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RecensioniNovitàManuele Fior, il Museo d'Orsay e l'ispirazione

Manuele Fior, il Museo d’Orsay e l’ispirazione [Recensione]

Come ogni capitale europea, Parigi è attraversata da una fitta trama museale, che al contempo sollecita e atterrisce il turista, che con il fiato sul collo deve fare scelte e quindi per forza di cose rinunciare alle esposizioni meno conosciute, ma non per questo meno affascinanti. E’ il caso ad esempio del Musée Rodin, ospitato dal dismesso Hôtel Biron in Rue de Varenne – in prossimità del Musée de l’Armée – il cui fascino discreto può rappresentare una sosta corroborante, nell’affannosa corsa del collezionista d’esperienze culturali. I suggerimenti potrebbero moltiplicarsi a dismisura – sino a comprendere i passages immortalati dalla penna di Benjamin che ne aveva intuito la (post)modernità – ma di certo la vocazione di queste pagine non è quella di fornire un vademecum, bensì di parlare di una delle istituzioni museali più importanti di Parigi: il Musée d’Orsay. O meglio, di un’opera che cerca di immortalare l’anima dell’Orsay a partire dalle invisibili legami che intrecciano le opere ivì esposte.

Nell’ambito di un progetto di lungo corso che vede l’editore Futuropolis interagire con i maggiori musei della capitale francese – ricordiamo almeno due titoli come La Traversata del Louvre di David Prudhomme e  I sotterranei del Revolù di Marc-Antoine Mathieu – il nostro Manuele Fior, ormai in pianta stabile a Parigi da anni, dedica un’opera preziosa e attenta proprio al Musée D’Orsay: Le Variazioni d’Orsay. I lettori italiani non dovranno aspettare tempi biblici per poterne gustare una traduzione, perché Coconino Press – da tempo editore che cura le opere di Fior – sta per pubblicarne la traduzione italiana.

Leggi anche: “Le variazioni d’Orsay, il mio esercizio di stile”. Intervista a Manuele Fior

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Per quanti hanno amato le atmosfere secessioniste e art noveau de La Signorina Else, Le Variazioni d’Orsay sarà una bella sorpresa. Fior, infatti, ritorna dopo la prova precedente – L’intervista – a confrontarsi con il colore, in una sfida in cui la mimesi e l’omaggio non ossequioso, ma creativo sono la cifra di un’opera leggera nel suo attraversare in punta di piedi le sale del museo parigino, ma al contempo conservando una forte criticità. Non è un caso che Fior legga il museo, ideato dall’architetta italiana Gae Aulenti, attraverso la tecnica della variazione. L’andamento rapsodico ed onirico del volume è fatto di temi che si rincorrono, improvvisando con una materia edace come la Storia. Fior parte da un tema prosaico e quotidiano, confondendo i piani storici a partire dai primi del Novecento per poi saltellare come in una passacaglia, tra il presente e il passato, richiamando aneddoti e memorie attraverso le tele, non semplici simulacri, ma finestre sulla vita.

Il fascino delle Variazioni risiede nelle associazioni e nelle assonanze che l’autore crea, infischiandone di una trama unitaria. Certo venuta meno l’unità d’azione e di tempo, il rischio potrebbe essere quello di trovarsi una materia caotica nelle mani, ma l’intelligenza di Fior schiva la minaccia, tratteggiando, invece, un’idea alternativa tanto di museo quanto di fumetto. Nella traversata che Prudhomme aveva dedicato al Louvre, museo bulimico per eccellenza, non era peregrina l’idea secondo cui il museo come contenitore d’opere affastellante secondo precisi criteri tematici, ma a volte stridenti, potesse essere visto come un correlato materiale dello spazio bianco del fumetto, un tutto abbracciante che trattiene una serie di quadri in un insieme i cui confini spesso netti e precisi, possono anche diventare sfuggenti e fumosi. Questa fumosità è la struttura logica del fumetto di Fior.

Leggi anche: Come disegna Manuele Fior

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Lo spunto onirico mette in relazione il simbolismo di un Henri Rousseau – il Salgari della pittura – con la presenza greve della guardiana del museo: un’Eva nera ai cui piedi strisciano le anime degli artisti. Claude, Auguste, Edmond, Paul, Cezanne etc etc. Una generazione di rottura e transizione, che per prima incominciò a sfaldare i confini del figurativo per occuparsi della tessitura, del colore, dello sguardo più che dell’oggetto, che mostrò come il realismo non fosse che un modo di guardare il mondo, non il mondo nella sua immediatezza, che dietro la figura vi era un rimando, una profondità semantica, un’apertura. Come dire che un semplice paio di scarpe trasandate e sfondate dalla fatica dei campi potessero attraverso la pennellata grassa di un Van Gogh farsi mondo, trascendendo il mero rapporto tra figura e significato.

Ma non si tratta solo e sempre di metafisica. C’è qualcosa di più prosaico e materiale, di ferino nelle tracce inseguite da Fior. Vi è il gusto per l’aneddoto, la curiosità, l’erudizione, la quotidianità che si cela dietro le tele. Fior usa Degas per intrecciare attraverso la sua vita la trama dei ricordi, per far sfilare sotto gli occhi del lettore le opere più importanti esposte nell’Orsay:

«Quando mi hanno proposto il progetto, ho subito accettato: il museo d’Orsay, per me, è il museo più bello di Parigi. Il periodo storico su cui si concentra – una trentina d’anni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento – è quello che mi ritrovo più spesso a guardare e copiare. Passo quindi intere giornate vagando per le collezioni, fantastico, poi torno a casa, leggo, mi metto a disegnare».

Nelle parole di Fior c’è in filigrana l’insegnamento che Ingres dà al giovane ed entusiasta Degas, che ormai cieco non dimenticherà le suggestioni del maestro: «più linee […] lasci correre quella matita come una mosca sfiora un foglio di carta. Solo così diventerà un buon artista». E Fior è ormai un metro di paragone per valutare la bontà del fumetto d’autore italiano, perché non ha mai nascosto le influenze e la dedizione ai maestri e un’idea dell’atto creativo che è continua ricerca ed approfondimento. Non è quindi un caso che uno dei quadri attraverso cui leggere Le variazioni sia proprio un’opera di Degas: Sémiramis construisant Babylone.

Un’opera questa che accompagnò l’artista per tutta la vita, attraversando mode e tendenze in un accorato dialogo con il passato, con un’idea ben consolidata di fare arte, debitrice della lezione di Ingres. Ed è la figura di quest’ultimo ad imporsi come insuperabile modello di classicismo e di rottura: L’Orsay, allora, è uno scrigno, ma anche un passaggio, una frattura, un cerbero, apparentemente mansueto sbuffa vitalità e stridente rumore di leve negli ingranaggi della storia, molto spesso nascosti dietro la cortina di fumo e nebbia.

Fior mostra dunque sentieri, possibili declinazioni, attraversamenti e disarticolazioni di un tema centrale e imponente come quello dell’ispirazione e lo fa sfruttando uno dei più accoglienti musei parigini.

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