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Mondi POPLetteraturaIl romanzo fa davvero bene al fumetto?

Il romanzo fa davvero bene al fumetto?

Sappiamo un po’ tutti come è andata. Negli anni Settanta Will Eisner torna al fumetto narrativo (dopo vent’anni di fumetto didattico per l’esercito americano), e dopo aver tergiversato un po’ con cose varie, capisce che affinché il fumetto possa conquistare pubblicamente la dignità culturale che si merita deve cambiare i suoi formati di pubblicazione, o almeno acquisirne altri, o meglio, un altro: il formato libro. E libro vuol dire romanzo; e quindi romanzo a fumetti, graphic novel.

In Europa si faceva già, in Francia da ben quarant’anni; e questo, almeno in Francia, aveva davvero contribuito a migliorare la pubblica considerazione del fumetto. In Italia, si faceva molto meno, e restava un bel po’ di strada da fare, dal punto di vista della pubblica considerazione, Ma il rinnovamento intellettuale del fumetto aveva già almeno un decennio anche qui, a partire dalla nascita di Linus. In ogni caso, Eisner aveva ragione, e il tempo gliel’ha riconosciuta. Se oggi in Italia ci sono recensioni a proposito di graphic novel su giornali e riviste che mai prima si sarebbero sognate di pubblicare recensioni su fumetti, lo dobbiamo anche alla sua invenzione (oltre che alla qualità delle opere con cui l’ha in seguito sostenuta).

Riconosciuto questo, e assumendo la riconosciuta pubblica dignità intellettuale che il fumetto si meritava, è arrivato il momento di porsi un’altra domanda, che riguardi non le strategie di successo nel contesto culturale alto, ma il guadagno effettivo di qualità che il fumetto avrebbe ricevuto dall’invenzione della graphic novel. In altre parole, il romanzo fa davvero bene al fumetto?

Qualche vantaggio, indubbiamente c’è, rispetto alla narrativa seriale, ovvero una certa maggiore libertà degli autori, e soprattutto (ma non necessariamente) una minore stringenza delle consegne, che permette un lavoro più approfondito. Anche per questo (ma non solo per questo) abbiamo avuto anche graphic novel straordinarie, degne dei premi letterari che talvolta hanno vinto e talaltra ci sono andate vicino – insieme a tanta fuffa, il che è normale e in sé non depone né pro né contro. E però ci sono stati (ci sono) prodotti seriali che, a dispetto della loro maggiore difficoltà di produzione, sarebbero altrettanto degni di vincere quei medesimi premi, ma non possono partecipare perché non sono romanzi. Pensate al lavoro di Pratt, in generale. Oppure io penso al Kozure Okami (Lone Wolf and Cub) di Koike e Kojima, di cui mi sono riletto questa estate i 142 episodi (in vacanza, su iPad) facendo fatica a sospendere la lettura, e riattaccandola ogni volta che potevo.

Kazuo Koike e Goseki Kojima, Lone Wolf an Cub, Episodio 45
Kazuo Koike e Goseki Kojima, Lone Wolf an Cub, Episodio 45

Il punto è che per noi, oggi, in Occidente, dire racconto di qualità vuol dire romanzo, ovvero un racconto di una certa durata e struttura, dotato di una certa unitarietà, ovvero avente al centro una qualche vicenda che si sviluppa e arriva a conclusione, pur potendo articolarsi in sottovicende, e pur potendo divagare in vicende secondarie ma collegate. Questa idea di racconto è per noi così forte da articolare anche il film. Ma nel film lavora anche qualcos’altro, e quel qualcos’altro è il teatro. Il teatro è stato il primo contesto in cui, per esigenze spazio-temporali di rappresentazione, il racconto ha dovuto avere quel centro narrativo che permetta di individuare un’unità narrativa in un dramma o una commedia. I requisiti aristotelici di unitarietà spaziale, temporale e di sviluppo andavano in questo senso. E il teatro era quel contesto, presso gli antichi Greci che ne sono stati gli inventori, in cui si prendeva un frammento della sterminata saga della mitologia, ricorrente e interconnessa, per farne un racconto unitario, dotato di capo e coda. Ma siccome dietro al teatro stava la serialità irredimibile della mitologia, era naturale poi che molte storie si organizzassero in sequel, dall’Orestiade di Eschilo (Agamennone, Le Coefore, Le Eumenidi) ai due Edipo di Sofocle (Edipo re, Edipo a Colono). Dove però le esigenze di unitarietà erano più deboli, come nei poemi, le saghe e le serie sono rimaste la norma sino al diciassettesimo secolo: pensate, per esempio, ai poemi cavallereschi tipo Orlando Furioso, dove non c’è una vicenda centrale, se non vaga e quasi pretestuosa, ma un continuo svilupparsi di situazioni, che si creano, si intrecciano e si concludono generandone a loro volta nuove, proprio come nelle telenovelas.

Il primo grande romanzo, ancora piuttosto seriale nella sua struttura interna, nasce tra sedicesimo e diciassettesimo secolo, ed è il Don Chisciotte di Miguel Cervantes. Si potrebbe ipotizzare che la nascita del romanzo, come struttura narrativa unitaria, corrisponda, grosso modo, allo sviluppo di altre strutture basate sulla presenza di un riferimento unitario: la musica tonale, che si fonda sulle tensioni derivate dall’allontanamento e riavvicinamento a una nota cruciale (la tonica, appunto) è praticamente coeva, come nascita, al romanzo; la prospettiva, come riduzione dello spazio a un punto di vista unitario, è precedente di un paio di secoli. Tutti questi fenomeni vanno nella direzione dell’affermazione del soggetto, dell’io personale, inteso come autonomo e separato dalla comunità, consacrato definitivamente dal cogito cartesiano e dalla sua invenzione di una res cogitans interna e separata dalla res extensa. Del resto, anche l’Illuminismo e la democrazia sono conseguenze più tarde del medesimo processo.

Succede però che, una volta che la democrazia e una maggior uguaglianza non sono più soltanto proiezioni degli intellettuali illuministi, ma situazioni realizzate, quelle istanze della cosiddetta bassa cultura, o cultura popolare, che era facile tenere ai margini in un contesto aristocratico, ritornano progressivamente in gioco. Certo, si trattava di roba meno raffinata di quella che l’alta cultura europea stava macinando da qualche secolo, che avrebbe avuto scarse possibilità di affermarsi se non ci fosse stato il Nuovo Mondo. Perché, infatti, il Jazz e il fumetto nascono in America e non in Europa? Certo in Francia e Inghilterra esistevano da tempo le storielle raccontate con parola e immagini, ma era la parola comunque a raccontare mentre l’immagine illustrava; oppure erano le storie mute di Töpffer e Caran D’Ache, da cui però la parola era esclusa, secondo una tradizione europea antica. Solo in un contesto in cui l’alta cultura europea è indebolita dalla lontananza e dal senso di alterità rispetto al Vecchio Mondo si può accettare che si imponga qualcosa di così diverso dalla norma musicale o narrativa. Questo qualcosa si impone localmente, si rafforza poi trovando rispondenza nel pubblico, e infine inevitabilmente acquisisce anche una dimensione intellettuale – e a questo punto (solo a questo punto)  l’Europa si accorge che esiste, e la fa sua, e vi si appassiona a sua volta (tra mille polemiche, inevitabilmente, perché è comunque un tradimento dell’alta cultura europea).

Adesso che tutto questo è acqua passata, e il Jazz e il fumetto (e anche altro) hanno acquisito anche in Europa la dignità che si meritano, e che si può finalmente ragionare in termini per cui alta cultura e bassa cultura sono espressioni storiche, o al massimo indicazioni di (macro)genere, ma certo non indicatori di qualità maggiore o minore; adesso insomma che incominciamo a liberarci del fardello dell’arte aristocratica, e che il soggetto e la concezione dell’io che ne deriva sono andati in crisi almeno in certe visioni filosofiche, indizio dell’avviamento di un processo destinato ad ampliarsi; adesso che possiamo guardare al problema senza troppo timore (un po’ ancora sì, certo) di essere ributtati nell’irrilevanza, è ora finalmente di domandarci se il romanzo sia davvero la strada maestra del racconto, o persino se il racconto sia la strada maestra dell’arte.

David B., L'Ascension du haut mal
David B., L’Ascension du haut mal

È solo una domanda, che voglio porre, senza avanzare risposte definite, che non possiedo. Ma è una domanda che si può raffinare. Per esempio, la dominanza del genere autobiografico nel fumetto, o in generale di approfondimento interiore dei personaggi, non è forse un omaggio o un adeguamento a una tendenza analoga e vincente nell’universo del romanzo, a partire da quello che ci è stato insegnato a scuola? Siamo di nuovo nel campo della strabordanza dell’io. Ce n’è bisogno anche nel fumetto? (e ce n’è davvero bisogno nel campo del romanzo? anche se, certo, le opere importanti di questo tipo non sono mancate) E quali sono le alternative? Non so. Tra le opere di carattere autobiografico che ho amato di più c’è un Grande Male dove mi hanno appassionato molto di più i trattamenti in termini fantastici che non le vicende che venivano così trattate, oppure c’è un LMVDM dove è più la frammentazione (anche grafica) dell’io a colpire, che non la sua vicenda. Non ho ricette. Ma il problema lo sento.

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