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Il vizio formale di farsi un giro in paradiso

Paul Thomas Anderson e Thomas Pynchon è un match made in heaven. Anzi, Paul Thomas Anderson e il romanzo Vizio di forma è un match made in heaven. Il fatto che sembri una cosa così naturale è il primo grande indizio su quanto questo film sia riuscito.

Perché sì, a prima vista, se c’era qualcuno che poteva portare al cinema Vizio di Forma, quello era Anderson: c’è la California, già ambientazione di quasi tutti i suoi film; c’è un preciso periodo storico – l’inizio degli anni Settanta e il principio della fine della cultura hippy, quando «i sandali, lo slip di bikini a fiori e la maglietta stinta di Country Joe & the Fish» lasciano il posto a uno stile da terraferma – che permette ad Anderson di scatenare l’archeologo culturale nascosto in lui; c’è un cast corale; c’è la progressiva scomparsa del confine fra il reale e il surreale.

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Però, fra il dire e il fare, c’era di mezzo il compito di adattare in un film un romanzo di uno scrittore di cui si fa persino fatica a riassumere le trame dei libri (“sì, vedi, c’è questo soldato durante la Seconda Guerra Mondiale che ha delle erezioni che gli indicano dove cadranno i razzi V2”). Eppure, missione compiuta: il film è un adattamento nel senso più positivo del termine. Non è una mera trasposizione, ma non è neanche una re-interpretazione che tiene il libro come base sviluppandosi in maniera personale (la prima possibilità di solito produce schifezze e forse la conoscete con l’altro suo nome, “sceneggiato Rai diretto da Cinzia TH Torrini”; la seconda ci ha regalato cose come Apocalypse Now ma anche Jay Gatsby che balla le canzoni di will.i.am).

È un’opera propriamente ripensata per il cinema, in cui non si perdono le peculiarità pynchoniane – primo fra tutti il suo umorismo, come dimostra la targa simil-Auschwitz che compare all’ingresso del centro Chryskylodon e che recita ‘Straight is hip’, o anche i brevi lampi di pastiche rappresentati dagli spot e dalle comparsate televisive di Bigfoot – ma contestualmente si percepisce in maniera netta il tocco di Anderson, da una colonna sonora capace di giocarsela con quella magnifica di Boogie Nights alla presenza dei suoi classici piano-sequenza (struggente quello iniziale, quando Doc si crogiola negli ultimi istanti prima di salutare Shasta, «il correlato oggettivo di ogni scena in cui nella nostra vita abbiamo salutato una ex fidanzata della quale siamo ancora innamorati», nelle parole di Christian Raimo), passando per un cast pressoché perfetto.

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È proprio il cast infatti il primo passo di questo successo. Il sodalizio PT Anderson-Joaquin Phoenix, dopo The Master, è rinnovato con successo. Il ‘Doc’ Sportello di Phoenix è pulcioso e un (bel) po’ cazzone, sempre in bilico fra il Drugo dei fratelli Coen e Philip Marlowe (detective privato portato su schermo proprio dal padre cinematografico di Anderson, Robert Altman). La Shasta di Katherine Waterstone è un fantasma sexy che aleggia per tutto il film, ma il vero re della scena è Christian ‘Bigfoot’ Bjornsen, il “poliziotto rinascimentale” interpretato da Josh Brolin.

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Ecco, parliamo di Josh Brolin. Brolin ha sempre avuto un grosso problema, è nato con la faccia con cui è nato: fronte alta, lineamenti duri, mascella squadrata, occhi tagliati e sottili. Una faccia molto classica. Fa parte di una trinità assieme a Mark Whalberg e Matt Damon di attori bravi (chi più, chi meno) che hanno partecipato a un sacco di film importanti, spesso anche con ruoli di primo piano, ma la cui aura di normalità ne ha sempre limitato l’impatto sul pubblico. “Ah già che c’era anche lui in quel film”. Se doveste spendere l’aggettivo ‘indimenticabile’ per un’interpretazione in Non è un paese per vecchi, lo spendereste per Brolin o per Javier Bardem? È più indimenticabile il Micky Ward di Whalberg o il Dicky Eklund di Christian Bale? Pure a coppie: in The Departed, sono indimenticabili Leonardo Di Caprio e Jack Nicholson o Matt Damon e Mark Whalberg (sebbene ‘maybe, maybe no, maybe fuck yourself’ sia una delle migliori battute di sempre)?

Con il suo Bigfoot, Brolin potrebbe finalmente aver portato a casa il premio di miglior personaggio e miglior interpretazione in un film. La maniera in cui pratica una fellatio a un gelato alla banana, le apparizioni televisive, l’ordinazione dei pancake in giapponese al ristorante, le battute come «più di una volta sono stato definito dal Los Angeles Times un detective rinascimentale» e gli scambi con la moglie e il figlio sono fra le scene più memorabili del film.

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Va bene, siamo a oltre 4500 battute (di cui quasi 2000 solo per parlare di Josh Brolin) e nemmeno vi ho detto di cosa parla il film: ecco, il film non parla di niente. O perlomeno questo è quello che devono aver pensato i signori Premi Oscar 2015 quando è arrivato il momento di decidere le candidature.

A parte due misere nomination nelle categorie Migliori costumi e Migliore sceneggiatura non originale – in cui comunque meritava di vincere e ha invece discutibilmente perso a favore di The Imitation Game – per il resto il film è stato ampiamente trascurato. Ora, la bellezza dei film non la fanno i premi. Però ragionare sul perché questo film sia passato tutto sommato inosservato può aiutarvi a capire se volete andare a vederlo al cinema o no.

Il motivo principalmente è che Vizio di forma è un film falsamente complesso e facilmente fraintendibile come un grosso montaggio di situazioni ironiche. Sostanzialmente è un affastellamento di misteri lungo due ore e mezza. È un noir in cui sono i fatti a trovare l’investigatore Doc Sportello, piuttosto che il contrario, e in cui la percezione è quella che non esistano mai reali svolte o punti di rottura, quanto piuttosto un flusso ininterrotto fino alla deludente risoluzione dei vari casi in cui è rimasto invischiato Sportello (sono talmente tanti che si perde il conto: dov’è finito Mickey Wolfmann, il nuovo amante dell’ex fidanzata di Doc? Chi ha ucciso Glen Charlock? Dov’è Coy Harlingen? Cos’è la Golden Fang?).

È anche un bombardamento di informazioni, visive (il succitato cartello auschwitziano, le cravatte porno, la lavagnetta nel centro massaggi) e non (ogni frase è un potenziale indizio per  la risoluzione dei casi, ogni nome, in classico stile pynchoniano, racchiude il destino del personaggio), ed è pieno di serissimi momenti comici, privi della consolatoria ironia che ti permette di riderne senza rimorso (la scena ambientata nel quartier generale della Golden Fang col triangolo fra Japonica, il Dr. Blatnoyd e la sua segretaria sembra essere un pezzo di un film di Jack Horner).

Verso la fine, così come in The Master, non si distingue nemmeno più fra quello che è reale e quello che non lo è, e usciti dal cinema si potrebbe avere difficoltà a stabilire se quella a cui abbiamo appena assistito è stata una gigantesca farsa, una detective fiction complessa o una brillante commedia e se, in fondo, non siete appena stati presi per il culo e il film in realtà parodiava voi e le vostre serissime vite ridicole. Che è pressappoco quello che succede ogni volta che finite di leggere un libro di Pynchon.

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