avuto il tempo di farsi tutte le possibili pippe mentali su questo e su quello?

G: Salti sempre alle conclusioni.

L: Tornando al fare. Tu avevi fatto il Mago da Vinci, dicevamo. Tra l’altro e per inciso… Leonardo non è stato uno dei tuoi grandi amori?

G: Un uomo a trecentosessanta gradi. Certo che lo è stato. Nel Trattato sulla pittura ha dato indicazioni, in anticipo sui tempi, anche a noi fumettari. C’è per esempio, il “Modo di figurare una battaglia”…

L: Aspetta. Dicevamo che in quel cineromanzo esibivi una certa carica innovativa anche se avevi solo diciannove anni. Ma … avrai avuto dei maestri, dei modelli…

G: Te l’ho detto. Leonardo.

L: Uffa.

G: E va bene. Mi piaceva Harold Foster… e poi anche Alex Raymond con il suo Flash Gordon, ovvero, da noi, Gordon Flasce per via di quelle direttive di italianizzare tutto… mi piaceva, dopo, anche Chester Gould, frizzante col suo Dick Tracy e Milton Caniff, che disegnava a chiaroscuri…

L: Ti sei accorto? Mi stai citando solo autori americani…

G: Vuoi prendermi in castagna? È la prova che sono un uomo leale, per l’appunto. Non ce l’ho con gli americani per partito preso. Calder mi sta anche bene, con le sue astrazioni…. Pavese, appena finita la guerra scriveva su L’Unità di un’America appena scoperta dai giovani intellettuali come di un mito… parlava di una America “pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, grave di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente”…. il regime era stato costretto a tollerare tutto questo, scriveva Pavese, “per salvare la faccia”. E così, per questi intellettuali, l’America era diventata un laboratorio dove perseguire un modello di modernità…

L: L’America come un mito di libertà, oltre che di forza?

G: Appunto. Ma forse a me (che debbo dirti…?), forse a me non piaceva essere liberato. Liberato in quel modo.

L: Preferivi il fascio, allora?

G: Te l’ho già detto, non mi sentivo schiavo, tutto qui. Forse non avevo sufficiente coscienza civile… ma non è che non mi sentissi schiavo per simpatia verso le camicie nere. Non mi ci sentivo per il fatto che, forse, non mi ci sarei sentito sotto nessuna dittatura.

L: E allora perché ti dava fastidio la dittatura della moda americana?

G: Perché discendeva da una circostanza storica. Non mi piaceva che esultassero di una nostra sconfitta, prima che militare, umana. Non mi piaceva che mi ricordassero la nostra vergogna, tutto qui. Per il resto, se un qualcosa… se un autore è valido, ed è anche americano, io mi levo tanto di cappello… e il fumetto dell’era moderna, lo sai, gli storici dicono che è nato proprio in America..

L: Sì, col ragazzo giallo. Quell’orrido Yellow Kid. Orrido e irritante con tutto il suo sordido mucchio.

G: Era il gusto di un’epoca, tutto qui. Cucciolo di Disney è stato ripreso di lì.

L: Ora che ci penso…Yellow Kid portava le battute scritte sul camiciotto… è vero?

G: All’inizio sì.

L: Il balloon non c’era… perché allora si dice “balloon all’americana”?

G: Perché alcuni mesi dopo la prima comparsa di Yellow Kid, il suo autore Outcault inventò la nuvoletta. È allora, dicono, che è nato il Fumetto in senso moderno. Di lì in poi, tutti si sono accodati. Gli americani, lo sappiamo, sono speciali appunto nel dettare le mode.

L: Concordo. Anche quelle sgradevoli.

G: Allora la vera antiamericanista sei tu?

L: Attualmente, Reagan non mi aiuta a non esserlo…

G: Sì, potresti aver ragione…

L: Dunque, ricapitolando. All’epoca guardavi Raymond, Foster, Caniff, Gould…

G: … Un momento. Contemporaneamente guardavo anche ai grandi maestri della pittura e dell’incisione. Villard, De Honnecourt, Coriolano, Dürer, Shongauer… guardavo mostre, libri, ma, soprattutto, guardavo la realtà… la scuola, in questo, mi stava fornendo strumenti formidabili…

L: Già. La scuola. Come mai mentre usciva Il Mago da Vinci, frequentavi ancora il Liceo?

G: Ne stavo uscendo. Il punto è che non mi ci ero iscritto subito dopo le medie. Avevo perso un paio d’anni a Guidonia, dove avrei dovuto diventare ingegnere aeronautico…

L: E poi invece?

G: E poi, invece, il Disegno.

L: Non gli hai più potuto resistere?

G: Diciamo. O forse è il Disegno che, da un certo punto in poi, non ha più potuto resistermi.

L: Paradossi…

G: Al Liceo ho imparato tanto. Anzi, tantissimo. Studiavamo anatomia, storia dell’arte, ornato… mi si sono aperti universi…

L: Quella famosa cartellina davanti alla quale ti compiangevi (e non ho ancora capito bene il perché)… cosa contiene? Materiale di quegli anni?

G: Soprattutto… per esempio i primi schizzi dal vero, gli appunti dalle lezioni di De Libero…

L: Il poeta…

G: Fu il mio professore di storia dell’arte. Con quel nome che era tutto un programma.

L: Ti piaceva perché si chiamava Libero de Libero o perché era un buon professore?

G: Forse era diventato un buon professore perché si chiamava Libero de libero, chissà…

L: Chi insegna deve per forza essere libero?

G: Da condizionamenti e pregiudizi, sì.

L: Lui lo era?

G: Lo era.

L: Tu lo sei?

G: Non farmi certe domande provocatorie.

L: Rispondimi. Intendo provocarti.

G: Nei limiti in cui un uomo sulla faccia della terra può esserlo, sì credo di esserlo. Anche se, sono convinto, il più delle volte non è la libertà che manca, ma gli uomini liberi.

L: Tornando al tuo professore. Lo era.

G: Ed era anche timidissimo. Dalla somma delle due cose veniva fuori una persona squisita, un maestro eccellente. Senti cosa scriveva…

L: Cos’è?

G: Una sua raccolta di poesie… Di brace in brace…

L: Ah.

– “Non tu e sono io a sfogliare come album

di gioventù le cose a meraviglia

state di noi, ciascuna il nome serba

d’un momento, di gloria e di perdono,

rimane a ciascuna il divieto d’un rito,

l’insegna pietosa o rimorso felice.

A me e non a te ricorrono crudeli

appelli di cose sotto la polvere,

svanite ascoltano tarli che scrivono

e scrivono e scrivono le nostre memorie”

L: De Libero cosa ti ha insegnato?

G: Mi ha insegnato, per esempio, la potenza di Michelangelo. Nel senso che me l’ha mostrata. La sfrontatezza di Braque, di Picasso, dei fauves… l’economia delle forme in Raffaello, la rivoluzione della prospettiva in Giotto… mi ha insegnato a guardare, appunto, con libertà.

L: È un insegnamento che metti tutt’ora in pratica?

G: Quotidianamente. E non è facile. Date le forzature, i condizionamenti…

L: C’entra la pratica del senso critico?

G: Anche.

L: Poi, in quella famosa cartellina, cos’altro c’era?

G: Ritratti di compagni di scuola, schizzi di monumenti…

L: Non potresti tirarla fuori…?

G: Adesso?

L: Dai… […] questi sono i tuoi compagni? Perché ci sono le loro firme su opere tue?

G: Usava così. Ci ritraevamo a vicenda e, poi, quello che era stato ritratto firmava l’opera del compagno, approvandone o no il risultato, dando un parere… da collega a collega.

L: … “Bravo De Luca”. “Complimenti”,,, “Io non sono così bello”. Tutti ti lodavano, a quanto pare…

G: Ero fra i migliori.

L: Dovevo saperlo anche senza che me lo dicessi.

G: L’ho detto senza polemica. Perché devi fare polemica tu?

L: Il ritratto ti piaceva?

G: L’essere umano mi piaceva…

L: Questi qui sono i professori?

G: Ecco De Libero…

L: Bello. Sembra Andrea Checchi giovane.

G: È possibile che il cinema mi abbia influenzato.

L: Binto Marisa sembra Aletha, la sposa del principe Valiant… oppure Alida Valli, sono indecisa. Ti piaceva?

G: Bah. Pensa che tra le mie compagne c’era perfino la Lollobrigida…

L: Questo è Micozzi? Sembra Franco Interlenghi in Sciuscià. Portavate le stesse magliette a righe…

G: Probabile.

L: Ti stai commuovendo?

G: Bah.

L: Che altro portavate? Come vi vestivate, come vi divertivate, come passavi il tempo, appena finita la guerra?

G: Che debbo dirti? Portavamo abiti riadattati, chissà da dove venivano… mi ricordo certe giacche spinate con i baveri e la martingala… pantaloni alla zuava… cappotti lunghi fino ai piedi… certi si mettevano pure giubbotti dell’esercito americano (io mai), oppure maglioni alla sciatora con la chiusura lampo fino al petto… a casa c’erano macchine da cucire a manovella… tessuti di “prima della guerra”, si diceva… certi li avevano riposti in baule…

L: E i divertimenti? Avevi pure vent’anni…

G: Mah… c’era il cinema, appunto… anche lì un’invasione di roba americana… le foto delle dive sui giornali… Veronica Lake, Shirley Temple, Jane Russel, Barbara Hale. E poi la radio…

L: La radio…

G: Sì… noi avevamo di quegli apparecchi inamovibili… ci avevamo sentito Radio Londra. Stavamo per ore a muovere la manopola, a evitare i borbottii, i sibili, le scariche provenienti da quelle stazioni lontane… l’apparecchio si scaldava subito… e faceva quell’odore di pentola bruciata… c’erano le grandi orchestre… Angelini, Barzizza… poi Gorni Kramer che non mi piaceva perché faceva il verso agli americani… e poi Oscar Carboni, Ernesto Bonino, Rabagliati…

L: Dai tuoi ritratti di quest’epoca così… romantica, esce fuori la tua enorme attenzione al vero. È rimasta una costante…

G: La realtà la guardavo continuamente, te l’ho detto. È stata la mia prima e migliore scuola. Te l’ho detto che in casa, già da bambino, ritraevo i miei… era un’esigenza naturale, per capire, per imparare, per fare qualcosa… ma poi rifacevo un po’ tutto quello che mi capitava.

L: Aspetta un po’: questi cosa sono?

G: Pubblicazioni dell’epoca. Il romanzo mensile. Lo comperavo per via delle copertine, di Walter Molino. Imparavo molto anche da lì.

L: La scuola oltre la scuola, dunque… Molino non firmava anche le copertine de La Domenica del Corriere?

G: Brava.

L: Mi viene un dubbio: dunque nelle cartelline di un Micozzi o di un Anichini, potrebbero trovarsi ritratti di te fatti da loro, con i tuoi commenti di allora…?

G: Forse.

L: Mi piacerebbe curiosare anche lì. Vedere come ti vedevano gli altri. A quell’epoca. Chissà che marziano che eri. […] E queste foto?

G: Ultimo giorno di scuola. Un pranzo all’aperto. Con i professori.

L: Eccoti qua. Com’eri severo… ti sentivi qualcuno per il fatto che già lavoravi?

G: No, io non mi sentivo nessuno. Mi sentivo io.

L: Questi sono gli appunti di anatomia…? Sembrano di uno studente di medicina…

G: Mi piace andare a fondo delle cose. Leonardo faceva lo stesso. Cinque secoli prima di me. E poi Hogarth, scusa tanto?…

L: Chi?

G: Burne Hogarth, l’autore di Tarzan, insieme a Foster. Conosceva talmente bene il corpo umano da poter insegnare anatomia all’Università.

L: … Deltoide, parietale destro, parietale sinistro, sternocleidomastoideo… in effetti non si può dire che il corpo umano non lo abbia studiato… e questi?

G: Monumenti. Ancora studi dal vero.

L: Santa Maria in Cosmedin… San Pietro in Vincoli… le statue del Foro Italico…

G: Al Foro Italico ci andavamo la domenica mattina. Facevamo le passeggiate con mio fratello, le sorelle piccole… intorno erano tutti prati, mica come adesso… a Piazzale Clodio c’era una giostra…

L: Torniamo alla scuola della realtà.

G: La scuola più economica, la più accessibile. Basta avere un foglio e una matita. O anche meno, come ti ho già detto. Io mi guardavo continuamente intorno, ma guardavo anche me stesso, se è per questo. Ad esempio: dovevo disegnare delle mani e non mi venivano? Guardavo le mie. Ho disegnato, per prova, centinaia, migliaia di mani.

L: Lo so. Molti tuoi personaggi hanno mani molto espressive, hanno le tue mani.

G: Io ho continuato ad andare a scuola di realtà tutta la vita. È una scuola che non finisce mai. Pure adesso la frequento.

L: Ne sono sicura.

G: Al giardino zoologico ho ritratto decine e decine di leoni, di zebre, di gazzelle…

L: Fratellanza da animali in gabbia?

G: Già.

L: Però, scusa. Io non ho mai capito quelli che ritraggono animali. Un animale non è sempre uguale a un altro animale della stessa specie?

G: Lo dici tu. E dici una bestemmia. Niente, in nessun angolo della terra e dell’universo, è mai uguale a quello che succede un attimo prima. Neppure sulla superficie di un sasso…

L: Ma ritrarre un animale è difficilissimo, a meno che non dorma. E allora potresti benissimo ritrarlo in fotografia…

G: Cosa dici? Se è proprio quella la sfida? Ritrarre l’animale, catturarne l’essenziale (del suo essere precisamente quell’animale e non un altro), proprio nella frazione di secondo che è fermo o quasi. È scuola di sintesi e di rapidità di esecuzione. Altro espediente che ho praticato a lungo: inguattarmi in un portone e ritrarre le persone che mi passavano davanti, facendomi bastare quella frazione di attimo in cui passavano.

L: Ma questo è impossibile!

G: Era, di nuovo, la mia personale sfida. I miei “esercizi da pianista”. L’ho fatto centinaia di volte costringendomi a individuare in ciascuno di quei passanti una tipologia, una caratteristica, un particolare attraverso il quale poterlo raccontare, in quei pochi secondi che avevo a disposizione.

L: È per questo che i tuoi personaggi sono sempre così ben caratterizzati?

G: Se lo sono, lo sono, se permetti, anche in pochissimi segni.

L: Non ne hai mai disegnato uno uguale a un altro, in effetti…

G: Ma si capisce: è nella realtà stessa che non esiste una persona assolutamente uguale a un’altra. Perfino i gemelli siamesi hanno impronte digitali diverse… Kokoschka procedeva così. Lui le chiamava “immagini della memoria”. Cercava di catturare il modello in movimento.

L: Ma chissà se riusciva a rivelarne l’essenza…

G: Sei sicura che le persone abbiano un’essenza?

L: Se sì, è compito dell’artista individuarla.

G: Lo sai che anche i cinesi, maniaci della pennellata, miravano all’acquisto di una tale disinvoltura nell’uso del pennello ad inchiostro, da poter registrare l’immagine istantaneamente allo stesso modo in cui certi poeti scrivono di getto i loro versi?

L: Scrittura e pittura cinesi hanno poco in comune, fra di loro…

G: Ti pare poco? Ogni linea che compone un ideogramma deve essere pervasa di eleganza. Sarebbero dei cartoonist eccellenti, con un po’ più di libertà. Certo, i cartoonist avrebbero molto da imparare, in fatto di maestria e di sintesi, dagli ideogrammi cinesi…

L: A proposito di libertà. Mi viene un altro dubbio: tu dici di esercitarla nei limiti consentiti sulla terra. Ma il rifarsi alla realtà non è una limitazione?

G: Di cosa?

L: Per esempio della fantasia.

G: Hai proprio deciso di dire idiozie… posso liberare la fantasia (liberarmi della realtà) fintanto che della realtà mi sono impadronito alla perfezione. Se no di cosa mi libero? Verso cosa la indirizzo, questa fantasia?

L: Questo discorso ha qualcosa a che vedere con la tecnica, vero?

G: Precisamente.

L: Una delle tue ossessioni.

G: Se vuoi.

L: A proposito di tecnica, ho qualcosa da chiederti sull’Università. Perché non sei mai arrivato alla laurea?

G: Mi ero iscritto ad architettura. Non è che pensassi di costruire case… Era uno sbocco naturale ai miei interessi, dato il mestiere che già facevo. Uno dei corsi era tenuto dal noto architetto Del Debbio, tra i fautori della Triennale di Milano… Successe…

L: Cosa?

G: … Per sostenere gli esami con lui, bisognava andar dotati di quanti più progettini, ex-tempore, rilievi, ecc., si potesse. A un colloquio, riversai sul tavolo quello che avevo fatto in un anno. E per me era molto, ma non per lui. Mi annullò tutto, coprendo di segnacci a penna tutti i fogli perché non li potessi riutilizzare alla sessione successiva, alla quale mi rimandò dicendomi: “Vai, vai. Ci rivedremo la prossima volta!”

L: Naturalmente non ci fu una prossima volta…

G: Esatto. Indignatissimo, lasciai la facoltà. Anche perché altri fogli sui quali nel frattempo disegnavo, invece di essermi scarabocchiati, mi venivano pagati.

L: E fu allora che cominciasti le tue regolari collaborazioni con Il Vittorioso…

G: Di quell’epoca ho ricordi precisi. Si voltava pagina. L’Italia era piena di problemi, lo sai. La borsa nera, i reduci, le macerie, gli analfabeti… noi, forse, con le nostre storie, abbiamo contribuito a far sognare i ragazzini e anche gli adulti. A farli sentire migliori.

L: Hai detto che il cinema, forse, ti aveva influenzato.

G: I suoi cartellonisti, senz’altro. Sergio Tofano, per esempio… Giove Toppi… il cinema in sé però aveva ed ha qualcosa che non mi convince, il suo essere così legato alle mode del momento.

L: Il suo essere documento di un’epoca?

G: Forse…

L: Questo tuo discorso non l’ho mai capito molto bene. Hai verso il cinema un misto di diffidenza, di rancore e di ammirazione. A certi capolavori, per esempio neorealisti, ti inchini pure tu.

G: Il neorealismo, se proprio lo vuoi sapere, eravamo noi. Io, coi miei compagni di quartiere… io ci stavo dentro un film di De Sica. De Sica ha guardato noi e ci ha ritratti, in film come Ladri di biciclette o Sciuscià. Ma, a parte questo, il neorealismo è un esempio di quel limite di cui parlavo. Eccellente, lo riconosco, ma è un esempio di limite.

L: In che senso?

G: Nel senso che vale come documento di quell’epoca. Efficacissimo e commovente quanto vuoi, ma proprio in quanto legato a quell’epoca. Era dello stesso parere anche Cocteau, comunque. A proposito… sapevi che anche il grande Zavattini “si è macchiato della colpa” di scrivere storie a fumetti?

L: Sapevo che si era interessato di Fumetto, non che avesse scritto delle storie…

G: Per forza non lo sapevi. Non si firmava. E soprattutto non portava in Fumetto i temi del momento come invece aveva osato fare in cinema. Ha sempre preferito rimanere nello standard delle storie disegnate come sinonimo di avventura, fantascienza, insomma… evasione. Probabilmente si vergognava di questa attività parallela, chi lo sa… non ritenendola degna di affrontare gli stessi temi che in quegli anni si affrontavano con la cinepresa.

L: Secondo me sono illazioni tue… mi risulta che sia stato animatore abbastanza instancabile del Fumetto, se è vero, come è vero, che nella seconda metà degli anni sessanta lavorò per i periodici Mondadori, che quanto a fumetti, mi pare, andassero forte. Io però vorrei tornare sulla tua diffidenza per il cinema… non so, la trovo sospetta…

G: Ne ho parlato una volta con lo stesso De Sica. Stava girando per l’appunto Ladri di biciclette sul Lungo-tevere, la scena in cui il protagonista teme che il figlio sia caduto nel fiume. Io passavo per di là, andavo a incontrar tua madre, pensa un po’… mi ferma e mi chiede se per caso potevo mettermi a urlare insieme a un gruppetto d’altra gente, a simulare le grida delle persone che accorrevano sul posto.

L: Sicché in Ladri di biciclette c’è anche un tuo apporto?

G: La mia voce. Un orecchio fino potrebbe distinguerla, forse.

L: La tua voce del 1948, figuriamoci. E fu in quell’occasione che parlasti con De Sica?

G: Prendemmo una bibita, scambiammo due battute. Io ero uno sbarbatello, lui un uomo già maturo. Venne fuori questa cosa dell’estemporaneità del prodotto cinematografico…

L: Di estemporaneità hai parlato anche a proposito del Fumetto, poco fa…

G: Intesa come immediatezza. Attiene alla sua formula di espressione però, non all’opera compiuta. Il cinema resta estemporaneo anche quando il film è confezionato. Anzi, soprattutto. È questo che non mi va giù. Ti ripeto: il neorealismo ha fatto eccellenti documenti d’epoca, che però… hanno il sapore di quell’epoca!

L: Anche gli affreschi di Giotto hanno il sapore della loro epoca! E non credo che il Fumetto si possa sottrarre.

G: Io invece credo di sì. Il Fumetto è solo linea. E non c’è niente di più intellettuale della linea, ricordatelo. La linea degli ideogrammi cinesi, la linea di Leonardo…

L: È una rivalutazione dagli esiti, oggi, assai improbabili. Se pensi che fino a pochi anni fa “fumetto” era bieco sinonimo di “fotoromanzo” . E che “fotoromanzo” era e rimane altrettanto bieco sinonimo di “melodramma”.

G: Questo è tutto un altro discorso. È il destino dei generi minori. Essere presi sempre per pattume. Essere oggetto di ironia. Un atteggiamento che, del resto, non ha risparmiato neppure l’arte cosiddetta ufficiale. Gli impressionisti non vennero definiti tali in senso ironico? E i fauves? (Bestie!) E i cubisti? Quando invece, a un occhio attento…

L: A un occhio attento, cosa?

G: Il Fumetto potrebbe rivelarsi, in mano a veri Autori e al di là delle logiche riproduttive, sintesi di immagine e parola a beneficio di una beneducata traduzione visiva della realtà.

L: Che intendi con “beneducata”?

G: Educata al bene, ovvero al bello. È questo che certi editori non vogliono digerire. Perché pensano solo al guadagno.

L: Li biasimeresti?

G: Sì. Perché una politica editoriale che si rispetti è quella che riuscendo a vendere, educa. Vedi, il Fumetto nasce con questa contraddizione addosso. È espressione tipica della cultura di massa, e lo è nel bene e nel male. Da un lato esprime la voglia e la capacità della gente (di tutta la gente) di impossessarsi di questa cultura. Dall’altro, e proprio per questo, è industria, profitto, sottomissione bieca alle leggi di mercato. Perché credi che Piero Manzoni offrisse alle mostre uova sode? Perché aveva intuito solo una metà del di-scorso e se ne scandalizzava. Lui, proprio lui. Più ottocentesco degli uomini dell’Ottocento.

L: Invece bisogna rassegnarsi alla mercificazione?

G: Non c’è da rassegnarsi, secondo me, questo è l’errore. La rassegnazione implica una negatività, un evento luttuoso, qualcosa che, al fondo, non si vuole accettare. Invece questo è solamente lo stato delle cose e va riconosciuto, tutto qui. Perché credi che Braccio di Ferro fosse patito di spinaci?

L: Perché i suoi autori dovevano pubblicizzarli…

G: Per una ragione ancora più subdola: in America l’industria della verdura voleva stroncare i mercati rionali.

L: Un’ultima cosa, per oggi: è perché vuoi sfuggire all’evanescenza delle mode e alle leggi del mercato che il tuo segno è sempre così essenziale?

G: Anche per quello. Anche se io so che alle mode e al mercato non si sfugge e credevo di essere stato chiaro. Tuttavia cerco di essere essenziale soprattutto perché una linea semplice infastidisce meno l’occhio. E di conseguenza il cervello (E io sono tra quelli che tendono a soddisfare le attese, ricordatelo).

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