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FocusProfiliPerché flippo solo hardcore: Danno ft. Zerocalcare

Perché flippo solo hardcore: Danno ft. Zerocalcare

Sabato 22 maggio si è tenuto uno degli eventi più attesi della prima edizione dell’ARF! Festival, la nuova manifestazione romana dedicata al fumetto. Moderato dal fumettista Stefano “S3Keno” Piccoli e il giornalista de La Repubblcia XL Luca Valtorta, l’incontro ha visto coinvolti Danno dei Colle der Fomento – una delle realtà hip hop più seguite e apprezzate nel panorama italiano – e Zerocalcare. Protagonista assoluta della lunga chiacchierata è stata la città di Roma, fulcro di bellezze e contraddizioni.

Di seguito, la trascrizione dell’incontro e alcuni scatti presi dalla pagina Facebook della manifestazione.

S3KENO: Il progetto dell’ARF festival è basato totalmente sull’autoproduzione, sul fatto che cinque autori hanno deciso di creare un festival dal nulla. Cosa vuol dire? Vuol dire che una delle imposizioni principali è stata quella di utilizzare le risorse di Roma. Dovevamo portare amici e ospiti che non dovessimo chiamare da New York, fondamentalmente, ma nemmeno da Milano. L’ARF festival non vuole essere il festival di Roma, perché crescendo speriamo di diventare un festival di caratura internazionale: però quest’anno è così, abbiamo tanti autori romani e in fin dei conti stiamo raccontando questa città.

Una delle prime idee, che ci è venuta in mente fin dall’inizio, fu proprio quella di questo strano mash-up a cui stiamo assistendo questo pomeriggio. Abbiamo messo insieme due persone provenienti da due linguaggi differenti: una è Zerocalcare, l’altra è una persona che conosco da tantissimi anni, Danno, dei Colle der Fomento – che con la musica, con il rap e con la cultura hip hop sono ormai 20 anni che racconta Roma. Alcuni pezzi del Colle la raccontano in senso reale – Il cielo su Roma è uno dei pezzi più belli che abbiano mai fatto. Ho chiamato Simone anche perché è un amante dei fumetti. In realtà avrei voluto organizzare una carrambata, ma ora ve la racconto: tante persone mi hanno chiesto “ok, ma che c’entra Simone con i fumetti?”. A parte il fatto che io so che ama e conosce profondamente i fumetti, Simone di cognome fa Eleuteri Serpieri. E un certo disegnatore di fumetti è fondamentalmente suo zio.

DANNO: In realtà nelle mie mille peripezie ho anche scritto un fumetto, che poi ho autoprodotto e pubblicato con un amico. Quindi in qualche modo posso definirmi non del tutto estraneo a questo medium.

S3K: C’è anche una stima reciproca fra Michele e Simone che faceva un po’ da collante per questa cosa. Il minimo comun denominatore è lo storytelling: Michele è uno storyteller e Simone è uno storyteller, fondamentalmente si tratta di questo. Passo la parola a Luca.

LUCA VALTORTA: Secondo me va benissimo usare il termine storyteller, anche se si tratta di un termine che a me non sta proprio simpaticissimo… non per ciò che significa, ma perché sembra tornato di moda grazie alle infatuazioni dei media, e lo dico da persona che si occupa di media. Io sono più vecchio di loro e ho vissuto tutta la nascita del movimento hip hop da Milano, che è la città da cui vengo, anche se ho sempre seguito la realtà romana e quella di Napoli. Ho avuto anche la fortuna di incontrare i Public Enemy la prima volta che sono venuti in Italia e Chuck D diceva che “l’hip hop è la CNN del ghetto”, quindi questo storytelling alla fine non è altro che il racconto che l’hip hop fa della realtà.

Poi ci sono anche le delusioni, perché devo dire che, essendo sempre stato appassionato di musica e frequentatore di centri sociali, quando vennero i Public Enemy a Milano io li invitai al Leoncavallo [noto centro sociale milanese autogestito, ndr] e capii che a loro non gliene poteva fregare di meno di andare in un centro sociale, anzi… e nemmeno di tutta la parte etica: se ne andarono da McDonald, lì fuori, e si mangiarono un panino alla faccia di tutti. Altra delusione: sono anche appassionato di indie rock, e al tempo c’era questo famoso brano che si chiamava Kool Thing, in cui Chuck D rappava per i Sonic Youth, gruppo indie fondamentale dell’epoca. Si tratta di un pezzo molto impegnato, femminista, e anche lì, alla domanda che feci a Chuck D, lui, anziché dare un’interpretazione di stampo etico-politico, mi rispose “no, eravamo in studio, c’erano questi qua che ci chiesero di fare un pezzo e l’abbiamo fatto”. Quindi a volte non bisognerebbe andare troppo a fondo nella conoscenza dei propri miti.

Detto questo, è vero che l’hip hop era ed è questa cosa, quantomeno l’hip hop vero, quello che ha una ragione di essere, e forse è proprio vero che quando l’hip hop finisce di raccontare la realtà diventa qualcos’altro. È anche vero che in questi anni c’è stata una forte carenza di gente che raccontasse la verità e la vita dei quartieri. Nel senso che i grandi media hanno dato una rappresentazione di un mondo spesso finto e lo stesso star system si chiama così perché si ritiene che la gente debba innamorarsi delle star. A me tutto questo non è mai interessato. Invece mi ha sempre interessato chi queste cose le viveva, chi raccontava la realtà, quella che vive il 90 percento delle persone. Io sono molto felice perché il fenomeno di Zerocalcare, letto da un punto di vista socio-antropologico e in qualche misura politico, significa veramente questa cosa qua, ossia che c’è qualcuno che pur divertendosi, perché le storie di Michele sono leggere, in apparenza, produce cose leggibili a più livelli, con una forte valenza etico sociale. Tutto ciò è stato dimostrato anche dalla storia che siamo riusciti a far uscire per il nostro quotidiano, Repubblica, e non era cosa da ritenersi facile, è anche la prima volta che Repubblica pubblica una storia intera di un autore. Quindi è stato un momento molto importante.

Vorrei partire però da Danno: secondo te Roma ha bisogno di essere raccontata, visto appunto che è di storytelling che si parla? E com’è cambiato il racconto che tu ne hai fatto in questi anni, da quando hai iniziato ad oggi?

DANNO: Tutto l’hip hop a Roma nasce nei primi anni Ottanta, da gente come Ice One, Crash Kid, Eolo… pionieri, persone che avevano visto una scintilla e si erano inventati un incendio nella loro testa, qualcosa che andava oltre ciò che chiunque di noi poteva capire. Erano altri tempi, non c’erano praticamente i videoclip, non c’erano i registratori, non c’era internet. Era roba di quaranta appassionati in tutta Italia, probabilmente, che si riunivano facendo delle feste. Noi siamo venuti un po’ dopo, siamo la generazione dei primissimi anni ’90, quelli cresciuti ascoltando Assalti Frontali, Isola Posse, i primi a fare del rap in italiano. Per un ragazzino di quattordici, quindici anni, che per la prima volta passa da Jovanotti agli Assalti Frontali o a Onda Rossa Posse, è una sorta di shock, è come se prendi una persona e la butti nell’acqua fredda appena sveglia. Perché si passava da “sei come la mia moto” a discorsi su bande armate, arresti ingiustificati, gente morta nelle carceri, discorsi molto più seri. Anche gli Assalti Frontali raccontavano Roma. Io vengo da Batteria Nomentana, sono nato lì, e accanto avevamo la stazione Nomentana, che adesso è funzionante, anche molto pulita, perché ci è passato il papa qualche anno fa ed hanno cancellato tutti i chilometri di muri dipinti che c’erano. Però quello era un posto nostro, negli anni ‘90 ci andavamo a dipingere a farci i graffiti e quel posto raccontava le anime di Roma, in realtà, era una stazione abbandonata raccontata anche dagli Assalti Frontali, che cantavano “sull’orlo dei binari di questo fantasma di stazione inesistente chiamata Roma Nomentana”. Noi venivamo da tutti i quartieri, ci riunivamo in questa stazione – dove all’epoca non passavano i treni, perché era chiusa – e dipingevamo, provavamo il nostro rap, confrontavamo esperienze; quindi la Roma con cui ho avuto a che fare io quando ho cominciato ad uscire di casa, quando ho smesso di stare solo nel mio quartiere, è una Roma multirazziale, perché con noi c’erano eritrei, etiopi, zingari, nigeriani.

Eravamo ragazzini uniti da questa passione per l’hip hop. Uno veniva da Bravetta, uno dai Parioli, uno da Tor Bella Monaca, uno da Ostia… c’è stata una coesione di gente che ci ha insegnato a vivere Roma in una maniera diversa, a sentirci in qualche modo uniti pur venendo tutti da realtà differenti. Andavamo in giro in venti, in trenta; c’era chi faceva i graffiti, quelli che alle 2.00 dicevano “io vado, devo scavalcare ed entrare nel deposito delle metro perché mi devo bombare i treni”. Ho vissuto l’Esquilino di notte per anni, andando al Circolo degli Artisti, mi sono vissuto Termini con i notturni; eravamo ragazzini e giravamo la città cercando quello che ci piaceva, quindi di sicuro non andavamo a via del Corso a fare shopping, ma cercavamo i locali un po’ più particolari dove si suonasse la musica che ci piaceva. Giravo per centri sociali, che negli anni ‘90 sono esplosi, andavamo al Forte Prenestino, al Corto Circuito… quindi ci siamo fatti una mappa della nostra Roma, con i nostri punti di riferimento. Non so, ad esempio l’Eur era una zona calda per gli skaters. Il pomeriggio, senza cellulari, tu prendevi un autobus e andavi lì: se trovavi qualcuno, bene, altrimenti dicevi “forse stanno alla Sapienza”, e allora altro autobus per andare alla Sapienza a cercare gli skaters. Noi ci vedevamo tutti a piazzale Flaminio e da lì giravamo per la città. Roma per noi era un po’ un campo da gioco, cioè,  “guarda quel muro lì, ci andiamo a fare un graffito. Lì in quel quartiere c’è quello, quello fa rap”. Rappavamo anche per strada, ci vedevamo la sera a Campo de’ Fiori. E abbiamo sempre vissuto in maniera forte lo stress di Roma, al contrario di come molti fanno, secondo me in una maniera un po’ superficiale. E quella è la parte più brutta del romano che ti dice “oh, io so’ de Roma, ve rompo er culo a tutti, vengo dalla città eterna”. Quel romano che si prende un merito che non è suo, no? Troppo facile dire “hai visto da dove vengo? Vengo da Roma, che ha una storia…”. Perché la storia ce l’ha Roma, non ce l’hai te. In qualche modo non era quello il nostro vanto, non è quello l’imprinting che abbiamo ricevuto dalla città.

Al contrario, noi veniamo da una musica che è fortemente influenzata da chi l’ha creata. La musica narra del Bronx, degli afro-americani, dei neri americani, che hanno dei codici estetici, un linguaggio e dei comportamenti ben precisi. Molti hippoppettari e rappettari italiani, chiamiamoli così, hanno subito preso questi codici, in tutto e per tutto: non solo il cappello storto ma anche l’atteggiamento, le pistole, questo atteggiamento a volte maschilista, materialista, che viene comunque dall’America. Ecco, a noi Roma invece ci ha insegnato che se facevamo il rap non dovevamo giocare a fare gli americani; non dovevamo dire “yo yo”, “yes”, ste robe qui. No! Dovevamo fare il nostro rap, usare il nostro slang, il romanesco di strada, che non è neanche un dialetto. A Roma nord si è sempre detto “che flash” e noi diciamo “che flash”. Poi c’è quello di Gregorio Settimo che ti dice “no, noi non usiamo ‘che flash’, noi diciamo un’altra cosa”. Io ho sempre detto “che rate, fa rate”, che è una roba super slang romana. Nessuno sa da che cosa deriva questo “fa rate”; lo diciamo tutti ma nessuno lo sa. Però è nostro. Quindi siamo cresciuti cercando di assorbire la realtà di Roma, per non tradirla, con l’idea che se dobbiamo raccontare la realtà allora raccontiamo la nostra; raccontiamo cosa succede la notte a Termini, quando vai a prendere il bus notturno, che è tutto un mondo, dove sembra di essere stati catapultati nel bar di guerre stellari. Ti chiedi quanti alieni ci sono intorno.

Crescendo era tutto uno scoprire Roma, un assorbire il più possibile, imparare a sopravvivere, a cavarsela, a muoversi bene.  È una città pesante Roma, una città in cui per andare da un quartiere all’altro ci puoi mettere un’ora e mezza, una città in cui tutti hanno sempre voglia di litigare. Quindi dopo un po’ impari che o imbruttisci o te la sai cavare.  Mi ricordo il libro bellissimo di Militant A che diceva “mi facevo tutte le strade a piedi per impararmele a memoria nel caso fossi dovuto scappare da qualcuno, da qualche guardia… conoscevo tutti i sensi di marcia e sapevo come prenderli in senso contrario in modo che loro non mi potessero inseguire”. Ecco, questo è sentirsi parte di una città… che ne nello stesso tempo è un po’ estranea, è una città coatta che ha sempre dato tutto il suo interesse alla Roma, alla Lazio… Invece a noi interessava l’hip hop, che era un roba che negli anni ‘90 non piaceva a nessuno, a parte pochissima gente. Sembravamo matti per come ci vestivamo. E nel tempo siamo passati da cantare Il Cielo su Roma, che è una sorta di atto d’amore, a RM Confidential, in cui comunque c’è un po’ più di disillusione e disincanto. A volte cresci e pensi che la città in cui vivevi da ragazzino, dove ti perdevi e dove conoscevi  tutti, poi dopo dieci anni può anche diventare la città in cui ti senti terribilmente solo, dove se becchi un amico per strada è una coincidenza. Siamo cresciuti tutti, è anche cresciuta Roma secondo me, si è un po’ infighettita, ha tentato di giocarsi la carta della metropoli ma non ci è riuscita, perché è provinciale, è chiusa, è ignorante come città, e quindi si è anche un po’ incattivita. Non so, sarà stato quello che c’è stato con Alemanno, ma io me la ricordo come una città molto più viva, dove c’erano tantissime cose da fare. Andavamo a Massenzio, rimanevamo fino alle 4 di notte a farci le canne e a vedere i film gratis. Ormai hanno levato tutto. Se c’è un’arena all’aperto, alle 23.00 chiude. Non è forse più quella città che vivevamo noi, è un pochino cambiata, hanno spostato le cose, hanno dato un pochino più di regole, di controlli, e può anche andare bene per chi vive in certi posti, ma per chi si godeva la città di notte no. Diciamo che, crescendo, Roma la subisco un po’ di più, sento un po’ il peso di questa città difficile, che ha una personalità grande con cui fare i conti. Roma sta lì, lo diceva un grandissimo blogger, Quit the Donner: una città che quando prendi una buca col motorino ti dice “spostate te”, cioè passa accanto, perché è inutile che aspetti che richiudano la buca. È una città che in qualche modo la subisci, almeno dal punto di vista della vita pratica. Non è una città che ti viene incontro. C’è questo rapporto di amore-odio che si ritrova anche un po’ nei suoi fumetti [rivolto a Zerocalcare], con zone della città che fanno paura, personaggi che fanno paura ed altre cose che invece che ti riempiono di voglia di conoscerla e viverla.

LV: Tu Michele vieni in qualche modo da una cultura simile, però al tempo stesso nell’underground ci sono tante forme di espressione: c’è l’hip hop e c’è il punk. Tu mi sembra che sei sempre stato più legato al punk. Ma l’hip hop ti piace?

ZEROCALCARE: Sì, io non vengo dalla cultura dell’hip hop, sono cresciuto con il punk. Mi sentivo il rapper da ragazzino, ma proprio quello che passava su MTV, quindi quello lontanissimo da… insomma, roba tipo Coolio, che poi era la colonna sonora de I Pensieri Pericolosi. Di che anno è Il Cielo su Roma?

D: ’98, tipo.

Z: ’98. Cosa c’era all’epoca? Videomusic?

D: Videomusic, ma anche quell’emittente romana, ti ricordi? Magictv.

Z: Insomma, in realtà Il Cielo su Roma penso sia stata la prima cosa di hip hop in italiano di cui ho pensato “che bello, questo ci rappresenta, e quanto siamo fortunati ad essere raccontati in questo modo”.

LV: quindi non Gli Assalti Frontali?

Z: Assalti Frontali, Onda rossa Posse, sì, diciamo che il periodo è stato più o meno quello, ma prima di loro c’è stato Il Cielo su Roma, anche perché gli Assalti li ho conosciuti e li ho cominciati ad amare intorno ai sedici, diciassette anni. In realtà non mi interessa tantissimo l’aspetto musicale, sia nell’hip hop che nel punk italiano, ma mi piace molto l’attitudine che le persone ci mettono.

LV: Una cosa che accomuna i due generi è la ricerca di una dimensione italiana. Sia punk che hip hop nascono da altre parti, però quando arrivano in Italia le espressioni migliori e più interessanti sono quelle che trovano una dimensione del linguaggio italiano, anche nel punk. Quantomeno quello che viene dai centri sociali.

Z: Crescendo mi sono reso conto che non mi interessa quasi niente del gruppo grosso che viene da fuori, del gruppo americano… sì, magari al concerto del gruppo dei beniamini di quand’ero ragazzino ci vado volentieri, però in generale se devo uscire di casa per andare ad un concerto, allora preferisco quelli delle persone che conosco, di cui capisco le cose che dicono. Quelli che so che le cose che cantano hanno un riscontro nella vita vera e nel modo in cui vivono. È una dimensione a misura d’uomo e a misura di lingua.

LV: In realtà nella scena punk era proprio una necessità fondamentale. Al Virus di Milano, dove sono cresciuti alcuni dei gruppi più importanti, una conditio sine qua non era proprio il cantare in italiano, perché bisognava far capire quello di cui si parlava. Al Virus i gruppi italiani che cantavano in inglese non erano ammessi. E tornando all’hip hop, a Milano c’è stata una divaricazione, perché c’erano i gruppi che nascevano nei centri sociali, gli unici luoghi che potevano dare spazio a questo tipo di cultura, ma c’erano anche tutta una serie di situazioni non politicizzate, e alcuni non a caso rappavano in inglese…

D: C’era anche uno scontro. L’hip hop è una roba strana da inserire nella cultura italiana: le prime volte che cantavamo nei centri sociali a qualcuno era arrabbiato perché avevo le Nike o il cappello New York, e bisognava un po’ spiegare che sì, erano dei codici, ma dei codici nostri, che rappresentavano una una cosa chiamata hip hop, che non era solo la moda degli americani, anzi, forse era quasi il contrario. Io penso che per esempio Michele, che comunque trasuda punk, in realtà sia molto hip hop. Non lo sa probabilmente. E il rap è proprio la musica in cui forse, più che in tutti gli altri generi, si è sempre fatto uso di citazioni. È una cosa che mi ha colpito da subito: nell’hip hop è normalissimo dire “faccio questo come De Niro in Taxi Driver, ti rompo il culo come Ken Shiro e ti taglio la testa come Strider”… Quando ho letto i suoi fumetti per la prima volta mi sono sentito subito in una sorta di gemellaggio. Leggendo queste storie e trovando in ogni tavola un personaggio che conoscevo, un personaggio di un videogioco, un riferimento ad una cosa, ho flashato come quando da ragazzino dicevo “che figata questa musica rap in cui se vedi un film ci puoi subito fare la rima e dire a tutti che ti piace quel film”; ed è questo che poi ha creato anche un punto di contatto fra le persone che ascoltavano l’hip hop, perché spesso nell’hip hop usi delle citazioni per creare dei punti di contatto.

Negli anni Novanta sono stato uno dei primi ad avere l’idea di citare Guerre Stellari e trovavo un sacco di persone che mi dicevano “anche a me piace Guerre Stellari”; persone che magari non ascoltavano nemmeno troppo rap, ma con cui avevamo trovato un punto di contatto, come una mappa di quello che ci definisce, come a dire “io ho questi punti cardinali nella mia vita”. Alcuni sono importanti: a volte citiamo personaggi elevati, nomi grossi, libri e film che ci hanno lasciato qualcosa; altre volte citiamo la cazzata, perché anche la cazzata è importante nella nostra vita. E lui ha rotto quella barriera, se n’è fregato del fatto che i centri sociali sono un ambiente a volte integralista, radicale e rigoroso, dove di solito si tendono a fare solo certi discorsi; ha scavallato il panico iniziale e ha detto “chissenefrega, io ce lo metto dentro Street Fighter, perché fa parte della mia vita. Non sono solo militanza, sono anche tutta una serie di altre cose”.

Paradossalmente l’hip hop è la musica più vicina a quest’approccio, perché ci trovate dei testi serissimi, che affrontano tematiche importantissime, come abusi da parte delle forze dell’ordine, questioni razziali, questioni di povertà estrema, e testi che raccontano una serata tra amici a fumare e a giocare alla xbox; perché c’è anche una sorta di freschezza, una positività anche nella negatività, un raccontare la propria vita e dire “sì, vengo dal ghetto, ho le scarpe di mio fratello perché non ho soldi, ma sulle scarpe di mio fratello ho imparato a mettere i lacci al contrario così sono più fico”. L’hip hop nasceva da quello. Per questo i cappelli storti, etc… c’è tutto un prendere quello che vedi nella società e riutilizzarlo alla tua maniera. Un po’ quello che fa lui nei fumetti. Tutto quello che ha incamerato, che ha visto, che ha letto, che ha ascoltato e con cui si è scontrato poi lo riusa per raccontare qualcosa. Come noi, che magari nelle rime citiamo quel film perché è particolarmente fico, perché ha una sua valenza o perché dice una determinata cosa, e quindi nel farlo diamo una cosa in più all’ascoltatore che si va anche a vedere quel film, chi legge i suoi fumetti, se non conosce il videogioco, il libro o il fumetto che cita, probabilmente se lo andrà a vedere.

LV: Zerocalcare, sei stato in qualche misura criticato per aver inserito citazioni troppo leggere, nel mondo della militanza?

Z: in realtà ho proprio un grosso problema a farlo, nel senso che io stesso sono un talebano ed io per primo ero insicuro rispetto a questa cosa. Devo dire che in verità non è che chi vive i centri sociali abita sulla montagna con un eremita o non guarda la televisione. Quindi mi sembra che in larga parte anche chi viene dal mondo della militanza abbia provato un certo sollievo a leggere le mie cose, perché ti facevano fare pace con due pezzi di identità che altrimenti vengono vissuti sempre in maniera schizofrenica. Puoi anche dire che ti fa schifo un certo tipo di cultura, ma alla fine sei cresciuto con Ken Shiro e ti compri quello che ti devi comprare al Todis. Poi magari c’è pure chi ha l’orto e vive solo di quello che coltiva, vestendosi con il sacco di iuta…

LV: A proposito di questa cosa dei vestiti: il punk si veste in quella maniera perché non vuole essere accettabile per il mondo, per l’ordine costituito, quindi fa di tutto per non essere accettato. Michele ne sa qualcosa, perché ha avuto una cresta rossa che lui stesso definisce orrenda.

Z: Mi hanno steccato 4 volte all’esame della patente perché avevo la cresta, e mi hanno pure riempito di botte e quasi mandato in coma con un’amnesia di un anno, per la cresta rossa, quindi tutto sommato…

LV: Invece è vero che l’hip hop è sempre stato guardato con un po’ di sospetto per questa sua collusione con i grandi marchi.

D: No, ma non solo, è più per questo atteggiamento un po’ materialistico, che viene dall’America e dalla società americana. Se nasci nel ghetto, la prima cosa che fai quando riesci a guadagnare dei soldi è comprare qualcosa d’oro e dire a tutti “guardate sono uscito dal ghetto e ora guadagno”. Anche l’essere spaccone, il ribadire costantemente di essere il numero uno… questo viene dall’America, che è il continente della cultura del number one. Noi invece siamo cattolici, siamo cresciuti con il Cristo in croce. A noi ci piace Fantozzi e quando uno vince lo guardiamo con sospetto e cominciamo a dire “che ha fatto questo per vincere? Chi ha pagato?”. In America se sei il numero uno la gente ti applaude, sei un vincente. In Italia siamo più ipocriti. Appena uno c’ha un po’ di successo ti attaccano, ti dicono che fai lo splendido. In realtà bisogna solo trovare un modo proprio di esprimersi, non c’è una regola.

LV: È vero. In Italia c’è sempre il sospetto. Sei arrivato ad una certa cosa non perché l’hai fatto con le tue forze ma perché “chissà cosa c’è dietro”. Però ecco, nell’hip hop oggi come oggi questa frattura fra i due mondi si è sempre più accentuata. In realtà quelle che un tempo erano al maggioranza, le cosiddette posse, oggi fondamentalmente non esistono più. Resta solo Assalti, che ha una memoria storica di quel periodo. Secondo te perché è successo?

D: È un po’ difficile parlare di politica oggi, in una maniera critica, attendibile, valida. Era più semplice nei primi anni ‘90. C’era Berlusconi, un nemico molto chiaro. Poi è uscito Alemanno, ancora peggio. L’idea era quella là ed era abbastanza semplice scegliere da che parte stare. Oggi ti dicono che non c’è più la destra, che non c’è più la sinistra. Io dico che non c’è più la sinistra, la destra c’è in tutte le salse.

Secondo me le posse sono state una realtà fichissima, tutta italiana, ma troppo ibrida; mischiavano troppe cose, erano persone che facevano musica forse dando troppa priorità – ora dirò una cosa che sembra bruttissima – al messaggio piuttosto che alla musica stessa. Noi nell’hip hop diciamo “non vi dimenticate che è musica, che non deve essere solo un mezzo per esprimere le vostre idee fregandovene della forma”. Come se lui si disinteressasse del disegno e curasse solo la parte del testo. Noi alle posse dicevamo “avete dei bellissimi testi ma musicalmente non state in piedi, siete un ibrido di reggae, rock, funk, rap senza però fare bene musicalmente né il raggae, né il rock… dopo un po’ c’era l’esigenza che in Italia ci fosse IL rap, IL raggae… non solo un calderone di miscuglio in nome di “veniamo dai centri sociali, quindi siamo tutti ribelli”. Serviva qualcosa con un’identità più forte. Quindi ci si è staccati dall’idea delle posse e si sono formati i gruppi hip hop, che comunque per più della metà continuano a suonare, cantare e soprattutto condividere i valori dei centri sociali.

Noi Colle, ad esempio, non siamo un gruppo militante, ma siamo cresciuti là dentro, e questo significa che ci sono stati insegnati dei valori: l’antirazzismo, l’antifascismo, l’antisessismo… non siamo cresciuti omofobi o con la voglia di disprezzare o odiare qualcun altro o prevaricarlo, non siamo cresciuti con l’idea che per i soldi va bene tutto, che è quello che ti dicono oggi… continuiamo a portarci dentro ciò che certi posti ci hanno insegnato. Lo stesso hip hop è una musica che cerca di comunicare il senso della comunità, di dirti “tu vivi in una comunità e dovresti prendertene cura e tu che rappi e parli ai giovai dovresti capire che ciò che dici viene ascoltato e dovresti dare anche un esempio”. Io non credo agli artisti che dicono “io non sono un esempio, non è colpa mia se poi ascoltano i miei testi e mi imitano”. Lo sai benissimo che ti imiteranno, perché noi per primi, da ragazzini, imitavamo i nostri cantanti preferiti. Essere cresciuti in quell’ambiente, che ci accomuna e che ci ha lasciato un imprinting simile, vuol dire questo, non fregarsene di certe cose, vuol dire , se vieni chiamato a fare una scelta, sul piatto della bilancia ci metti anche quei valori che ti porti appresso, che per noi sono importanti e che non abbiamo mai voluto abbandonare. Nonostante oggi nell’hip hop ci sia tutta un’ala che definisco berlusconiana, in cui contano “la fregna, i soldi, va bene tutto, litri di champagne, l’importante è che abbiamo successo”, io dico che è importante anche avere successo in una certa maniera, senza sembrare ridicoli, senza dire cose stupide e senza aumentare l’idiozia di questo paese, ma magari cercando di aumentare l’intelligenza.

LV: Sono molto felice che tu dica questa cosa, perché noi di XL abbiamo combattuto una battaglia continua contro quel tipo di hip hop. Alcuni gruppi di questo tipo giravano dei video in cui cestinavano il giornale, ma questa prevaricazione è stata ben netta e c’entrano anche gli Assalti. Detto questo, io credo, pur venendo da quel mondo, che per un artista la militanza sia un’altra cosa, nel senso che ci può stare benissimo, ma messa dentro la sua arte finisce inevitabilmente per limitare. Credo che se Michele ha il grande e meritatissimo successo che ha è perché riesce a scindere questi due momenti. Nella tua opera [a Zerocalcare] c’è l’etica, che viene dalle tue radici, ma non c’è la parola d’ordine secca, l’essere fedeli ad una linea precisa, chiara, sloganistica diciamo.

Z: Io non potrei darla la parola d’ordine. Vengo da un ambiente con sensibilità diverse, frastagliate, spesso anche in polemica fra di loro e non potrei mai assumermi la responsabilità di dare una linea nei miei fumetti cercando di interpretare qualcosa che è così eterogeneo. Io in realtà poi non mi sono mai tirato indietro rispetto al fatto di fare anche delle robe esplicitamente politiche e militanti, purché si tratti di un prodotto collettivo, di un insieme di persone che ne parla, ne discute, decide insieme il taglio di che cosa va fatto in maniera assembleale; poi io posso essere l’ultimo anello della catena, quello che fisicamente la disegna. Ma se devo fare la prima donna che si sveglia la mattina disegnando su un blog visto da 150.000 persone per dare i messaggi così… a me quel ruolo non mi compete e mi fa orrore chi lo fa in generale. Ma non perché penso che questa cosa limiti la mia arte o perché penso che così rischio di perdere lettori, è perché sono processi che funzionano diversamente.

Anche il pubblico ha avuto modo di intervenire con delle domande, oltre che di assistere ad una rappata improvvisata di Danno, accompagnata dal beatbox di Fabrizio Verrocchi, uno dei cinque organizzatori del festival:

DOMANDA: abbiamo visto che molto pubblico vi ascolta e vi legge, ma non capisce assolutamente nulla. Come ci si sente a parlare con un muro che proprio non ce la fa a recepire un messaggio che è anche abbastanza chiaro?

Z: Io in realtà ho fatto pace con l’idea che se fai una cosa, la pubblichi e la dai al mondo, non puoi avere il controllo su chi se la legge e sul fatto che la capirà. L’unica cosa che io cerco di ribadire, ultimamente con un po’ più di energia, è il fatto che se le mie idee ti fanno orrore e comunque nonostante tutto decidi che ti piacciono i miei fumetti, per me non è un problema, però non mi devi veni’ a caca’ il cazzo, sostanzialmente [ride]. È come se a me piace musicalmente un gruppo nazista, perché mi piace come suona: il giorno in cui quel gruppo nazista fa un’intervista e dice che è nazista non è che gli scrivo una mail e gli dico “mi hai molto deluso”: è una contraddizione mia e me la vivo nella mia cameretta. Quindi, è una contraddizione tua, vivitela te, non la riversare addosso a me, anche perché io poi rosico un botto su sta roba [ride].

DOMANDA: Zerocalcare, qual è invece il racconto della tua Roma?

Z: Quando ho iniziato a fare i miei fumetti non ho pensato che stavo raccontando Roma, anche perché poi le mie storie con l’armadillo e quelle più personali le ho fatte proprio per raccontare, invece, il mio autismo, cioè lo stare in camera da solo davanti al computer con le paranoie, quindi mi sembrava che quelle storie fossero quasi impermeabili al mondo esterno e che non ci fosse quasi niente del contesto. Poi andando avanti a raccontare mi sono reso conto che invece dei pezzetti ci cominciavano ad entrare, anche raccontado la mia vita. Roma vuol dire tutto e niente, Roma sono dieci città. Ci sono delle parti di Roma che non conosco: per me quello che sta sopra al Tevere è Viterbo e quello che sta sotto Marconi è Napoli [ride]. Non riesco quasi ad immaginarmela come una cosa omogenea. Nei miei fumetti è entrato il mio quartiere, quello in cui sono cresciuto, che conoscevo meglio e che percepisco come casa mia. Mi viene in mente che il centro l’ho sempre dipinto come il bar di Guerre Stellari, con le razze aliene diverse, in cui uno si sente smarrito e non conosce nessuno dei codici. Non so, non penso di avere mai fatto il racconto di Roma, penso che delle cose si sono poi sommate, dei pezzetti della mia vita, e viene fuori una specie di mosaico in cui si riesce a vedere il pezzo di Roma che ho frequentato io e che ho vissuto. Poi mi accorgo che non è che quelli di Bolzano non capiscono i miei fumetti… c’è gente di Bolzano che mi legge e mi chiede “mi fai un disegnetto con scritto Rebibbia regna?”. Quindi ognuno in queste cose ci riconosce un pezzo del proprio rapporto con il proprio territorio, non necessariamente quello di Roma.

LV: Però una cosa in effetti l’hai voluta raccontare e hai scelto La Repubblica, no?

Z: Danno prima diceva di com’è cambiata Roma, di come tra regole, regolette e cose varie si sono mangiati tutti dei pezzi di stili di vita, di modi in cui la gente si viveva la città e queste cose sono cambiate molto anche nella testa dei romani. Si è fatto sempre più spazio ad un sentimento di indignazione o di malcontento rispetto a come si vive questa città e ciò che è diventato centrale rispetto a questo malcontento è la parola “decoro”, che ha assunto sempre più spazio.

A Rebibbia, a 400 metri dalla metro Ponte Mammolo, negli ultimi dieci anni è cresciuto un insediamento, una specie di borghetto in cui abitavano eritrei, ucraini, sudamericani… un posto in cui evidentemente si viveva in condizioni di estremo disagio, però pur sempre un tetto sulla testa di trecento, quattrocento persone, anche ragazzini. Non è che qualcuno si è mai indignato per il fatto che lì si vivesse male, piuttosto per il fatto che “quella roba là era zozza e dava fastidio alla vista”. Pochi giorni fa la gente di quel borghetto è andata a lavorare e una volta tornata a casa ha trovato le ruspe del comune di Roma che avevano butato giù tutto, per poi andarsene senza che ci fosse una presa in carico della situazione, che aveva lasciato trecentocinquanta persone in mezzo alla strada. Una piccolissima parte era stata assorbita dai meccanismi di accoglienza e altri stavano là: non c’era un assistenza sanitaria, non c’erano assistenti sociali, non c’era nulla. Si sono fatti carico, in parte, le associazioni e i centri sciali, e farsene carico voleva dire cucinare, portare da mangiare e portare delle tende per dare a quelle persone almeno un posto per dormire. L’unico problema che è stato sollevato da un sacco di gente che passava là davanti era “eh, non ci possono stare le tende perché fa schifo”. Però a margine di questo, nel frattempo, c’era tutta la polemica sul decoro, sul fatto di questi che vanno a pulire i muri, che “quanto so belli i cittadini che puliscono i muri, finalmente un risveglio di senso civico”.

Ora, non vorrei fare retorica o populismo spiccio, ma mi pare evidente che è banale buonsenso pensare che una città decorosa è innanzitutto una città accogliente, una città solidale. Quindi ho provato a raccontare questa cosa e a farlo su Repubblica, perché sapevo che quella roba apriva delle contraddizioni fra i lettori di quel giornale. Mo, se sapevo che a tre settimane di distanza ancora me stavano a caca’ il cazzo tutti i giorni scrivendomi mail del tipo “allora vuoi che i tuoi figli vivono nella merda” magari ci pensavo un po’ di più [ride].

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