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García, Rubín e il senso della novela grafica (e di Beowulf) [Intervista]

Incontriamo Santiago García in un pomeriggio primaverile, immersi nell’atmosfera febbrile della Plaça de Espanya di Barcellona. Dalla hall dell’hotel si scorgono densi gruppi di persone che si muovono verso il padiglione 2 della Fira dove si sta svolgendo il 33esimo Salón del Cómic.

García è traduttore, critico e sceneggiatore, tra l’altro del bel libro Las Meninas illustrato da Javier Olivares e candidato al premio per Miglior Fumetto Spagnolo (risultato in seguito, vincitore). Stiamo aspettando David Rubín, con il quale ha da poco firmato Beowulf (Tunué) e approfittiamo per scambiare quattro parole sullo stato del graphic novel in Spagna.

Leggi anche: Lo scontro tra epica e fumetto moderno in Beowulf di García e Rubín [Recensione]

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García: Il dibattito sulla novela grafica è vivo, sì… anche in Italia. Mi ricordo di essere stato qualche anno fa a Udine, dove l’università organizzava dei seminari a tema cinema e fumetto. Mi sento speranzoso, sono convinto che il genere troverà sempre più pubblico, sia perché la mia esperienza è positiva – per esempio con l’editore Astiberri siamo già alla seconda ristampa di Las meninas – sia perché vedo che c’è un grande fermento di autori che si cimentano. Non voglio sembrare trionfalista, visto che la situazione economica non è meravigliosa, ma stiamo facendo cose nuove e con una certa costanza.

È importante ricordare che l’apparizione in Spagna delle prime “novelas gráficas” coincide con il momento più duro della crisi: Arrugas (Rughe, Tunué) di Paco Roca e  María y yo (Maria e io, Comma22) di Miguel Gallardo, che sono considerate come le prime, sono entrambe del 2007, e nell’estate del 2008 il nostro paese stava già affondando. È molto difficile che un prodotto culturale prosperi nel momento in cui ci si deve piegare a rigide condizioni economiche: probabilmente se non fosse arrivata la crisi la scena sarebbe ancora più favorevole ma, nonostante questo, la novela gráfica gode in questo momento di ottima salute.

Santiago, nel tuo percorso di autore hai pubblicato nel 2010 un saggio che porta proprio questo titolo, La novela gráfica (Astiberri). Cosa ti ha spinto a scrivere un libro teorico?

García: È stato un tentativo di capire il termine romanzo grafico, che all’inizio in Spagna ha trovato molta resistenza. Si era diffidenti verso questa definizione, forse perché sembrava sciocco chiamare con un altro nome qualcosa che in fondo è comunque un fumetto. Ma poi mi sono detto che i nomi devono corrispondere a dei concetti. Fino agli anni ’70, per esempio, in Spagna non si parlava di cómic (prestito dall’inglese che si usa normalmente oggi in spagnolo per riferirsi al fumetto in generale, Ndr) ma di tebeos. Poi con l’arrivo del fumetto adulto e l’apertura del paese all’esterno, iniziammo a chiamarlo cómic. In questo senso le persone che hanno tante remore oggi a usare il termine novela gráfica non capiscono che, già in quegli anni,  a un cambio di termine era corrisposto un cambio di contenuti: fino alla morte di Franco in Spagna si erano prodotti principalmente fumetti infantili. Solo dopo arrivò il fumetto adulto (Milo Manara fu tra i primi ad essere tradotti) e iniziammo a chiamare il fumetto cómic. Con il termine novela gráfica è successo lo stesso.

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Quando arriva, Rubín – noto in Italia per i suoi  Dove nessuno può arrivare, La sala da tè dell’orso maltese e L’eroe, tutti editi da Tunué – si inserisce con il suo proverbiale vigore nella conversazione.

Rubín: Non solo sono uno strenuo difensore del genere, ma credo addirittura che si possa parlare di un movimento artistico. Non credo che per graphic novel ci si possa riferire solo al concetto storico, quello definito da Will Eisner, credo proprio che esista un prima e dopo. Stiamo cercando di ottenere la stessa cosa per cui Art Spiegelman a suo tempo combatté tanto affinché Maus venisse collocato in libreria e non solo in quelle di fumetto: un tentativo di guadagnare pubblico. Romanzo grafico non è in assoluto un termine peggiorativo, piuttosto è sinonimo di apertura di porte e di menti, una forma in cui tutte le tematiche diventano valide. Ora per esempio possiamo fare un romanzo come Beowulf, che è un libro di avventura, e sapere che la casa editrice e il pubblico lo considerano come un fumetto d’autore, cosa che prima era impensabile.

García: Prima dell’avvento del romanzo grafico, solo gli appassionati leggevano fumetti, comprandoli in librerie specializzate… quindi il genere e i suoi cultori erano relegati fuori dal resto del mondo della lettura. Una delle cose che vuole fare il romanzo grafico è esattamente arrivare a un altro pubblico, un pubblico generale, e questo sta succedendo. Il lettore tipico di fumetti prima dell’avvento del romanzo grafico era un maschio che non aveva mai smesso di leggere dall’infanzia; non si contemplavano le lettrici donne, per esempio, e in generale il pubblico era costituito solo da persone già interessate a quel linguaggio. Ora ci sono lettori che si avvicinano al fumetto a 25 o 30 anni e questo prima non succedeva: chi da adulto leggeva fumetti era colui che aveva iniziato da bambino e non aveva mai smesso di farlo.

Rubín: …quando Santiago ha intitolato il suo saggio La novela gráfica ha rischiato la gogna! I fan del fumetto hanno pensato che fosse un termine che screditava il fumetto, nel tentativo inutile di dargli un prestigio che loro già gli riconoscevano!

García: C’è anche una questione di gusto: ai lettori di fumetto tradizionale probabilmente dà fastidio che il romanzo grafico abbia un prestigio che i fumetti classici, che a loro piacevano tanto, non hanno mai avuto.

Rubín: Anni fa a Lucca Comics un noto illustratore italiano che lavora per Bonelli mi ha confessato che disegna e narra i suoi Dylan Dog o Martin Mystère in un modo prestabilito, quindi senza godere molto del proprio lavoro, ma che trova il suo appagamento di autore  scrivendo graphic novel per case editrici indipendenti, disegnando in un modo completamente diverso e trovando solo così la sua “calligrafia”. Il primo lavoro per riempire il frigorifero e il secondo per scoprirsi e godere della propria arte. Noi cerchiamo di situarci in mezzo a questa divisione. Io da cinque o sei anni vivo di fumetto e faccio fumetti che mi piacciono, quelli che vorrei fare: non diventerò ricco, ma non è quello che cerco. Mi basta essere felice con quello che faccio.

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Parliamo del vostro lavoro insieme. È uscito in Italia il 2 di Aprile Beowulf, un graphic novel basato sul poema omonimo. Nella postfazione all’edizione italiana si racconta della lunga genesi del lavoro. Com’è nato il progetto?

García: Ho scoperto Beowulf da piccolo in un libro di racconti infantili e mi è rimasto così impresso che ho sempre voluto farne un fumetto. Nel 2002 lo proposi a Javier Olivares (l’illustratore con cui ho firmato Las Meninas) e ci mettemmo al lavoro, però, dopo una ventina di pagine disegnate,  il progetto si arenò. Decidemmo quindi di accantonarlo per poter eventualmente lavorare su altre idee. Così scrissi un post sul mio blog annunciando che non avremmo finito il fumetto. E dopo poco tempo ricevetti una chiamata di David.

Rubín: Stavo terminando L’eroe quando lessi il post e mi arrabbiai molto perché conosco bene Santiago e Javier e come lettore avevo molta voglia di leggere questo libro. Il personaggio mi aveva sempre affascinato ed ero stato anche un po’ invidioso di sapere che ne stavano per fare un fumetto, visto che si trattava di una di quelle storie che avrei voluto fare io, quando mi fossi sentito pronto come autore. Questi sue sentimenti forse mi portarono a scrivere, quasi senza pensare a Santiago, dicendogli che se poteva aspettarmi, lo avrei disegnato io.

Ad una condizione, ovvero che quello fosse il mio Beowulf e il suo. Santiago infatti riscrisse la sceneggiatura secondo il lavoro portato avanti insieme. Per me è stato davvero come chiudere un cerchio, visto che Javier Olivares a livello grafico è uno dei miei totem, come un faro nella tempesta quando ancora stavo cercando il mio stile. In questo modo ho potuto in certo senso ringraziarlo; ho raccolto un progetto che lui aveva abbandonato per rifarlo a modo mio, trasformandolo secondo il mio sguardo, dimostrandogli anche in questo modo, tutto quello che avevo imparato da lui.

García: Io dalla mia utilizzai il tempo che rimaneva a David prima di terminare L’eroe per riscrivere una sceneggiatura a braccetto con lui: ci scambiammo numerose mail e opinioni, fino a convergere in un punto comune. David ha moltissima energia, anche come persona, come vedi, e io davvero avevo bisogno di un “treno” come lui per dare nuova linfa al progetto. E quest’energia febbrile, questa specie di spinta si è riversata anche sul resto del mio lavoro.

Ed è effettivamente un’energia che si respira nel ritmo incalzante del libro, che si legge di un fiato. Elemento da non sottovalutare, trattandosi di un poema di oltre 3000  versi. Come hai lavorato per l’adattamento?

García: Sono partito dal testo trovato nel libro di racconti infantili, che secondo me contiene tutta l’essenza della storia. Quindi l’ispirazione principale è venuta da lì e poi abbiamo fatto il nostro Beowulf.

Rubín: Per me Beowulf è sempre stato come quelle statue etrusche di cui si conserva solo un piede, e viene il capogiro a pensare quanto grandi fossero… Nella sua semplicità la storia ha una forza sconfinata. Siamo stati d’accordo subito su questo: se l’opera è arrivata ai nostri giorni con questa forza, non servirà a niente aggiungere o togliere. Come una pietra preziosa: meno la lavori, maggiore è il suo valore, possiamo sempre mettere il nostro ego di artisti nel modo, nella forma di raccontarla.

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Il testo visivo però è molto articolato grazie all’uso di piccole vignette inserite nella tavola che introducono dettagli o elementi esterni al quadro principale e che rendono la contemporaneità degli eventi. Le avevi già usate ne L’eroe, e adesso divengono una cifra del racconto.

Rubín: Da un lato c’è molta gente che crede che la sceneggiatura corrisponda al concetto di testo o a quello di trama. Molte delle idee e dei dettagli che dici si trovano nella sceneggiatura di Santiago, altre vengono da me. Credo che con questo lavoro abbiamo raggiunto quella dinamica che riconosco come lavoro in squadra: due mondi e due individualità che si fondono in una nuova, in una visione che ha una sua consistenza e coerenza e che funziona da sola, senza che il lettore capisca dove finisce il lavoro dello sceneggiatore e dove inizia quello dell’illustratore. La cosa importante è come si racconta una storia, la scelta e l’uso del linguaggio. Ho lavorato molto nel cinema e forse è per quello che sono tanto affezionato al montaggio, che cerco di sfruttare al massimo anche nel fumetto. C’è da aggiungere che il montaggio, l’uso linee cinetiche e delle onomatopee sono tutte risorse molto tipiche del fumetto, alle quali, forse anche a causa dell’invasività del cinema, il lettore si è disabituato.

Mi è successo che la gente si stupisse perché ho fatto uso di molte onomatopee ne L’eroe, quando si tratta di un dispositivo tipico del fumetto; inoltre molti hanno definito “cinematografico” l’uso del colore in Beowulf. Niente di più lontano dalle mie intenzioni. Né il disegno, né la scrittura, niente in questo lavoro voleva imitare il cinema. Tantomeno ho cercato il naturalismo con il colore, che uso in modo da generare sensazioni nel lettore, soprattutto in Beowulf dove abbiamo voluto sorprenderlo con un pugno allo stomaco, trattandosi di una storia cruenta, molto diretta e senza mezze tinte, con personaggi semplici ma profondamente autentici, essenza pura di ciò che rappresentano. Beowulf, Grendel, la madre, fino ad arrivare al Drago, sono archetipi che abbiamo visto in un milione di opere, ma noi abbiamo voluto raffigurarlo nella sua essenza: Grendel non è un mostro malvagio, è il male puro e per questo ho provato a rappresentarlo come il male astratto.

Per farti un esempio, recentemente ho dovuto rispondere alle questioni che ha sollevato la sequenza dell’eiaculazione di Grendel su Bewoulf. Il mostro è eccitato alla vista dell’eroe e non sa se mangiarlo o possederlo. Spesso mi hanno chiesto il perché di questa sequenza… è chiaro che non capiremo mai il mostro: è il male puro, non è regolato da un’etica umana, perché il suo è il pensiero astratto di un essere archetipico.

Bocche, fauci, grinfie… tutti simboli di possesso e assunzione. Ma la bocca è come un leitmotiv nel fumetto, ci sono addirittura delle inquadrature da dentro le fauci del mostro.

García: È il simbolo della voracità, ce l’hanno tutti gli animali, è il posto da dove viviamo, respirando e mangiando, e anche il luogo dove finisce la vita delle prede. Il mostro che mi faceva più paura da piccolo era lo squalo del film di Spielberg, che nella versione originale si chiama Jaws, ovvero le fauci, la rappresentazione finale dell’orrore, quello di essere divorati.

Rubín: La bocca è la sintesi di molte funzioni, anche contraddittorie, che il nostro corpo animale espleta, è l’organo da cui passa la vita, ma può infiggere la morte.

Più che un’opera circolare, il vostro Bewoulf sembra sfondare la storia, e le ultime tavole aprono una finestra intertestuale tra la narrazione e la genesi dell’opera. In questo senso, terminando il fumetto avete ucciso anche voi il vostro mostro?

García: Ogni volta che ne uccidi uno, ti aspetta un mostro più grande, e questa è la lezione di Beowulf. Perché in fondo il mostro che vince su Beowulf non è il drago, ma l’età, il tempo. Difatti con Beowulf termina l’epoca dei mostri e degli eroi e Wiglaf, il suo successore, è fondamentalmente un politico, colui che apre l’epoca del pensiero e della ragione. La fine del mito è avvenuta, perché Beowulf è altrettanto mostro di quelli che ha ucciso. In questo senso l’opera, come dici, non è circolare, ma lascia spazio a un’altra dimensione.

Rubín: Ho sempre interpretato l’opera come un canto alla sopravvivenza del poema come genere. Non potrebbe essere altrimenti, visto che si è tramandata oralmente per secoli fino a trovare la sua stesura scritta. Noi ne abbiamo fatto un fumetto e la lettura è quello che dà senso all’opera, è il lettore stesso che chiude il cerchio dando la sua particolare interpretazione. E ci teniamo a dire che il finale ce l’eravamo immaginati molto simile anche senza consultarci.

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