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FocusProfiliDa Watchmen a Orfani. Una ‘tavolozza’ rotonda sui colori

Da Watchmen a Orfani. Una ‘tavolozza’ rotonda sui colori

Il colore è uno degli elementi cardine del fumetto, su cui si lavora con sempre maggiore enfasi per catturare il pubblico casuale o di neofiti, che entra in contatto con il mezzo innanzitutto con l’aspetto visivo; tanto all’estero, dove i coloristi stanno combattendo per una maggiore consapevolezza del loro ruolo da parte dell’industria, quanto in Italia, anche grazie all’apertura verso la quadricromia di realtà cromaticamente manichee come Bonelli.

Fumettologica ha organizzato una tavola rotonda con i più importanti coloristi mondiali per farli discutere sullo stato dell’arte del loro lavoro, dagli aspetti creativi a quelli pratici (sì, anche quanto guadagnano).

Prima di iniziare, è necessaria una breve presentazioni dei partecipanti:

Frank D’Armata, evergreen Marvel, ha colorato lunghi cicli di storie di Iron Man, New Avengers, Capitan America e Astonishing X-Men.

Lorenzo De Felici e Annalisa Leoni sono i responsabili, insieme a un nutrito gruppo di colleghi, dei colori di Orfani e dei vari speciali a colori di casa Bonelli. De Felici è fumettista completo e ha lavorato spesso Oltralpe, mentre Leoni è character design in alcuni studi d’animazione, illustratrice e colorista per libri d’infanzia.

Brigitte Finkdale, suoi i colori terrosi della serie Il gatto del rabbino di Joann Sfarr e di Ritorno alla terra di Jean-Yves Ferri e Manu Larcenet. Ha spesso collaborato con il marito Lewis Trondheim (Lapinot, Ralph Azham).

All’inglese John Higgins basterebbe mettere nel curriculum il suo lavoro su Watchmen per sistemarsi a vita. Non pago, ha voluto mettere il suo nome su robetta tipo Batman: The Killing Joke.

Matt Hollingsworth (Hellblazer, Daredevil, Hawkeye, Preacher, Alias) è uno dei più noti coloristi contemporanei. È stato direttore tecnico di film come Serenity e Superman Returns, nonché giudice in concorsi di birre artigianali, nobile arte di cui è un grande appassionato.

Paul Mounts, braccio destro di Bryan Hitch, ha colorato quasi tutti i lavori di quest’ultimo (tra i tanti, Ultimates, America’s Got Powers, Age of Ultron), nonché titoli di punta come Wanted, Harley Quinn e Fantastic Four.

Ruby, all’anagrafe Véronique Dorey, colorista di fiducia di Cyril Pedrosa (Brigade Fantôme, Auto bio e parte di Portugal), è attiva nel mercato francese con serie come Le roi des mouches.

José Villarrubia è il colorista di Jae Lee, Paul Pope e Jeff Lemire; ha fatto la spola tra Marvel, DC, Dark Horse e Valiant colorando oltre seicento fumetti. Decidete voi se tra i suoi lavori figurino meglio Batman: Year 100 o What If Jessica Jones Had Joined the Avengers?.

Matthew Wilson è il terzo membro del team di Phonogram e The Wicked + The Divine, lo stesso che ha prodotto la nuova iterazione della serie Young Avengers; è stato nominato per un Eisner Award per la colorazione di Adventures of Superman, Daredevil, Thor e The Wicked + The Divine.

Finite le presentazioni, si può cominciare con le domande, dopo l’immagine.

The Wicked + The Divine, colori di Matt Wilson.

Che tipo di background avete?

Frank D’Armata: Sono autodidatta.

Brigitte Finkdale: Anch’io sono autodidatta. Ho studiato economia e nel mio percorso di vita ho incontrato degli sceneggiatori che mi hanno instillato la voglia – e dato la possibilità – di diventare colorista.

John Higgins: Art college, tre anni di studi come illustratore e pittore (studiando anatomia, prospettiva e le varie tecniche di pittura). Quel corso copriva veramente tutte le aree di competenza tecnica che dovrebbe avere un pittore.

Lorenzo De Felici: Ho frequentato la Scuola Romana dei Fumetti, una volta uscito da là ho cominciato quasi subito a lavorare come storyboard artist e come colorista a fianco di alcuni miei ex-professori.

Annalisa Leoni: Come Lorenzo, ho studiato alla Scuola Romana dei Fumetti. Prima di allora non avevo mai fatto studi in campo artistico. Durante la SRF ho avuto le mie prime esperienze lavorative, soprattutto nel campo dell’animazione, come storyboard artist, character ed environment designer. I primi lavori da colorista invece sono molto più tardivi e corrispondono a lavori di colorazione in stile umoristico per Piemme Junior e per Glénat.

Paul Mounts: Io ho frequentato la American Academy of Art di Chicago. Ho partecipato a due anni di corsi sul disegno dal vivo, un anno di design grafico e uno di illustrazione. Dopo la laurea, ho lavorato con lo Storyboard Studio, sempre di Chicago, e lì ho passato tre anni a realizzare storyboard e animatic per spot televisivi. All’epoca, a Chicago erano presenti diversi editori, NOW Comics, First Comics e Comico. Sono diventato editor e art director alla NOW Comics (usavo lo pseudonimo di Cygnet Ash). Facevo un po’ di tutto: sceneggiavo, disegnavo, inchiostravo, facevo il lettering, le copertine, il design degli albi. E ovviamente i colori. Era il 1987.

Ruby: Ho studiato in una scuola d’arte grafica, ma ho abbandonato i corsi prima di diplomarmi. Ho iniziato a lavorare come illustratrice. Se ben ricordo, i miei primi lavori sono apparsi su Heavy Metal.

José Villarrubia: Io ho preso lezioni private di pittura a 12 anni. Poi ho fatto l’accademia e sono andato all’Università di Madrid. Mi sono trasferito a Baltimora e lì mi sono laureato al Maryland Institute College of Art con un Bachelor’s Degree in belle arti. Dopodiché ho frequentato la Towson University e ho conseguito il Master of Fine Arts.

Matt Hollingsworth: Ho frequentato la Joe Kubert School subito dopo il liceo. La scuola non ti permette di specializzarti fino al terzo anno, quindi impari tutte le tecniche di produzione di un fumetto, da lettering a design, matite, chine, colori e pittura. Ho avuto un grande insegnante, Dennis Corrigan, che mi ha ispirato e ha fatto nascere in me l’amore per il colore e la pittura. Quando ero ancora al secondo anno iniziai ad andare a New York a proporre i miei lavori a Marvel e DC.

Era il 1990. All’epoca chiamavo per telefono gli editor e fissavo appuntamenti con loro. Non penso che adesso sarebbe possibile una cosa del genere. Comunque, andavo spesso da loro. Ascoltavo quello che avevano da dirmi e cercavo di incorporare quei suggerimenti nei miei lavori, imparando tanto da loro quanto dalla scuola. Mi sono diplomato nel maggio 1991, era un mercoledì. Il venerdì mi offrirono lavoro in tutte e due le compagnie. Mike Carlin, alla DC, mi diede da colorare un annual di Action Comics.

Matthew Wilson: Ho frequentato un istituto d’arte e poi ho studiato fumetti al Savannah College of Art and Design (SCAD). Dopo la laurea ho lavorato nello studio di coloristi di Lee Loughridge, lo Zylonol Studios. Lì ho fatto esperienza, c’era molto lavoro e ho capito fin da subito cosa volesse dire rispettare le scadenze. Dopo cinque anni allo Zylonol mi sono messo in proprio e ho colorato alcuni fumetti di Jamie McKelvie per la Image (Suburban GlamourPhonogram Vol 2). Il mio primo lavoro importante è stato uno albo Marvel. Ho ricevuto l’incarico perché un mio amico sceneggiatore era amico del disegnatore che aveva bisogno di un colorista. Il disegnatore ha valutato i miei lavori e mi ha raccomandato agli editor. Nello stesso periodo Kieron Gillen, Jamie McKelvie e altri colleghi che conoscevo avevano iniziato a lavorare per la Marvel e mi hanno spianato la strada.

Watchmen, colori di John Higgins.

Il colorista è un lavoro che si può paragonare al direttore della fotografia. È un ruolo chiave per la resa finale del prodotto, ma da ragazzini tutti vogliono fare i registi, non i direttori della fotografia. Voi avevate in mente il mestiere del colorista fin da bambini o ve ne siete appassionati in seguito?

Lorenzo De Felici: Da ragazzini tutti vogliono fare i registi perché i tecnici della fotografia non sanno nemmeno cosa siano. E tristemente, questa ignoranza tende ad accompagnare la stragrande maggioranza dei fruitori d’arte anche in età più avanzate. Io non avrei mai immaginato di diventare un colorista, ho sempre amato disegnare ma non ho mai avuto feeling con il colore. Quando ho cominciato a colorare è stato per cominciare a lavorare nell’ambiente fumetto con il mio lato “disegnativo” non ancora pronto.

John Higgins: Nella lista dei lavori che avrei voluto fare, il colorista era all’ultimo posto. Lo sono diventato per caso, solo perché ero uno dei pochi fumettisti britannici all’epoca che usava il colore, quando la maggior parte dei fumetti era in bianco e nero.

Matt Hollingsworth: Il colore è una cosa che ho scoperto mentre frequentavo la Kubert School. Feci molte prove con la china, ma come inchiostratore non ero bravo, non mi è mai piaciuto.

Annalisa Leoni: Il mestiere del colorista non è mai stato nei miei piani, dopo le scuole superiori ho deciso che avrei voluto dedicarmi al mondo del fumetto e dell’animazione. Ho iniziato più che altro come disegnatrice e poi sono capitati anche lavori come colorista. La cosa interessante del lavoro da colorista è la possibilità di rendere più palpabili le emozioni e il mood di determinate scene grazie ad un utilizzo ragionato delle atmosfere realizzate con colori e luci.

Paul Mounts: Ecco, io da piccolo volevo proprio fare il direttore della fotografia! L’abilità di usare il colore per impostare l’atmosfera e l’umore in modo che influisse sul racconto della storia, in una maniera che all’epoca non era ancora emersa, mi entusiasmava. In Europa facevate cose che noi americani ancora non stavamo esplorando.

Matthew Wilson: Anch’io volevo fare cinema. Ho sempre disegnato, colorato, dipinto ma mi piaceva molto il cinema. E quando iniziai a frequentare la SCAD volevo laurearmi in cinema. Ma dopo il primo anno cambiai idea e deviai sui fumetti. Frequentai un corso da colorista e mi piacque. Finiti gli studi, cercai lavori attinenti alle mie passioni e per poco non mi misi a fare il concept artist per una compagnia di videogiochi. Ma accettai il posto allo Zylonol Studios di Lee Loughridge. Lì imparai davvero come colorare un fumetto, studiando con i professionisti dell’industria. Il primo lavoro che mi impressionò da quel punto di vista, e ancora mi influenza, fu Beware the Creeper, disegnato da Cliff Chiang e colorato da Dave Stewart.

Cosa rende un colorista bravo o cattivo? Uno sceneggiatore può scrivere dialoghi legnosi e un disegnatore disegnare anatomie sghembe. Un colorista cosa può fare per farsi odiare?

Lorenzo De Felici: In generale, tutto ciò che ostacola la lettura o devia l’attenzione del lettore là dove non dovrebbe o snatura/copre il disegno è un errore. Questo si traduce in innumerevoli piccoli “peccati”: ombre sbagliate che suggeriscono volumi sbagliati, colori troppo scuri, accostamenti sconsiderati, ineleganze varie. Il colorista bravo fonde il suo lavoro con quello del disegnatore, senza prendere il sopravvento. Il lavoro del colorista è un lavoro dinamico, e deve adattarsi di pagina in pagina alle esigenze della trama e del disegno.

Annalisa Leoni: Un colorista si fa odiare nel momento in cui non rispetta minimamente il disegno su cui sta lavorando. Un bravo colorista deve sapersi adattare al disegnatore ed adottare uno stile di colorazione funzionale ad esso, che lo esalti e lo arricchisca. Se invece rovina o copre il lavoro di un disegnatore allora è un pessimo colorista. Altra cosa a cui bisogna fare molta attenzione è la narrazione, un bravo colorista deve saper narrare con il colore, guidare il lettore ad una comprensione diretta e semplice, evitando colorazioni a volte troppo pretenziose che rischiano di sacrificare una fluida lettura della storia.

Paul Mounts: I cattivi coloristi tendono a sovraccaricare di informazioni l’immagine, e così tutti i dettagli, anche quelli sullo sfondo, vengono valorizzati quanto i protagonisti, non hanno il senso della gerarchia e fanno impazzire l’occhio. Oppure può succedere il contrario: in nome del ‘realismo’, colorano tutto di grigio e non c’è niente che guidi l’occhio nell’immagine. L’altro grave errore è oscurare il lavoro dell’artista/inchiostratore e soffocare le linee.

Ruby: Un buon colorista è tale se dietro c’è un buon disegnatore. Dobbiamo migliorare il suo lavoro ma anche adattarci allo stile delle immagini. Faccio un esempio: quando ho iniziato a colorare Le roi des mouches mi sono resa conto che i colori che usavo erano troppi brillanti e non adatti al disegno. Era tutto troppo vivace. Così ho preferito colori tenui, con alcuni punti di luce per non spezzare le forme e dare il senso di volumi compatti.

Frank D’Armata: In realtà, ora come ora, io penso sia difficile fare cappelle. Essere un colorista al giorno d’oggi è difficile solo perché comporta un sacco di lavoro. Vorrei complimentarmi con tutti voi perché è un lavoro davvero impegnativo.

Matthew Wilson: Un bravo colorista pensa a ogni decisione che prende e non si limita a scegliere un colore in maniera arbitraria. Legge la sceneggiatura e comunica con il team di lavoro. Il colore aggiunge un livello di narrazione ulteriore alla pagina, e ci sono aspetti di una storia che possono essere comunicati solo con i colori, come un umore o la progressione del tempo in una scena. Bisogna adattare il proprio stile al lavoro e mai fare qualcosa che vada contro le chine o che sovrasti la tavola.

Ritorno alla terra, colori di Brigitte Finkdale.

Come coloristi, penso conosciate tutti il mestiere del flatter, che nella gran parte dei fumetti non è accreditato. Qualcuno ce lo vuole spiegare?

John Higgins: Il flatter è una persona che blocca le linee del disegno inserendo colori piatti per definire le forme. Poi il colorista ci ripassa sopra aggiungendo luci e tonalità. I flatter tendono a essere coloristi non professionisti e penso che non ricevano la menzione sull’albo perché non è un lavoro strettamente creativo. Ma io do al mio flatter molto credito: è mia moglie a farmi da flatter per cui è difficile ignorarla!

Matthew Wilson: Immaginate un disegno in bianco e nero di un uomo in piedi su un prato con un cielo dietro di lui. Il flatter appone un colore per l’erba, un colore per l’uomo (vestiti, pelle, occhi, capelli) e un colore per il cielo. Ora, quando riceviamo l’immagine così composta posso selezionare velocemente uno di questi elementi con il mouse e cambiare colore, dipingerci sopra o altro, invece che passare il tempo a selezionare ogni forma da solo. Non devono essere necessariamente colori giusti, spesso non lo sono.

Matt Hollingsworth: Come dice John, a volte il flatter sceglie i colori definitivi su cui lavorare. In questo caso, dovrebbero ricevere una menzione perché hanno effettivamente contribuito al risultato finale. Ma penso siano casi rari. Il punto è che la gente non sa quello che fanno, per cui se venissero accreditati si penserebbe che scelgono i colori. Cosa non vera, nel mio caso. Detto questo, sono grato ai flatter e li pago molto bene rispetto alla media.

Matthew Wilson: È spesso il primo lavoro che si fa se si è intenzionati a diventare coloristi. Io stesso ho iniziato come flatter. Non mi è mai interessato essere citato perché sapevo che era solo un passo necessario verso il mio obbiettivo. Detto questo, non ho problemi ad accreditare i miei assistenti, quando ho il controllo della cosa. Marvel e DC non lo lasciano fare, ma in lavori creator owned come The Wicked + The Divine abbiamo inserito il nome del mio flatter (Dee Cunniffe). È stata un’idea di Kieron e io ero d’accordo. Quel fumetto è realizzato da pochissime persone, e Dee è una di queste, è grazie a lui che rispetto le scadenze.

Quanto è importante, in termini di tempo?

Matthew Wilson: Molto. Mi risparmia dai 45 minuti alle due ore di lavoro per pagina.

In Italia esiste?

Lorenzo De Felici: Sì, si chiama “basista”. Grossomodo ogni colorista è stato, ad un certo punto, basista di qualcun altro. In effetti il lavoro del basista viene completamente coperto da quello che viene dopo, eccezion fatta per le colorazioni più piatte (dove infatti fa tutto il colorista).

Annalisa Leoni: Io mi faccio aiutare solo quando lo ritengo necessario. Comunque quando capita ringrazio sempre pubblicamente i miei assistenti, è il minimo che possa fare.

Quando vedete le pagine stampate siete felici del risultato finale o non è mai come era sullo schermo?

Paul Mounts: Quando ho iniziato questo mestiere era tutto fatto a mano e c’era qualcuno che tagliava la pellicola o colorava i disegni e poi la tavola in bianco e nero veniva stampata su un foglio acetato trasparente e messa sopra i colori, per poi essere scansionata. Tutto il processo era manuale e non c’era modo di controllarlo. Il risultato finale era alla mercé di chiunque supervisionasse la scansione. Molti dei miei primi lavori non assomigliano per niente a quello che avevo colorato io. Con il computer ho il controllo del prodotto finale e sono quasi sempre soddisfatto del risultato stampato, specie con le raccolte, che sono stampate con una qualità più alta.

Lorenzo De Felici: La discordanza schermo/carta è imprescindibile, quindi meglio farci pace da subito. Alcuni miei colleghi ci sformano dietro, e forse hanno ragione loro a farlo. Io a un certo punto mi sono arreso, anche perché lavoro per molti committenti e ognuno stampa in un modo diverso. Sarebbe una follia stare dietro ad ogni pubblicazione, così una volta prese delle accortezze in linea di massima, attendo sereno il risultato. E devo dire che fino ad ora ho ricevuto solo un paio di sorprese spiacevoli.

Matt Hollingsworth: No, non sempre. A volte la stampa è troppo scura o troppo chiara e mi dà molto fastidio. Vuoi sempre che l’opera sia come l’avevi immaginata e ti si spezza il cuore quando non succede. Mi è capitato di recente, non voglio dire su che fumetto. Anche se in quest’ultimo periodo sono soddisfatto delle stampe.

Annalisa Leoni: Sì, ma dipende molto dal supporto su cui il prodotto viene stampato. Indubbiamente sarebbe sempre utile fare delle prove di stampa per poter adattare il proprio modo di colorare al tipo di supporto.  In Orfani questa fase è stata fondamentale per una buona riuscita della serie, proprio a causa della carta porosa ed opaca su cui stampiamo.

Tre versioni di Batman: Year 100, colori di José Villarubia. Quando il fumetto approda in Rete, gli esiti sono prismatici.

D’accordo, voi colorate le tavole, ma siete davvero responsabili delle scelte cromatiche? Che tipo di rapporti avete con editor, sceneggiatori e disegnatori?

José Villarrubia: Dipende dalle situazioni. Ogni volta è diversa e alcuni disegnatori sono molto possessivi del loro lavoro, vogliono controllare il processo da vicino, ad altri non importa. Stessa cosa con gli editor.

Paul Mounts: Sì, parli con loro e senti cosa vogliono. Ma per quanto mi riguarda sono lasciato molto libero nel mio lavoro. Forse dopo tutti questi anni hanno imparato a fidarsi.

Matt Hollingsworth: Mi danno dei suggerimenti, faccio il mio e in caso mi segnalano delle cose. A volte mi trovo in sintonia dal primo minuto, come è successo con Sean Murphy, Lee Bermejo o Steve Skroce. Altre volte c’è un andirivieni per sviluppare il look. Su Wytches, per esempio, Jock non era molto contento dei primi tentativi che gli avevo mandato.

John Higgins: Io pretendo che mi lascino fare il mio lavoro. Sceneggiatore e disegnatore possono dare delle idee, ma è il colorista che si relaziona con le varie scene e cerca di chiarire la storia attraverso i colori. Quindi, sì, la direzione dei colori è nostra.

Matthew Wilson: In realtà a me piace ricevere input esterni da chiunque abbia una buona idea. Mi piace quando uno sceneggiatore o un disegnatore ha idee specifiche sui colori, perché le uso come trampolino per basarci tutte le mie decisioni. Preferisco lavorare così che essere lasciato solo. Poi ovviamente, quando il progetto è impostato, ho libertà a sufficienza per colmare i vuoti, pagina dopo pagina.

Funziona così anche in Francia?

Ruby: Sì. Ogni autore è diverso, alcuni mi danno totale libertà, altri hanno una chiara idea di ciò che vogliono. Ma di solito parlo solo con il disegnatore. Tranne Michel Pirus, che è uno sceneggiatore molto attento e presente durante la fase di colorazione.

Brigitte Finkdale: In generale, sono io che scelgo i toni del colore, ma parlo sempre prima con l’artista per sapere se ha preferenze o esigenze particolari.

Nel mondo del fumetto supereroistico, Uncanny X-Force e Hawkeye sono due esempi di testate che hanno tentato di uscire dalle norme cromatiche (e molti hanno imputato il successo iniziale di vendite di Uncanny X-Force proprio al fatto che spiccasse sullo scaffale grazie alle sue linee bianche e ai toni inusuali). Secondo voi c’è spazio per l’innovazione nel colore?

Lorenzo De Felici: La colorazione dei fumetti, come qualsiasi altro aspetto dell’intrattenimento visivo, vive di mode, correnti e innovazioni cicliche. Arrivano un paio di autori d’impatto, tutti li saccheggiano, la produzione si appiattisce e le innovazioni perdono verve, finché non arrivano nuovi autori con qualcosa di ancora diverso, e così via. Può essere il loro segno, il modo in cui trattano le superfici o la scelta di un singolo colore inusuale che caratterizza tantissimo il fumetto (penso proprio al fucsia di Uncanny X-Force). In linea di massima negli ultimi anni sta succedendo una cosa molto positiva per la colorazione nei fumetti: questa sta cominciando ad ammiccare all’illustrazione, a sintesi visive finalmente lontane dal realismo che conferiscono alle testate forte riconoscibilità e freschezza.

John Higgins: Se parliamo di mode, per un po’ di tempo aggiungere una percentuale di grigio al colore dava un senso di profondità e realismo ombroso. È un vezzo che è passato in favore di una presentazione con colori più chiari, che mi sembra la tendenza prevalente.

Annalisa Leoni: L’innovazione è un concetto relativo, bisogna sempre relazionarlo con il mercato di fumetto di cui si parla. Sia in America che in Francia c’è una cultura dei fumetti a colori molto più radicata e formata rispetto a quella italiana.  I progetti che vengono pubblicati in questi paesi sono spesso molto diversi tra loro e con un proprio carattere. Vengono spesso fatte delle sperimentazioni di cui il colore è parte integrante.  In Italia, anche solo introdurre testate a colori in cui il colore è stato pensato come parte integrante della storia è stata un’innovazione. Il discorso può variare molto in base ai contesti.

Hawkeye, colori di Matt Hollingsworth.

Matt, tu sei stato il responsabile della colorazione di Hawkeye.

Matt Hollingsworth: In realtà è un lavoro vecchia scuola, tinte piatte e uniformi, nel tentativo di enfatizzare il design e guidare l’occhio. È roba che facevo già tredici anni fa su Catwoman. David Aja voleva quello stile lì e ha persino colorato lui stesso un paio di tavole per indicarmi la via. Non credo ci sia niente di nuovo nel mio approccio a Hawkeye.

E in quello di Dean White?

Matthew Wilson: Quello che ha fatto Dean White è senza paragoni, non avevo mai visto nulla di simile fino a quel punto. Penso che gli unici limiti esistenti abbiano a che fare con gli strumenti che utilizziamo, capaci di produrre qualsiasi tipo di resa visiva. A me interessa soprattutto il modo in cui i colori digitali riescano a sembrare fatti a mano. Dean White è un ottimo esempio. I suoi lavori sono molto pittorici e se non sapessi che li fa al computer ti verrebbe da dire che sono frutto di pittura e pennelli. Lo stesso dicasi di Matt Hollingsworth, Elizabeth Breitweiser e degli ultimi lavori di Dave Stewart.

Amo vedere la mano dell’artista e mi piace che gli strumenti digitali si siano evoluti al punto da rendere possibile questa cosa. E poi credo che sia valida la regola less is more. Per quanto mi riguarda, lavoro sempre con la regola della sottrazione. Quando studiavo arte ero attratto dagli Impressionisti. L’idea che un artista suggerisse una realtà e fosse l’osservatore a riempire il quadro con i dettagli mi ha sempre affascinato. Quindi, ecco, i limiti che mi interessa vedere superati al momento sono l’aspetto ‘a mano’ del digitale e l’economicità del colore.

Matthew, tu hai lavorato su Uncanny X-Force succedendo proprio a White.

Matthew Wilson: Sì, ma non ho mai cercato di emulare Dean, perché non ne sono capace, e anche perché ritengo un lavoro basato sull’istinto migliore di uno che cerca di imitare uno stile altrui. E nonostante questo ho cercato di restare nei canoni della testata. Più che altro, parlare con Esad Ribic, che disegnava la serie, mi è servito molto. Essendo un pittore, Esad mi ha dato molti suggerimenti. Ricordo lunghe email sui colori e sulle luci da usare. Devo averlo mandato ai pazzi!

Non so se sia una coincidenza, ma continuo a citare titoli Marvel.

Matthew Wilson: Penso che tra gli editori più grandi la Marvel abbia iniziato a variare i propri stili e osare prima della DC. Allo stesso tempo, credo che DC stia cominciando a diversificare dal punto di vista del colore molti dei nuovi titoli e quelli di futura pubblicazione.

In un’intervista, Justin Ponsor ha detto di pensare al colore come il direttore della fotografia pensa alle luci, riprendendo il parallelismo di prima.

John Higgins: Io guardavo ai film anche quando lavoravo su Watchmen, cioè molto prima dell’arrivo dei computer. Mi facevo ispirare dai film ma anche dalle fotografie, per vede come i colori, la pelle e i vestiti reagissero alle diverse esposizioni, se c’era ombra o una luce tipo neon. Cercavo di mostrare come il colore cambiasse riflettendo o assorbendo una fonte di luce.

Con le superfici in particolare, grazie al digitale, colorare al computer ha dato tutto un altro sapore ai fumetti.

Annalisa Leoni: Sì, per quanto una colorazione manuale sia decisamente più ricercata, la colorazione digitale ha dato modo di accorciare notevolmente i tempi di lavorazione e ha reso più facile l’apporto di modifiche e la possibilità di sperimentare.

Lorenzo De Felici: Il digitale è un bene nel senso che, nella colorazione dei fumetti come in ogni altra cosa, ha velocizzato il progresso. Ha reso molto più accessibile la professione e ha pompato ettolitri di sangue fresco nel sistema, erodendo tempi e barriere di apprendimento. Il “rischio” di questa facilitazione è che molti si avvicinano al lavoro con conoscenze ed idee molto superficiali, bypassando una serie di conoscenze basilari e convinti che a fare una buona colorazione siano una serie di artifici ed effetti. Parafrasando un articolo sull’involuzione della fotografia cinematografica degli ultimi 20 anni: sono così preoccupati se si possa o meno mettere un bagliore fico e un effetto “polvere stellare” su questa scena di dialogo in un salotto, che non si sono fermati a pensare se debbano.

Matthew Wilson: Si può fare così tanto con il computer che il colorista è ormai uno dei principali responsabili dell’aspetto finale di un fumetto, più di quanto di pensi. Se prendi una tavola inchiostrata, c’è una percentuale che va dal 30% all’80% di spazio bianco. Quello spazio è in mano al colorista. I colori, la luce, l’ora del giorno, i muri, i vestiti, i dettagli, è tutto deciso dal colorista. La qualità dei colori oggi è al massimo e continuerà ad aumentare. I colori in digitale erano brutti nel periodo di transizione, quando c’erano ancora quelli tradizionali. Ma, a essere sinceri, non è che i colori analogici fossero granché. E’ stato più lungo il periodo in cui i colori toglievano bellezza ai disegni invece che aggiungerne. Ora non succede più.

Matt Hollingsworth: Penso ci sia stata un’incomprensione storica nel passaggio al digitale. All’epoca, si facevano le guide colore. Ed erano, come dice il nome, delle guide che poi passavano di mano a qualcun altro che le interpretasse e miscelasse in fase di stampa i colori base per creare tutte le sfumature. Un processo molto primitivo. Molti di noi sono passati al computer per evitare che altra gente distruggesse il nostro lavoro. Oggi è possibile avere il meglio dei due mondi, includendo anche della pittura vera, che poi viene unita al colore digitale.

Capitan America, colori di Frank D’Armata.

A parte l’imprescindibile Photoshop, che strumenti usate per colorare?

Lorenzo De Felici: Una Cintiq.

John Higgins: Anch’io.

Paul Mounts: Mischio Photoshop con Painter, Illustrator e altri programmi occasionali. Lavoro con una tavoletta Wacom Intuos. Ho anche una Wacom Cintiq da 24 pollici, ma ci devo ancora fare il callo!

Matt Hollingsworth: Capita che inserisca della pittura vera, come su Wytches. In quel caso erano acquerelli, con un po’ di pastelli, acrilico e olio.

Matthew Wilson: Un iMac con una Cintiq 21UX da 21 pollici.

Chi è il vostro colorista preferito, oggi? E chi invece vi ha ispirato quando eravate agli inizi?

Frank D’Armata: Justin Ponsor. È bravissimo e produttivo. Steve Firchow è uno dei miei maestri, e mi ispira tuttora, anche se ormai fa solo cose sui videogiochi.

Lorenzo De Felici: La risposta è la stessa per entrambe le domande: Dave Stewart. La sua conoscenza delle dinamiche della colorazione è talmente profonda e raffinata che è impossibile coglierlo in errore.

Brigitte Finkdale: Hayao Miyazaki, è un artista che mi ha ispirato spesso e di cui ammiro ogni lavoro.

John Higgins: Ci sono così tanti bravi coloristi. Mi piacciono soprattutto Laura Martin, FCO Plascencia e Matt Hollingsworth. Si prendono dei rischi e cercano sempre di fare qualcosa di nuovo, attraverso la combinazione di colori, la modulazione o l’aggiunta di una nuova texture. Poi, per quanto riguarda gli anni prima del computer, Richard Corben, Tom Ziuko e Marie Severin sono quelli che più si sono distinti per il loro stile.

Matt Hollingsworth: Mark Chiarello, Lynn Varley e Richmond Lewis mi hanno influenzato quando ero agli inizi. Sono un patito di pittura, quindi adesso guardo a Moebius, Van Gogh e Hiroshi Yoshida.

Annalisa Leoni: Ora adoro Dave Stewart e Marte Gracia, quando ho iniziato non seguivo un vero e proprio colorista, ma studiavo molto concept artist come Craig Mullins, per imparare dei modi interessanti per utilizzare le luci e i colori. Mi piace utilizzare un approccio a volte più cinematografico sulle tavole, non a caso tutt’ora continuo a studiare il lavoro di moltissimi visual development artist come Nathan Fowkes, Dice Tsutsumi e molti altri.

Paul Mounts: Kristian Donaldson ha fatto un lavoro eccelso su Supermarket, e mi piace molto Jean-Pierre Gibrat, qualsiasi cosa faccia. Quando ho iniziato, negli anni Ottanta, guardavo tantissimo a Steve Oliff e Lynn Varley.

Ruby: Fin dal mio primo lavoro (Rose profond di Pirus e Dionnet) mi sono ispirata ai colori dei vecchi cartoni animati o a illustratori come Maxfield Parrish.

José Villarrubia: Stimo molti colleghi: Dave Stewart, Dean White, Laura Martin, Laura Allred, Chris Chuckry. Sono stato influenzato non tanto dai coloristi ma dai disegnatori che coloravano i propri lavori, come Richard Corben, Neal Adams, Victor de la Fuente, Moebius, Bill Sienkiewicz.

Matthew Wilson: Nell’ultimo anno, Elizabeth Breitweiser. Il suo lavoro su Outcast è unico, interessante e scomodo (tutte cose che si adattano bene alla storia). Mi piace come inserisce molti dettagli. A volte sembrano campiture uniformi, ma se ti avvicini vedi che ha aggiunto sfumature consistenti. Mi piace anche come dipinge le figure nei disegni di Steve Epting su Velvet. E poi, come ho detto prima, Dave Stewart, grande ispirazione per me, per il modo in cui illumina la scena e per la consistenza dei colori. Molto di quello che faccio oggi l’ho imparato guardando lui.

Seguite qualche fumetto solo per il colorista?

Matthew Wilson: Certo. Compro più fumetti per guardare i colori che per altro. In parte perché voglio mantenermi aggiornato su quello che sta succedendo nell’industria. Ma anche perché amo i colori dei fumetti. Amo vedere come altra gente risolve i problemi che mi trovo di fronte io ogni giorno. E vedo sempre nuove soluzioni a cui non avevo pensato.

José Villarrubia: No! [ride] Be’, magari se Corben colorasse i disegni di qualcuno…

Frank D’Armata: Ehi, io sì. Voglio vedere chi è davvero bravo, e per la maggior parte sono le solite persone, ma ci sono dei nomi nuovi ogni tanto.

portugalruby
Portugal, colori di Ruby.

La cosa più difficile da colorare?

Frank D’Armata: Gli oggetti grandi. È difficile rendere il senso del volume, devi lasciare spazi aperti e inserirlo bene nella scena. Le cose piccole di solito sono più facili.

John Higgins: Non c’è niente di difficile da colorare, il vero problema di molti artisti sono, di nuovo, le scadenze che non permettono di dare il giusto tempo e l’attenzione al lavoro che uno sta facendo.

Matt Hollingsworth: Odio colorare le superfici cromate.

Annalisa Leoni: Credo che a volte sia difficile colorare dei disegni o delle tavole scarsi dal punto di vista compositivo. Il colorista in quei casi ha il compito di riuscire, attraverso un utilizzo sapiente delle luci, a far leggere bene la vignetta al lettore.

Paul Mounts: Centinaia di schegge di vetro o i riverberi dell’acqua.

Matthew Wilson: Non saprei. Agli inizi c’erano molte cose che non mi riuscivano. Ora direi che trovo ancora difficile colorare bene un primo piano di una faccia.

Quanto velocemente riuscite a completare una pagina?

John Higgins: Due ore, se si tratta di un lavoro stilizzato, una pagina con dei dettagli e un approccio più realistico, che ti porta via tempo sulla modulazione di volti e oggetti, può portare via dalle quattro alle sei ore.

Annalisa Leoni: Dipende dal tipo di lavoro e dal tipo di colorazione richiesta. Una colorazione umoristica riesco a sbrigarmela in meno di mezza giornata. Una colorazione alla Orfani ormai per me è pane quotidiano, quindi a volte riesco anche a finire due tavole in un giorno. Una colorazione pittorica invece richiede sicuramente più tempo e meno fretta.

Lorenzo De Felici: Dipende dall’autore. Non più di due tavole al giorno, di norma.

Matthew Wilson: Cerco di stare entro le tre ore. Poi varia a seconda della pagina, comunque mai meno di un’ora. In una giornata normale riesco a produrre sei pagine, se è una giornata lunga sto tra le sette e le dieci pagine.

Sembrerà una domanda indelicata, ma credo serva come metro parziale del vostro ruolo nel settore: quanto guadagna un colorista per tavola?

John Higgins: Be’, io sono un caso a parte perché coloro solo le mie tavole e ormai sono fuori dal tariffario standard, che può variare dai 120 ai 150 dollari per pagina per un colorista quotato, mentre un ragazzo alle prime armi non credo prenda più di 55 dollari (o meno, a seconda dell’editore).

Matthew Wilson: Ci sono molti fattori diversi. Alcuni editori pagano molto, altri no. Il prezzo è determinato soprattutto in base a che punto sei nella tua carriera e al tipo di serie su cui lavorerai. Sono stato pagato da un minimo di zero a un massimo di oltre 100 dollari.

Ruby: La cifra media per tavola è dai 70 ai 100 euro.

Lorenzo De Felici: Cambia molto di committente in committente. Ho guadagnato dai 50 ai 100 euro a tavola, all’incirca.

Frank D’Armata: Fortuna che eravamo incoraggiati a non rivelare le nostre tariffe!

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Ultimates, colori di Paul Mounts.

Qual è l’aspetto peggiore del mestiere?

Paul Mounts: C’è sempre un’oscillazione; quando una compagnia inizia a trattare meglio i coloristi, un’altra li dà per scontati o tenta di pagarli meno. In generale, stiamo meglio che in passato (sia in DC sia in Marvel ci spetta una quota sul venduto). La parte peggiore è che siamo sempre alla fine del processo, quindi se qualcuno ritarda, noi dobbiamo rimediare. Un sacco di maratone notturne!

Matt Hollingsworth: Il bello è che i disegnatori ritardatari spesso producono cose bellissime, ma poi tocca sempre al colorista compensare i ritardi altrui.

John Higgins: Sì, diciamo che i disegnatori possono permettersi di non rispettare le scadenze solo perché quando iniziano il loro lavoro c’è più margine di movimento. Ma penso che i coloristi, rispetto al passato, abbiano ottenuto un certo grado di riconoscimento da parte dell’industria. Certo, se non sei un autore completo, sei meno richiesto ai festival. Credo sia fisiologico, da un certo punto di vista.

Matthew Wilson: Essere freelance, per me, rischia di essere pericoloso. Un infinito numero di distrazioni a pochi passi e difficili da ignorare, specie quando non hai voglia di lavorare. Ma per il resto è il lavoro dei sogni.

Annalisa Leoni: L’aspetto peggiore è che a volte, soprattutto dal pubblico, non viene riconosciuto il lavoro del colorista. Molti lettori o anche addetti ai lavori non riescono bene a distinguere dove finisca il disegno ed inizi l’apporto del colorista. Devo dire che è piuttosto frustrante.

Lorenzo De Felici: Passare la vita schiacciati tra scadenze e ritardi (spesso altrui) riversando amore in ogni tavola, per poi leggere recensioni in cui non si viene menzionati e il proprio lavoro viene inglobato a quello del disegnatore. E’ la stessa sensazione che si ha quando ci si rende conto che la tua prima, profonda cotta, non sa nemmeno che sei vivo.

Questa cosa delle scadenze vi tormenta!

Matthew Wilson: Vedi, uno sceneggiatore o un disegnatore possono sforare una consegna perché sono i primi anelli della catena. Ma questo riduce i tempi di consegna delle persone che li seguono. È fastidioso dover riorganizzare la propria vita attorno al lavoro per colpa dell’inefficienza altrui. Ma o te lo fai andare bene o l’editor trova qualcun altro al posto tuo. Ci sono dei rischi in entrambi i casi. Se fai sempre il tuo lavoro bene, gli editor potrebbero approfittarne e caricarti di lavoro. Ma se rifiuti sempre dei lavori all’ultimo minuto smettono di chiamarti. Io cerco sempre di essere onesto e ragionevole. Se penso che sia fattibile, lo faccio. Altrimenti rifiuto. Per ora funziona.

Orfani, colori di Lorenzo De Felici, e La nuova alba dei morti viventi, colori di Annalisa Leoni.

In America la categoria dei coloristi si è sentita – e in parte si sente tutt’ora – spesso bistrattata, e l’industria non riconosce i vostri meriti autoriali, sia su un piano economico sia un piano creativo.

Brigitte Finkdale: In Francia, molti coloristi sono pagati in anticipo sulle royalty, e ricevono una media dell’1% sul prezzo di vendita di un libro. Ma non siamo considerati veri autori. Spesso firmiamo un contratto separato da quello dello sceneggiatore e del disegnatore.

Ruby: Sì, ma è necessario che l’opera venda un certo numero di copie perché scattino gli incentivi. Io comunque non mi considero autrice dell’opera e di conseguenza mi sembra giusto non avere gli stessi diritti.

John Higgins: Il colorista è parte della squadra, ma non ho problemi a lasciare che scrittori/artisti/editori siano i soli proprietari del copyright. Alcune compagnie prevedono comunque un margine di profitto per i coloristi, ma soltanto oltre un certo numero di copie vendute.

Matthew Wilson: L’industria non ha mai provato a celebrare i coloristi se non di recente. Ma ormai la tendenza è positiva e credo che ci si stia spingendo nella giusta direzione.

In Italia si lotta ancora per il riconoscimento del colorista come forza creativa primaria?

Annalisa Leoni: Penso che il colorista sia una figura non presa abbastanza in considerazione. Per quanto riguarda l’importanza creativa in un lavoro, è una cosa legata al tipo di lavoro che si sta svolgendo e quanto l’apporto del colorista sia grande in un progetto. Bisogna anche capire se un determinato fumetto è nato in bianco e nero e poi colorato in un secondo momento, oppure se nasce come un progetto a colori, quindi la colorazione diventa parte dell’anima e della riuscita del prodotto.

Lorenzo De Felici: Il colorista è riconosciuto come autore dell’opera, anche se non da tutte le case editrici. Ad esempio in Bonelli, almeno su Dylan Dog Color Fest e Orfani, il colorista è autore. Ed è stata proprio la Bonelli, pur provenendo da una lunga tradizione di bianco e nero, la prima a fare questo passo avanti. Il problema della considerazione del lettore è circolare, e soprattutto culturale. Finché al lavoro dei coloristi non verrà riconosciuta la dignità che è riconosciuta alle altre professioni, il pubblico non si prenderà la briga di considerarlo come tale. Viceversa, finché il pubblico non farà attenzione e imparerà a discernere tra una colorazione di qualità e una scadente, alle case editrici e all’industria non sembrerà importante valorizzare quella fetta della lavorazione. Tale circolarità di colpe potrebbe essere spezzata dall’anello di congiunzione tra le case editrici e il pubblico esteso: la critica. Ci sono due tipi di recensione di un fumetto a colori: quella in cui in mezza riga si nomina il colorista dicendo “ottimi colori” (SEMPRE ottimi, a prescindere) e quella in cui non si nomina.

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