Scott McCloud: “con Lo Scultore ho voluto creare la minore distanza possibile tra me e il lettore”

Scott McCloud è una delle voci più influenti e autorevoli del fumetto internazionale. I suoi manuali a fumetti sul fumetto (ricordiamo su tutti Capire il fumetto – l’arte invisibile) sono pietre miliari dell’analisi e della comprensione del medium. Nel 2008 Google lo ha scelto per spiegare al mondo nuovo browser Chrome, a testimonianza della sua assoluta padronanza del mezzo comunicativo. Ora, Bao Publishing ha pubblicato il suo graphic novel Lo Scultore, opera notevole per mole e ambizione. La presentazione romana del volume è stata l’occasione per conversare con uno dei massimi esperti mondiali di fumetto.

Quando lo incontriamo nel suo albergo, lo ringraziamo per il suo contributo critico e dichiariamo il nostro debito di gratitudine. Lui si schermisce, ricordando che quando incontrò Moebius per esprimergli tutta la sua stima e la riconoscenza per essere stato una delle sue più grandi influenze, l’autore francese scoppiò a ridere dicendogli: «Mi dispiace!».

LOSCULTORE mccloud Bao

Ecco come ha risposto alle nostre domande (per le quali ringraziamo Valentina Griner della preziosa consulenza). Un’ampia anteprima del libro si può leggere qui.

Hai già spiegato molte volte qual è il tuo metodo di lavoro. Realizzi il layout a matita e poi completi l’opera in digitale. In questo caso hai scelto dei personaggi molto iconici, un segno immediato, semplice. Tecnicamente come sei giunto a questa sintesi?

La mia scelta stilistica ne Lo Scultore è molto affine al mio metodo di lavoro in generale. Ho in primo luogo pulito lo spazio che separava me dal mio lavoro e poi quello che separava il lettore dal mio lavoro. In altre parole, ho voluto creare la minore distanza possibile tra me e il lettore, dunque conseguentemente tra me e il mio lavoro.

Ho trovato il mio metodo di lavoro lavorando in digitale con una Cintiq, potendo disegnare direttamente sullo schermo, avendo un set completo di azioni e metodi costantemente sotto mano. In questo modo avevo il risultato del mio lavoro sempre sotto gli occhi, senza dover interrompere per guardare altrove, per cercare strumenti. In questo modo, undici ore al giorno, sette giorni su sette, tutto ciò che facevo è stato guardare i miei disegni. Questa è stata una rivelazione per me, davvero un modo meraviglioso di lavorare, infatti, anche dopo undici ore di lavoro non mi sentivo stanco. Questo ritmo di lavoro è andato avanti per cinque anni.

C’era poi, come detto, la questione del rapporto tra il lettore e la storia. Anche qui ho voluto assottigliare il più possibile la barriera. Molti autori scelgono uno stile denso, in modo che aprendo le pagine puoi distintamente vedere la mano dell’artista nelle linee, nelle forme e nei colori. Puoi vedere lo stile dell’artista, puoi percepire la voce dell’autore. Solo dopo vedi effettivamente i disegni. Questo è un nobile metodo di lavoro, non ho nulla contro di esso, anzi lo ritengo uno degli aspetti più affascinanti del realizzare fumetti. Ma c’è anche un altro modo di raccontare storie, quello cioé di rimuovere l’autore…

Un tipico concetto orientale, non a caso in passato hai dichiarato il tuo debito nei confronti dei grandi giapponesi come Osamu Tezuka…

Certamente. Ciò è vero in parte anche per i manga, perché questo approccio aiuta a raccontare l’immediatezza, il presente. Ci dona l’impressione che tutto ciò che vedi nella pagina sia esattamente ciò che va narrato, il racconto esaurisce tutto quello che il lettore deve sapere.

Ho voluto che il lettore vedesse nella pagina personaggi, ombre, case, automobili, non disegni. È per questo che i disegni hanno una forma diretta e semplice. L’intenzione è quella, ripeto, di accorciare le distanze tra me e il lettore, tra il lettore e la storia. Io sono lì accanto al lettore, raccontando la storia davanti al camino acceso. E tutto ciò che esiste è solo la storia.

Tu sei uno dei più grandi esperti e teorici del medium fumetto nel mondo…

Ti ringrazio.

La tua storia però è fondata su profonde emozioni. Come hai conciliato la tua conoscenza analitica e razionale del medium con la grande empatia umana che il libro esprime?

La mia prima regola nello scrivere la storia e realizzare il layout è stata quella di dimenticare la teoria, di bandire ogni riflessione, di non pensare né alla tecnica, né alla composizione o allo spazio bianco o alla transizione o all’iconografia… ho deciso solo di sfogare il mio istinto per raccontare la storia, nella maniera più semplice possibile. E l’ho fatto per cinquecento pagine, la prima bozza, impiegando circa un anno. Ma poi quando l’ho finita… (ride), beh, è stato il momento di vedere cosa c’era che non funzionava e soprattutto come poterlo aggiustare.

Dunque, per l’anno successivo tutte la conoscenza tecnica è riaffiorata prepotentemente, per diagnosticare quali erano i punti deboli. Sempre, comunque, mi sono posto dal punto di vista di un lettore, perché a quel livello di lavorazione era già “leggibile”, aveva i balloon con il testo per intenderci. Quindi, ho potuto rileggerlo e valutare volta per volta: “Questa parte sembra falsa?”, “Questa parte è troppo confusa?”, “Quest’altra, invece, è incompiuta?”. Ho quindi potuto porre a me stesso questi interrogativi, cercando da autore il motivo di ogni risposta. In questo modo ho potuto comprendere esattamente come aggiustare la storia, il mio lato razionale ha preso il sopravvento.

Il teorico, l’artista razionale, analitico hanno preso in mano la storia e con tutti gli strumenti del mestiere l’hanno scomposta e ricomposta. Complessivamente, ho realizzato quattro versioni del layout, in due anni di lavoro, prima di dichiarare finita una singola vignetta. A quel punto, ho nuovamente messo da parte gli strumenti razionali, gli ho seppelliti perché non volevo che si vedesse la tecnica! E ora, se ho fatto il mio lavoro, tu apri il libro, sgrani gli occhi e ti perdi nella storia, senza vedere alcuna tecnica.

Del resto, la più alta forma di tecnica è fare in modo che la tecnica non si veda.
Senza rovinare la sorpresa al lettore, volevo chiederti se nell’opera è presente un omaggio al grande scultore Henry Moore, che viene citato dal protagonista in un dialogo, facendo una gaffe con un critico, eppure nel finale (che non riveliamo) mi è sembrato ci fosse una citazione da alcune sue celebri opere, sbaglio?

Ho capito a cosa ti riferisci! Effettivamente, ora che mi ci fai pensare ricorda Henry Moore! Sinceramente, non ci avevo pensato, ma forse inconsciamente qualcosa in effetti è davvero affiorato (ride)!

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Però la partita di scacchi con la morte è una citazione da Ingmar Bergman…

Ah, assolutamente, quello è tratta da Il Settimo Sigillo, chiaramente.

Diciamo che avrei colto al volo qualsiasi occasione per inserire gli scacchi in una storia a fumetti (ride). Non è la prima volta che lo faccio, gli scacchi sono una mia grande passione. In effetti, sono un po’ arrabbiato con Bergman, perché nel film il livello del gioco è molto basso (ride)!

Nei miei fumetti ho sempre provato a ricreare una partita plausibile.

C’è un elemento faustiano nella storia: David riesce a plasmare la realtà, ma non ha il controllo sul suo destino…

L’idea della partita a scacchi nella storia chiaramente rappresenta il gioco tra Vita e Morte. Ovviamente, è un inganno, perché noi non possiamo giocare alla pari. Alla fine dell’affare stipulato, comunque noi moriremo. La Morte ha le fattezze di Henry, prozio di David, un vero e proprio essere umano. La Morte non gioca a scacchi, ma Henry si. Appunto, è solo un gioco, ma noi cadiamo nella trappola, nell’illusione che possiamo effettivamente giocare e vincere il nostro destino. Da questa consapevolezza sorge appunto il desiderio di trascendere la morte attraverso l’arte, che ci eterna nel ricordo, nel lascito dell’opera. Ma anch’essa, poiché moriremo, è un’idea effimera. Eppure un eroe che lotta contro questa effimera futilità è molto vicino al cuore del significato dell’arte. Anche se David non è un grande artista, ha la passione che lo rende vicino all’essenza dell’arte: poiché l’arte in sé, e questa è per mela sua essenza e il suo valore, è inutile. Se ha una funzionalità, se serve il potere, ai soldi, non è arte. Ma è la gloriosa inutilità dell’arte che le conferisce la bellezza.

Un intellettuale italiano, Giovanni Casoli, con un illuminante gioco di parole, scrisse: «La poesia non serve. Perché è una Regina».

(ride) Esattamente.

Al termine del libro confessi l’ ispirazione biografica della storia. Quanto di te c’è in David?

Ti sorprenderò, rispondendo con un numero: c’è circa il 30% di me in David. Ma credo che il personaggio di Meg, di cui lui si innamora, è al 70% mia moglie. Quindi, c’è più di lei che di me nel libro. D’altro canto, però, come avrei potuto scrivere la storia di un giovane artista senza la memoria di come ero io da giovane artista? Anche in questo caso, ci sono aspetti della storia di David e Meg di cui forse non ero cosciente, ma che sono profondamente autobiografici. Il modo in cui Meg scende dall’alto e salva letteralmente David è molto simile a ciò che mia moglie è riuscita a fare con me.

Stavo diventando un solitario, antisociale, mi chiudevo a lavorare nella mia stanza, non volevo vedere nessuno, abbassavo le tende, non volevo nemmeno uscire. Ero come David all’inizio della storia. E quando Ivy è entrata nella mia vita, una donna di cui ero stato segretamente innamorato per sette anni, ciò che lei ha fatto per me è proprio quello che Meg fa per David. Ci sono aspetti autobiografici che coscientemente un autore inserisce nelle sue storie, altri che s’intrufolano di nascosto e di cui ci rendiamo conto solo a libro concluso.

Nell’incontro successivo alla Feltrinelli della Galleria Alberto Sordi, grazie alla traduzione istantanea di Michele Foschini, l’autore si è concesso a numerose domande di fan, studenti e addetti ai lavori, che di seguito riportiamo.

Cosa ne pensi del mondo del fumetto attuale e come si pone il tuo libro in questo nuovo contesto?

Sono molto emozionato per il modo in cui sta evolvendo il fumetto. Nel 2000 ho scritto in Reinventing Comics auspicando alcune rivoluzioni nel mondo del fumetto… e ora si stanno realizzando! Per me la chiave è la diversità, nelle storie, nel modo di proporre, nei lettori e negli autori. La diversità del background culturale dei lettori è molto importante.

C’è ancora molto da fare, ma scommetto che nei prossimi dieci anni ci saranno più fumettiste che fumettisti, ad esempipo. Pubblicai Understanding Comics nella primavera del ’93, il primo web browser grafico uscì nell’autunno di quell’anno. La gente ha veramente appreso cos’era la rete dopo l’uscita del mio libro.

Ci sono tre elementi che hanno cambiato i vent’anni successivi: l’onda del web; il movimento del graphic novel, che ha cominciato ad affermarsi in quegli anni; l’invasione manga.

Il fumetto nel Nord America ora è una sorta di foresta pluviale, con tante differenti specie. Tutto ciò è molto sano, c’è bisogno di biodiversità, di differenti tematiche, di ispirazioni, di autori diversi. In tutta la mia carriera ciò che ho fatto è stato tracciare una mappa di ciò che gli altri hanno fatto per individuare la zona che non hanno esplorato. Quello che chiamiamo mainstream nel mio paese è essenzialmente popolato dai supereroi. Storie emozionanti di rapido consumo. Ci sono poi autori di nicchia, che raccontano storie molto personali. Io volevo fare qualcosa che fosse a metà, un libro che fosse avventuroso, epico, emozionante ma che allo stesso tempo fosse profondamente personale e toccante.

Ho studiato i manga nel 1982, molto prima che esplodessero in America e in Europa. Ho scoperto che la tecnica dei manga era in grado di permettere un coinvolgimento più diretto e profondo del lettore. Ciò che ho provato a fare ne Lo Scultore è una sintesi alcune tecniche di coinvolgimento del lettore di derivazione manga con la costruzione dei mondi più propria del fumetto franco-belga, soprattutto da Hergé in poi.

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Posso chiedere se è solo una coincidenza che il protagonista assomigli a Neil Gaiman e che poi quest’ultimo abbia definito il libro uno dei romanzi grafici più belli?

(ride) Si, è vero, non è la prima volta che mi dicono che sembra il giovane Neil… ma in realtà è ispirato a un mio amico, o meglio a un amico di mia moglie, scusami (NdR scoppia a ridere guardando la moglie presente in sala). In qualche modo, ho avuto questo personaggio in mente per vent’anni… doveva essere magro, affamato… ebreo! Diciamo, ho sempre voluto disegnare personaggi con un grande naso… in effetti, Neil ha un naso abbastanza grande (ride)!

Purtroppo, sia io che Neil ci stiamo invecchiando e non credo che possiamo più assomigliare a David… probabilmente io non ho mai potuto! Comunque, sono abbastanza sicuro che questo non c’entri nulla col motivo per cui Neil fece quel famoso tweet. La realtà è che gli avevo inviato solo le prime 200 pagine e al termine della lettura twittò che stava in piedi nella sua cucina, piangendo per aver finito le prime 200 pagine… al che un suo amico rispose: «Ma è davvero così brutto?» (ride)!

A proposito del coinvolgimento del lettore, come è nato il fumetto di spiegazione di Google Chrome? Inoltre, per caso credi di aver creato un nuovo genere, cioè il manuale a fumetti?

In realtà non prendo il credito di aver inventato il genere, perché altri colleghi prima di me, come ad esempio Art Spiegelman che con la sua Teoria dell’Umorismo mi ha mostrato come gestire un’opera del genere.

Credo che l’area dei fumetti non-narrativi sia un’area molto stimolante del fumetto attuale. Il progetto di Google Chrome nasce nel 2008, fui invitato nella loro sede principale, parlai con i loro ingegneri che mi spiegarono tutto, ma era tutto talmente segreto che neanche all’interno di Google nessuno sapeva nulla, non avevo il permesso nemmeno di accenarvi in sala mensa.

Ragionavo con loro su come comunicare la ricchezza di questo nuovo browser in una maniera in cui tutti potessero comprenderlo. Gli elementi che dovevo spiegare erano piuttosto complessi, ma devo dire che ha funzionato! La gente comune parlava di architettura multi-processore come se fosse qualcosa di antico pubblico dominio, conosciuta da sempre.

Mio padre era un ingegnere, quindi io ho sempre amato parlare, confrontarmi con gli ingegneri. Fu un sogno per me avere l’opportunità di spiegare loro come un fumetto avrebbe potuto rendere il loro complicato lavoro non solo comprensibile alle persone comuni, ma perfino memorabile attraverso le immagini, poiché le immagini statiche sono l’alfabeto della memoria. Tutto sommato credo che il browser non sia malvagio… so che c’è un dibattito su cosa sia malvagio in Google, ma mi piace pensare che almeno il browser non lo sia (ride)!

Hai definito il fumetto arte invisibile, per te il fumetto è ancora tale?

In America, “l’arte invisibile” era il sottotitolo del titolo Understanding Comics, in Francia è divenuto direttamente il titolo. Aveva diverse accezioni: in parte, significava che dei cinque sensi il fumetto esprime attraverso la vista anche gli altri quattro, nel fumetto tutto ciò che fa parte del mondo visibile è esplicitato a favore della vista. Inoltre, per me la sostanza del fumetto si esprime tra le vignette, nello spazio vuoto, che è appunto invisibile, e stimola l’immaginazione del lettore. Oltre tutto, l’arte del fumetto era fino a poco fa invisibile al grande pubblico e io volevo appunto porla all’attenzione del maggior numero di persone possibile. Il terzo significato negli ultimi venti anni è sicuramente cambiato, i fumetti non sono mai stati così sotto l’occhio del grande pubblico come adesso, quindi a riguardo mi devo correggere. Però per ciò che riguarda gli altri due motivi li ritengo ancora validi e importanti per questo mi piace ancora chiamarlo “l’arte invisibile”… dunque, i francesi non devono cambiare il titolo della nuova edizione (ride)!

Hanno già annunciato che sono stati comprati i diritti per un adattamento cinematografico de Lo Scultore. Preferiresti una versione fedele anche se compressa, oppure un’interpretazione più libera e diversa dello stesso concetto?

Quando un fumetto diventa un film – e questo vale anche per il mio – spero sempre che chi ci debba lavorare guardi il materiale d’origine, prenda ciò che è buono e scarti ciò che non ritiene possa essere utile. Voglio che chiunque si occupi di trasformare un fumetto in un film ami con passione pura il proprio lavoro quanto lo ama il fumettista che ha realizzato il materiale originale.

Prima ancora che il libro fosse pubblicato, Hollywood se ne era già accorto. Solo un mese fa si è saputo che la Sony e Scott Rudin avevano archiviato la licenza, anche se è stata una fuga di notizie ripresa da Hollywood Reporter, non un annuncio ufficiale. Non so come sia trapelata la notizia… spero che il governo nordcoreano non ce l’abbia con noi! Ma comunque siamo a un livello molto prematuro per parlare del film. Posso solo dire che quando parlo con le persone che potrebbero fare il film, io parlo di problemi. Voglio che venga un bel film, non sono fissato con la fedeltà a tutti i costi. Insomma, non voglio che venga come il Watchmen di Zack Snyder, ad esempio.

Adesso che hai terminato un lavoro così grande che ti ha occupato cinque anni, ti senti più libero o più solo?

Mi piace la domanda! No, credo di sentirmi libero. Sentivo che c’era uno squilibrio nella mia vita: sia perché la storia non l’avevo ancora raccontata, che perché avevo passato anni a raccontare come si facevano o si sarebbero dovuti fare i fumetti, ed  era giunto il tempo di farne uno!

Hai detto che questo libro lo hai realizzato vedendo quale spazio vuoto avevano lasciato altri autori. Cosa pensi invece degli autori o degli editori che invece puntano sempre sul sicuro facendo sempre le stesse cose, quelle che il pubblico si aspetta?

Io credo che il fumetto sia sano come forma d’arte perché ci sono autori che raccontano storie personali per pochi e perché ci sono, ci devono essere autori che invece raccontano storie per le masse. La mia critica all’industria mainstream è che non piacciono abbastanza a molti! Vorrei raggiungessero più persone. Questo perché le storie sono troppo brevi e in 23 pagine (NdT il formato americano standard) non si può raccontare molto, devono schiaffarci più parole possibile, affinché il lettore con l’occhio puntato sull’orologio non possa dire: «il mio minutaggio per dollaro non è soddisfacente». Questa è una situazione velenosa, che non fa bene all’ambiente del fumetto. Le emozioni sono interessanti, questo vale anche per i supereroi, solo che in quelle storie esse rimangono incastrate nelle nuvolette dense di testo, per questo non funziona. Al contrario, nel mio continente i fumettisti per bambini hanno capito molto bene che ogni emozione vuole la sua vignetta. Ma ciò puoi farlo se hai a disposizione centinaia di pagine, in 23 è impossibile.

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Come mai hai scelto un solo colore nel libro?

A me piacciono le storie raccontate con 4 colori, ma siccome le mie scelte cromatiche fanno schifo ho capito che l’unico modo per farlo bene sarebbe stato chiamare qualcun altro a colorarlo per me. Ma questo avrebbe significato… lavorare con qualcun altro!! Così ho pensato: “Se lo faccio da solo, anche se sono incapace a scegliere tra migliaia di colori, uno lo saprò scegliere!”.

Del resto, un colore solo è tutto quello di cui avevo bisogno: Pantone 653.  Il mio desiderio era che il lettore aprendo il libro trovasse subito la storia e l’artista diventasse invisibile. Ho quindi avuto bisogno di un colore a metà tra il bianco e il nero per chiarire la forma di quello che disegnavo. Con quel tono a metà ho mostrato le forme più chiaramente, attraverso giochi di ombre e luci. così invece di vedere linee e disegni, vedi persone e oggetti e ambienti. Questo non è l’unico modo di fare dei fumetti.

Ci sono fumetti in cui lo stile dell’autore è importantissimo, denso come una foresta, stili che vanno studiati a fondo per essere compresi. Ma in questo caso, in questa storia ho voluto che l’autore si levasse dal c…! Volevo che il lettore aprisse il libro e ci cadesse dentro, accorgendoci solo alla fine di aver divorato 496 pagine!

Quanto tempo della sua vita passa a leggere fumetti?

Bella domanda. Non abbastanza. Ho lavorato 11 ore al giorno 7 giorni su sette per 5 anni. (NdR la moglie si schiarisce la voce per richiamare l’attenzione) D’accordo, gli ultimi due ne ho lavorato 13 al giorno (ride)! Quindi, mi rimanevano due ore al giorno da trascorrere in famiglia… Magari vedevamo la televisione, oppure un film, oppure durante le passeggiate che faccio ogni giorno per non essere grosso il doppio di quello che sono (ride) potevo ascoltare degli audiobook. E per tutto il giorno potevo ascoltare la musica. Per cui, ricapitolando, nella mia giornata avevo: tv, cinema, audiobook, musica, ma… NON FUMETTI! Perché dopo 11 ore passate lontano dalla famiglia per un fumetto, non potevo mica dire: “scusate, non mi avete visto per tutto il giorno, ora vado a leggere un fumetto!”. Davvero, è stato tragico non poter leggere fumetti, ma punto di recuperare al più presto!

Quali sono comunque gli autori per lei degni di attenzione e che stanno spingendo sui limiti della forma fumetto? Penso a Mazzucchelli con Asterios Polyp o a Saga di Vaughan e Staples, è d’accordo?

Hai menzionato alcuni dei miei fumetti preferiti. Mi piace molto Saga e anche il libro di Mazzucchelli credo sia straordinario, tra i miei libri preferiti c’è anche il suo precedente, Città di vetro. Sono molto attento ai fumetti per bambini. Il mio libro preferito dell’anno scorso è stato E la chiamano estate di Jillian e Mariko Tamaki.

Mi affascina molto il lavoro sperimentale sul web. Comunque, ho avuto occasione di leggere molti fumetti dopo aver finito il libro, perché ero editor dell’anno dell’antologia Best American Comics. Quindi, ho avuto dopo anni di astinenza una pila di fumetti che mi hanno minacciato: “Scott devi leggerci ora!”.