Ho comperato il Flash Gordon di Dan Barry e Harvey Kurtzman (pubblicato da Cosmo, tutte le strisce giornaliere 1951-1953) perché stimo Barry come disegnatore, ma soprattutto Kurtzman come sceneggiatore. E sono rimasto deluso, annoiato e deluso, così annoiato che sono arrivato sino in fondo più per dovere che per piacere. Devo dire che da Kurtzman mi aspettavo ben altro, visto quello che poi ha fatto, e che stava anche già facendo in quegli anni. Le storie sono banali, scontate, del tutto prevedibili, del tutto classificabili negli stilemi delle storie avventuroso-brillanti di quegli anni, con inevitabili riferimenti impliciti ed espliciti all’età d’oro di Flash Gordon, quella di Alex Raymond.
Ed è stato così che mi sono trovato a paragonare queste storie con quelle, accorgendomi che, tutto sommato, anche le storie del periodo raymondiano non brillano di particolare originalità, e la prevedibilità è ugualmente straordinaria. Eppure…
Eppure le tavole domenicali di Flash Gordon disegnate da Raymond per 10 anni dal gennaio del ’34 all’aprile del ’44 sono tutt’altro che noiose. Sono tornato a rileggermele qua e là e, come sempre, facevo fatica a staccarmene, non a restare lì. E tuttavia, se astraevo da quello che avevo davanti agli occhi cercando di concentrarmi solo sulla storia che si stava raccontando, non è che la situazione fosse migliore che nel caso di Kurtzman.

Insomma, ecco un bel quesito da filosofia del fumetto, nello specifico da estetica del fumetto: data per assunta l’equivalente qualità (scarsa) delle storie raccontate in Flash Gordon nei due periodi in esame, da cosa dipende il differente effetto complessivo del testo? La risposta facile è, evidentemente, che Raymond è miglior disegnatore di Barry, e questo è innegabile; ma siccome Barry non è comunque l’ultimo venuto, e sarebbe davvero difficile sostenere che non è un ottimo disegnatore, da cosa dipende, specificamente, la differenza? Che cosa c’è nelle immagini di Raymond che manca in quelle di Barry? O anche, detto in un altro modo, che cosa rende Alex Raymond un genio, e Dan Barry semplicemente un buon disegnatore?
Sgombriamo prima di tutto il campo da un elemento che pesa solo in apparenza, ovvero la periodicità. Da un lato abbiamo strisce quotidiane, dall’altro tavole settimanali. Tipicamente alle seconde è tecnicamente possibile un maggior virtuosismo grafico, visto il maggiore spazio a disposizione; ma se osserviamo i disegni di Raymond e di Barry ci accorgiamo che quelli più articolati, ricchi di segni e di dettagli, sono semmai quelli di Barry – e Raymond aveva a disposizione solo una mezza pagina, che sfruttava tipicamente come se fossero due strisce, senza grandi virtuosismi di gabbia grafica (eccetto, ma solo in parte, nel 1935, per arrivare poi a una struttura regolare che non abbandonerà più). In secondo luogo, alle storie con cadenza di pubblicazione settimanale non si può chiedere il livello di complessità narrativa che si può chiedere alle strisce quotidiane; e questo per banali ragioni di memoria: con una trama troppo complessa, a distanza di una settimana ci raccapezza di meno che a distanza di un giorno. Il che, a pari qualità di sceneggiatura, privilegerebbe le tavole domenicali. Tuttavia, questo potrebbe spiegare il maggior successo di Raymond rispetto a Barry per i suoi lettori dell’epoca, che leggevano tavole e strisce con la cadenza cui erano destinate; ma io ho letto entrambe tutte di seguito, come se fossero romanzi (grafici), senza problemi di memoria settimanale o quotidiana, e ugualmente Raymond mi ha affascinato e Barry annoiato.
A forza di guardare immagini di Raymond, alla fine un’idea me la sono fatta. Sono cose che in parte già sapevo (e ne ho scritto altrove) e in parte non avevo collegato tra loro. Prendiamo in esame il periodo migliore di Raymond, dal 1939 al ’41, e guardiamo le inquadrature. Che Hollywood imperi non è certo difficile notarlo: è un fatto noto che Raymond possedeva un’ampia collezione di foto di scena, dalle quali attingeva a piene mani. Tuttavia credo che il punto stia nel fatto che questo evidente riferimento cinematografico (al mito cinematografico) è continuamente corretto nelle posture dei personaggi e nei tagli delle inquadrature attraverso riferimenti a una monumentalità classica, statica o dinamica a seconda del caso, ma nella quale non è troppo difficile ritrovare le forme di tanta pittura e scultura dei secoli scorsi – sino alla grecità. Raymond ha un gusto compositivo straordinario, lavorando con figure sia dinamiche che statiche, giocando teatralmente con le ombre (inventando modi grafici di rendere le ombre come strumenti emotivi), e costruendo complessivamente una sorta di scena in cui gli attori in gioco finiscono per apparire come i personaggi di una tragedia greca. In più, è efficacissimo nel tagliare temporalmente l’immagine, fermando i personaggi in quella frazione di gesto che risulta maggiormente significativa per rendere la sensazione del gesto nella sua interezza, tanto che sia un ampio movimento come un aggrottare le ciglia.
Vedendo le cose in questo modo, ecco perché Raymond surclassa Barry: perché la sua capacità di interpretazione grafica è in grado di rendere mitica, tragica, epica, la vicenda di Flash Gordon. Tutto sommato, potremmo azzardare, persino il mito greco non ci affascina per la particolare originalità delle vicende; il fascino, nel suo caso, deriva in parte dal fatto che quelle vicende sono l’originale di cui tutte le altre sono copie, e in parte dal fatto che quelle vicende hanno avuto narratori d’eccezione, fossero Omero o Esiodo, o Eschilo e gli altri tragediografi. Se andiamo a riguardare i disegni di Dan Barry, alla luce di queste osservazioni, che cosa troviamo? Troviamo un cinema americano anni cinquanta ottimamente reso, e nulla più; e, come nel cinema, le immagini (i disegni, qui) sono del tutto funzionali alla resa della storia, al raccontare; e le storie raccontate, come abbiamo detto, sono quel che sono. Se si aggiunge che il cinema hollywoodiano degli anni cinquanta ha sì prodotto alcuni capolavori, ma al di fuori di quelli non ha una grande portata mitica, tragica o epica, ecco che capiamo la scarsa efficacia di Barry, e la necessità, qua e là, di introdurre elementi umoristici per tenere viva l’attenzione.

Dire a questo punto che il Flash Gordon di Raymond è quindi fatto di storie banali a cui si accompagna un’altissima qualità grafica lascerebbe però pensare a una situazione in cui il racconto serve solo per mettere in fila tante belle immagini, e il piacere sta nella contemplazione di quelle. Le cose stanno diversamente: il fatto affascinante è semmai che la qualità delle immagini di Raymond finisce per riscattare il racconto, e renderlo a sua volta interessante. Sono le immagini stesse a fare la qualità del racconto!
C’è una morale, una morale estetica in tutto questo. Non si vuole sminuire il valore delle belle sceneggiature. Ben vengano se ci sono, perché evidentemente una buona sceneggiatura è già una buona promessa di una buona storia. E tuttavia è possibile creare un prodotto di altissimo livello estetico persino a partire da sceneggiature banali, purché se ne sappiano sfruttare le potenzialità mitopoietiche. E’ interessante osservare come cambia il disegno di Raymond quando passa a fare Rip Kirby, dove fin dall’inizio si ritrova a mettere in scena storie più complicate e interessanti: non c’è più bisogno di costruire il mito, e si resta a cavallo tra cinema e teatralità, sempre egregiamente.
Io credo che il lettore di Flash Gordon, e tanto più quello che lo seguiva settimanalmente negli anni in cui è stato creato, non godesse tanto per lo sviluppo della trama, per le aspettative del racconto. Settimana per settimana, piuttosto, in quei momenti di lettura, il lettore si trovava per un attimo proiettato in un universo meraviglioso, quello appunto del mito, della tragedia, dell’epica: in questo universo la storia c’è, indubbiamente, ma è poco più che un collante per tenere insieme figure e situazioni che portano su di sé la quasi totalità della fascinazione. Non era per sapere “come va a finire” che si leggeva (che si legge) Flash Gordon, ma per seguirlo, settimana per settimana, nel suo percorso di gesta, nel suo essere, da un lato, uno di noi, e dall’altro un semidio.
Questo, Dan Barry non era capace di farlo. O era forse finita l’epoca in cui lo si poteva fare, almeno per quel genere narrativo? Be’, Mac Raboy, in quei medesimi anni, seppure non al livello di Raymond, lo sapeva fare pure lui.