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I cinecomic italiani sono vivi e vegeti

Se c’è una cosa che questa Lucca Comics & Games 2015 ha dimostrato è che in Italia è possibile girare cinecomic di qualità: non mastodontici blockbuster da milioni e milioni di dollari di budget, ma opere compatte, coerenti, che possano vivere di una vita propria (e che non abbiamo bisogno, comunque, di una base fumettistica già consolidata).

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Lo chiamavano Jeeg Robot

Il cinecomic, per definizione, prende spunto da un’opera già esistente, una serie o un libro a fumetti. Nel caso di Lo chiamavano Jeeg Robot, presentato a Lucca dopo la Festa del Cinema di Roma, non è così: il film di Gabriele Mainetti, con Claudio Santamaria protagonista, è un film totalmente originale, che cita e si rifà a un genere, senza tuttavia cercare di rivaleggiare con le major americane (e come potrebbe? Mainetti ha avuto a disposizione “solo” 1.6 milioni di euro di budget, molto meno non solo di un qualsiasi action internazionale ma pure di buona parte delle commedie girate in Italia).

Siamo nella periferia romana, ai giorni nostri, e il protagonista è un criminale che, per puro caso, ottiene dei superpoteri. Da quel momento, dovrà decidere come utilizzarli. Una ragazza gli insegnerà ad amare (Ilenia Pastorelli) e un cattivo (un Luca Marinelli che ricorda il Joker di Nolan) lo costringerà a venire allo scoperto. È la tipica genesi dell’eroe (“da grandi poteri derivano grandi responsabilità”) con il conflitto interiore tra “fare del bene” e “pensare a sé stessi”.

In un sotto testo ricco di richiami ai manga e agli anime (Jeeg Robot?) e ai cinecomic d’autore (come Il Cavaliere Oscuro di Nolan), si intravede la speranza per l’Italia di ritagliarsi un suo pubblico, senza strafare in azione (il budget resta relativamente basso per un film del genere) e senza giocare a scimmiottare gli americani. Il segreto è mettere al primo posto la coerenza, creando dei personaggi credibili pure in un contesto (superpoteri? Forza sovrumana?) di fantasia.

La stessa cosa la fa Monolith di Ivan Silvestrini, film prodotto da Lock and Valentine e SKY Italia e presentato in anteprima a Lucca con un teaser e un breve estratto del backstage. Anche qui abbiamo una storia essenziale, minimal, che vira velocemente verso tinte più thriller e ansiogene e toni narrativi che giocano al rilancio sulla paura e la tensione.

Leggi anche: Dettagli su Monolith, il nuovo fumetto Bonelli di Recchioni, Uzzeo e LRNZ

Monolith
Monolith

In questo caso, un fumetto – o comunque: una radice fumettistica – alla base c’è: l’idea è di Roberto Recchioni, che dopo averne parlato con Lorenzo Ceccotti, in arte LRNZ, ha deciso di farne un film. Mauro Uzzeo, già co-sceneggiatore di Orfani e di Dylan Dog, ha lavorato allo script e, sempre insieme a Recchioni, alla sceneggiatura del fumetto che è stato poi disegnato da LRNZ. Quindi “cross-medialità”, cioè più media e più format, senza però scadere – cosa essenziale – nell’eccesso o nell’imprevedibilità di una trama troppo ampia. In Monolith non ci sono superpoteri, ma fantascienza. All’azione viene preferita la tecnologia e a un’ambientazione urbana, una più ridotta e limitata: l’interno di un’automobile.

Quello che unisce questi due film, entrambi in arrivo nel 2016, è l’attenzione ai dettagli: non sono due storie totalmente e inverosimilmente impossibili. I due mondi che Mainetti da una parte e Silvestrini dall’altra ci vogliono raccontare sono possibili, coerenti, interessanti. Lo spettatore dimentica – o è destinato a dimenticare, vedendo il teaser di Monolith – che quello che sta guardando è “finzione”; si lascia coinvolgere dalla sceneggiatura e dall’ambientazione, e finisce tra le mani sapienti di autori, registi e attori.

Il cinecomic all’italiana, quindi, è un cinecomic più artigianale, più interessato alla scrittura e alle interpretazioni; è un cinecomic diverso e allo stesso tempo uguale a quello americano: perché la sua missione, il suo obiettivo principale, resta stupire il pubblico senza tuttavia trascinarlo nella consapevolezza dell’impossibilità di quello che sta guardando (qui la differenza più importante). Quindi più cautela, più strutture e più limiti autoimposti. La consapevolezza, insomma, di quello che si può e di quello che non si può fare. Finalmente abbiamo capito qual è il nostro posto, cosa dobbiamo fare per allargare i nostri orizzonti e il nostro cinema: fare di un prodotto commerciale un prodotto autoriale, trascinare in casa una partita che altrove, su un altro terreno, non riusciremmo mai a vincere.

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