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FocusFumetto, allegoria e sogno. Da Winsor McCay a Neil Gaiman

Fumetto, allegoria e sogno. Da Winsor McCay a Neil Gaiman

A distanza di più di mezzo secolo l’uno dall’altro, Winsor McCay e Neil Gaiman rappresentano forse i due maggiori ambasciatori dell’incontro – almeno nel contesto anglofono – tra fumetto e allegoria. Ed è piuttosto singolare, oltre che significativo, notare come entrambi vi siano arrivati per il tramite dello stesso tema: il sogno.

Il fumetto come linguaggio allegorico

Per parlare di allegoria, non si può non partire da Walter Benjamin, uno dei principali responsabili – come ha scritto il filosofo Andrea Pinotti – “del percorso di rivalutazione dello statuto filosofico e artistico dell’allegoria, che pativa, almeno dai tempi della condanna goethiana, di una umiliante marginalizzazione a tutto vantaggio del simbolo”. Grazie a Benjamin l’allegoria barocca, molteplice e trasformista rimise in discussione la tradizione che l’aveva a lungo relegata nei confini più miseri del territorio letterario. Allo stesso modo, il Novecento è anche il secolo in cui tale allegoria incontra nuove forme e possibilità: fra queste il fumetto, in grado di dar vita a un particolare statuto estetico, diciamo “non convenzionale”, che condivide con essa molti punti di contatto. La fusione di parola e immagine caratteristica del racconto a fumetti ci consente, infatti, di esplorare un contesto ibrido e intrinsecamente critico, nel pieno della sua natura felicemente in bilico fra territori sempre ambivalenti.

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Nel solco in cui si articola il delicato rapporto fra componente letteraria e figurativa del fumetto si definisce anche la sua apertura all’allegorico. Se infatti quest’ultimo si realizza al meglio nelle forme sincopate, nelle pause, nei fulcri di senso e nelle singole figure funzionali, allora il fumetto è in grado di rispondere positivamente al suo incontro con tale piano di significazione, proprio in virtù del suo statuto sincretico e della sua frammentarietà intrinseca.

Il concetto di vignetta torna, in questo caso, a fare la parte del protagonista. La narrazione a fumetti prevede una scansione spazio-temporale in quadri, i quali costituiscono cornici di tempo, oltre che di spazio. In questo modo il linguaggio del fumetto si manifesta in tutta la sua tendenza al frame, e per diretta conseguenza, al “montaggio”, che costituisce forse l’essenza stessa della narrazione a fumetti.. Il racconto breve si addice all’allegoria più del romanzo, senza dubbio, o per lo meno in maniera meno problematica: allo stesso modo, l’idea di racconto per stazioni, com’è quello proprio del linguaggio del fumetto, ne incarna al meglio le possibilità rappresentative e narrative, nonché la sua evidente apertura all’allegorico in una forma maggiormente produttiva che nel romanzo.

La singolarità della narrazione a fumetti sta nel suo articolarsi, al contempo, tra il tempo parcellizzabile della prosa e quello congelato del singolo quadro o della singola tavola, caratteristico delle arti figurative. L’opera tende a non perdere le proprie possibilità di espressione allegorica in virtù di questa particolare congiunzione, che è così in grado di mantenere il carattere proprio della prosa letteraria insieme all’assolutezza del frammento di realtà cristallizzato nella singola vignetta. Il fatto che un fumetto sia scritto e disegnato, così come il fatto che queste due anime – distinte ma sempre intrecciate – si articolino vicendevolmente in un rapporto che non è dato dalla semplice somma delle due, fa sì che in esse si realizzino i presupposti della costruzione allegorica.

Si potrebbe obiettare, tuttavia, che l’allegorizzazione investa solo apparentemente il fumetto nella sua integrità estetica: dovremmo chiederci, in altre parole, se essa non lo riguardi soltanto in considerazione della sua componente figurativa, nel quale sarebbe insito tutto il sottotesto allegorico. Come a dire che l’allegoria, nel fumetto, si servirebbe solo dell’immagine e mai della parola. In tal caso, esso condividerebbe la sua apertura all’allegoria con il cinema, anch’esso forte di una narrazione per frammenti (per quanto infinitesimali), per quadri e soprattutto di uno statuto condiviso fra una componente letteraria (la sceneggiatura) ed una visiva (il fotogramma, l’immagine); inoltre il cinema è a sua volta arte della composizione e del montaggio, elementi, anch’essi, adatti al contesto proprio dell’allegoria.

Se è innegabile, in effetti, il fatto che cinema e fumetto presentino numerosi punti di contatto, in realtà il primo si distingue dal secondo soprattutto in virtù della sua propria temporalità. Il fotogramma non si dà alla contemplazione del suo fruitore alla stessa maniera di un dipinto o, in questo caso, di una vignetta, ma anch’esso, nel momento in cui viene collocato nel tempo della storia e del racconto, è in grado di caricarsi di significazioni allegoriche non necessariamente legate all’assolutezza dell’immagine cristallizzata. Nel cinema, in altri termini, a prescindere dal carattere del montaggio e delle inquadrature, nonché dagli intenti di regia, l’obiettivo è un flusso temporale omogeneo, o per meglio dire, compatto. La sequenza di fotogrammi si trasforma in un’immagine in continua metamorfosi, nell’azione in quanto tale.

Per ciò che concerne il fumetto, invece, la costellazione di significati dell’allegoria permane nella frammentarietà intrinseca del suo linguaggio, la quale investe ogni suo lato. Tempo, spazio e modalità del racconto sono messi costantemente in crisi, ripensati, rielaborati. Ciò costituisce terreno fertile per la costruzione allegorica, che non a caso dà il meglio di sé proprio in quei ritagli di realtà fuori di sé non convenzionale e innaturale. Tutti quei contesti, insomma, in cui è manifesto un carattere di enigmaticità intrinseco, l’essere di una compagine di tasselli disordinati da ricomporre nella loro veste originale.

L’allegoria in Winsor McCay

Ma torniamo ai due autori con cui abbiamo iniziato. L’incontro fra questi tre universi – quello del fumetto, quello del sogno e quello allegorico – non può che obbligarci a soffermarci sulle possibilità “pratiche” di tale rapporto.

Winsor McCay, artista fra i più eclettici della fine del XIX e l’inizio del XX secolo, illustratore, animatore e fumettista, considerato uno dei maestri più influenti della nona arte, ha condotto il medium a livelli ancora oggi non facilmente raggiungibili, presentando al mondo, prima di molti altri, opere dalla maturità narrativa, formale ed estetica inaudita, dotate però di una sempre sottesa ironia. Non a caso le strip di McCay sono ormai considerate un modello assoluto, quasi canonico, forte di quella volontà di sperimentazione che ha condotto l’autore a farsi grande precursore e a spingersi sempre oltre le proprie possibilità e i propri strumenti.

Leggi anche: L’autoreferenzialità nel fumetto di Winsor McCay

L’artista statunitense si è confrontato con il tema del sogno in più di un’occasione. Anzi, in realtà possiamo affermare che l’orizzonte onirico, insieme a quello dell’assurdo, sia una costante della sua opera tutta, che ne attinge i modi e i caratteri sotto più profili e in vesti sempre nuove, sempre gravide di possibilità espressive altre, in cui ironico e inquietante si fondono. Quelli che propone McCay sono viaggi labirintici intrisi di barocchismi: Thierry Smolderen gli dedica un intero capitolo del suo Naissance de la bande dessinée, intitolato, appunto, Winsor McCay: le dernier baroque, sottolineandone dunque l’affinità con la ricchezza, l’enigmaticità e l’estremo dinamismo dell’arte del XVI secolo, la stessa che Benjamin prende a modello nella sua analisi approfondita delle possibilità dell’allegorico.

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Fra gli esempi più pregnanti, certamente Dream of the rarebit fiend – serie di strip pubblicate tra il 1904 e il 1913 sul New York Evening Telegram e successivamente sul New York Herald (pubblicata saltuariamente in Italia con il titolo Sogni di un divoratore di crostini) – e Little Nemo in Slumberland – pubblicata fra il 1905 e il 1927, prima sul New York Herald e successivamente sul New York American (tradotta in Italia dal Corriere dei Piccoli, con il titolo Bubi nel paese del dormiveglia), l’opera certamente più celebre dell’autore statunitense, quella che l’ha consacrato definitivamente nel pantheon dei grandi maestri del fumetto occidentale. In entrambe le serie i protagonisti – sempre diversi in Rarebit Fiend, a differenza di quello, fisso, di Little Nemo – vivono sogni turbolenti, assurdi, illogici, magmatici, variopinti e grondanti di molteplici e moltiplicati piani di senso, sogni dai quali essi si risvegliano sempre, magari di soprassalto, nell’ultima vignetta della pagina. McCay esplora dunque le possibilità della forma fumetto tramite le possibilità moltiplicate del sogno, saggiando continuamente temi, motivi, tecniche e risvolti nuovi e inaspettati, sia dal punto di vista prettamente artistico – McCay è un magnifico sperimentatore di inquadrature, proporzioni e prospettive – che da quello concettuale.

Le due opere affondano le radici della loro essenza estetica, e soprattutto nel pieno della conflittualità più radicale: fra grande e piccolo, lontano e vicino, normale e anormale, armonia e deformità, movimento e immobilità, vero e falso. Esattamente nei solchi di questo conflitto si celano l’allegoria e il simbolo, due piani sempre sottesi, specie in virtù della brevità degli episodi, che ben si adatta al contesto ideale di racconto per stazioni di cui si parlava. In ogni nuovo sogno si cela un nuovo enigma, che spesso rimane insoluto al risveglio del sognatore. Personaggi, cose, figure, creature, persino architetture e paesaggi vengono decostruiti, privati della loro coerenza significativa, e poi rigenerati in una nuova forma di senso. Lo stile barocco di McCay, ricco di dettagli fin quasi all’eccesso e il tratto netto e preciso proiettano le tavole del fumettista americano oltre l’umano, nell’universo proprio del sogno totalizzante e del segno pronto a caricarsi di piani di significazione inattesi.

Conclusa la lettura, sentiamo di non aver compreso tutto ciò che c’era da comprendere, ci manca un tassello che prescinde dal semplice piano letterale: ecco che dunque, necessariamente, ciò che abbiamo letto deve significare qualcosa d’altro.

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Di Little Nemo – ma il discorso può riferirsi senza problemi anche a Rarebit fiend – Smolderen scrive: “Dalle prime tavole, la Slumberland di Little Nemo si presenta come un mondo truccato, destinato a provocare il massimo delle sensazioni corporali: vertigini, capogiri, cadute, corse sfrenate, scivoloni, etc. Non si tratta più di assistere passivamente ad uno spettacolo sulla scena o sullo schermo (e dunque inscritto all’interno di uno schema immutabile), bensì di invitare il lettore a proiettarvisi per viverlo in prima persona”. In questo modo, ci dice Smolderen, “…diventa possibile considerare il linguaggio del fumetto come un linguaggio vivente”. Nelle tavole di Winsor McCay il sogno prende vita, e all’interno del sogno la realtà viene sublimata in forme inaspettate, condotta lungo sentieri labirintici e caricata di significati sempre duplici, misteriosi e tra loro interconnessi.

L’allegoria in Neil Gaiman

Facciamo un salto di qualche decennio e passiamo invece a Neil Gaiman, scrittore, autore teatrale, sceneggiatore e fumettista inglese, fra i più prolifici e talentuosi autori del panorama fumettistico contemporaneo. L’opus magnum con cui Gaiman ha provato a confrontarsi con l’universo allegorico è la saga di The Sandman, pubblicata in fascicoli dalla fine degli anni ’80 alla metà dei ’90 e divenuta presto un autentico cult. A differenza degli esiti di McCay, qui l’autore tenta di inserire il piano allegorico nel più pieno sviluppo narrativo.

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Gaiman fa confluire nella sua epopea allegorica interi mondi culturali, colti attraverso la rappresentazione di elementi e personaggi emblematici, rielaborati e riletti secondo schemi tradizionali e sperimentali al contempo. Tra questi, grande spazio è riservato alla mitologia, che si manifesta attraverso situazioni e personaggi portanti del mito classico occidentale e orientale, nonché all’immaginario biblico e a quello delle credenze religiose del Medio Oriente – in particolare della regione della Mezzaluna Fertile –, del sud America e dei paesi del Sol Levante; ma all’interno di questo grande omaggio alla complessità della cultura umana, rappresentata in tutte le sue molteplici sfaccettature, trovano spazio anche la storia, il folklore, il mondo letterario e quello proprio del fumetto, che confluisce qua e là nella comparsa di personaggi appartenenti ad altri universi narrativi ben noti ai lettori. Le anime che popolano questa grande opera sono numerose e le loro vicende si intrecciano costantemente, in un gioco di incontri e scambi continui, in cui il racconto non viene mai interrotto ed ogni nuova storia nasce dalla fine della precedente.

In questo senso la significazione allegorica si attua per nuclei “indipendenti”: mentre nel romanzo l’allegoria può attuarsi secondo differenti modalità – in maniera più o meno evidente, attraverso i singoli personaggi, nei momenti di sospensione del narrato (ad esempio le descrizioni) o per temi – nel nostro caso ogni elemento capace di caricarsi di significazioni allegoriche vive una doppia vita, sia immerso che estrapolato dal flusso della narrazione; ogni personaggio, dal canto suo, pur partecipe della fictiondel racconto, è come congelato nelle caratteristiche proprie del suo rappresentare qualcosa, e reitera, seppur partecipando del tempo del racconto, l’azione che lo caratterizza come emblema, alla maniera di una sorta di mosaico di miti espansi: Abele, ad esempio, è il protettore dei segreti inafferrabili per esseri umani se non tramite il sogno, è fragile e balbuziente, e ogni giorno viene nuovamente ucciso dal fratello, Caino; il Corinzio, incubo creato da Morfeo e fuggito dalle terre del sogno durante l’assenza del suo sovrano, possiede due bocche al posto degli occhi – che divora, invece, ai malcapitati che ne incrociano il cammino – e viaggia mietendo vittime; Lilith, prima moglie di Adamo, che Gaiman recupera nella sua versione antico-ebraica, compare insieme ad Eva, reclusa in una caverna, e ad una seconda moglie, creata dal nulla – dallo scheletro, agli organi, ai muscoli, ai fluidi, alla pelle… – e abbandonata da Adamo poiché disgustato dalla visione della sua creazione: tre donne tramite le quali vengono sviluppati tre archetipi femminili fondamentali.

Tutta l’opera è poi invasa da incursioni allegoriche che non si realizzano soltanto nella personificazione in quanto tale, ma che investono, al contrario, il dettaglio più minuto come l’elemento più maestoso: l’autore ha disseminato nella sua storia di tutte le storie un’infinità di tasselli enigmatici, di oggetti, di luoghi e di cose che non possono risolversi nel loro lato esclusivamente “letterale”: la Città di vetro, culla dell’umanità, la chiave dell’Inferno, il Grimorio della Maddalena, l’isola di spine, il Porpentino: sono tutti frammenti di un quadro di mistero da disvelare, tessere di un gigantesco mosaico, compartecipanti di una chiave di lettura superiore che li unisce in un unico, grande senso altro. Fra le immagini più evocative associate a questo tema, inoltre, figura la Biblioteca del Sogno, un luogo in cui vengono conservati tutti i volumi immaginati, sognati e mai scritti dai rispettivi “autori” nella storia dell’umanità, e con il quale Gaiman immagina una sorta di contrappunto all’immensa Biblioteca di Babele di Borges.

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Altra particolarità del trattamento dell’allegoria in The Sandman è inevitabilmente la caratterizzazione psicologica degli Eterni. Immersi come sono nel continuum della narrazione, essi dovrebbero perdere totalmente la loro veste allegorica in favore delle esigenze del tempo del racconto. Eppure anch’essi godono del particolare statuto di monade che caratterizza gli altri personaggi e le altre situazioni rappresentate: ognuno dei fratelli è infatti costantemente colto nell’essenza del suo essere allegoria di qualcosa, e manifesta attraverso dettagli, atteggiamenti e peculiarità proprie gli elementi caratteristici dell’aspetto dell’esistenza umana che rappresenta. Ognuno di loro, ad esempio, conserva un sigillo che ne incamera il potere: tali sigilli non sono che emblemi, e il modo in cui i rispettivi proprietari parlano, pensano e agiscono è diretta espressione dell’aspetto di cui sono allegoria. La figuratività permane, dunque, come caratteristica fondamentale, portatrice del velo allegorico: il particolare incontro di immagine e testo che si realizza nel linguaggio del fumetto fa sì che tale velo si dispieghi ancor più a fondo, facendosi ancor più ramificato.

The Sandman è un’opera corale, un maestoso omaggio alla naturale propensione dell’essere umano a narrare le storie del mondo: in essa l’allegoria trova spazio nei cunicoli di un racconto fatto di migliaia di frammenti. Mai come in questo caso la costellazione di significati di Benjamin trova la sua piena espressione.

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