Zerocalcare: facilità interpretativa o appropriazione dei modelli?

Questo articolo vuole essere una risposta alla puntuale critica di Andrea Tosti nei confronti dell’articolo di Goffredo Fofi su Zerocalcare. Tralasciando l’opinione di Fofi, sulla quale credo che Tosti abbia già detto tutto il necessario, vorrei concentrarmi invece sull’interessante riflessione finale.

zerocalcare

Il cuore della questione, secondo me, sta proprio nei riferimenti culturali che, effettivamente, popolano i fumetti di Zerocalcare e suscitano nel lettore un sentimento di vicinanza e di empatia. E il lettore può fermarsi a questo. Ma se non ci si ferma, se ci si cala con attenzione del discorso proposto dall’autore, si può trovare molto altro, soprattutto – io credo – a livello politico.

Mi viene in mente la pagina del primo reportage a Kobane, in cui lo Zero a fumetti impazzisce per la mancanza di merendine. Ovvio: quello è uno sketch che fa ridere. Ma dopo la risata, se riflettiamo, ci rendiamo conto che siamo di fronte a una dichiarazione di dipendenza da qualcosa di cui le merendine sono solo un simbolo. Questo qualcosa è, sostanzialmente, tutto ciò a cui ci ha abituato il vivere nella parte fortunata del mondo: comodità materiali, disponibilità illimitata di merci e stimoli, una relativa libertà di pensiero e attività politica (perlomeno entro certi limiti). E tutto ciò manca a Zero (nel contesto di un viaggio che, in ogni caso, prevede una data di ritorno), proprio nel bel mezzo di ciò che lui stesso considera un laboratorio politico fondamentale per il futuro, e cioè quello portato avanti dal popolo Curdo.

Di questa dipendenza parlano i fumetti di Zerocalcare, ogni volta che descrivono un aspetto della vita di Zero e dei suoi coetanei (diverse da quelle delle generazioni passate, vissute in contesti almeno in parte diversi). Per esempio, ogni volta che Zero, invece di lavorare, guarda una serie tv, reperibile gratuitamente ormai senza grosse difficoltà e quando si vuole. Ma, allo stesso tempo, tutto ciò ci dice che la nostra tranquillità europea ha un prezzo, duplice: da una parte le enormi disparità sociali che il capitalismo costruisce, dall’altra la costruzione di un macchinario per il consenso (e forse anche per la distrazione)

Mi fermo un attimo per chiarire che il mio scopo, qui, non è esprimere le mie idee politiche: l’ultima cosa che voglio è mettere in bocca a Zerocalcare concetti non suoi. Ciò che cerco di fare è, invece, provare ad analizzare il suo lavoro partendo da una posizione politica che lo stesso Zerocalcare ha chiaramente esplicitato in più sedi (anche a fumetti: penso alle tavole sulla repressione al G8 di Genova). Trovare una dimensione politica complessiva al lavoro di Zerocalcare, insomma, non mi sembra una forzatura.

Dicevamo del prezzo duplice. Visto che Zerocalcare parla soprattutto di ciò che gli è vicino, è ovvio che, tra i due aspetti, si concentri soprattutto sul secondo, e cioè sui modelli culturali che il capitalismo produce, e che hanno effetti su tutti noi. 

Ogni volta che il personaggio Zero deve interpretare il mondo, usa modelli presi, essenzialmente, da tre tipi di fonti: film e serie tv, soprattutto degli Stati Uniti; cartoni animati, sia Disney che giapponesi; infine, i videogiochi. Ovvio, questi riferimenti fanno parte dell’immaginario di tutti coloro che sono nati più o meno nello stesso momento, o dopo, Zerocalcare. E quindi, ancora una volta, strizzano l’occhio al lettore – perché no? – provocando tenerezza e ricordi tipo “noi che abbiamo vissuto gli anni ‘90”. Ma anche qui, facciamo un passo in più e chiediamoci: cosa significa avere questo immaginario inconscio (e quindi inevitabile) per una persona, o un personaggio, che si definisce anticapitalista?

Significa produrre, e sentirsi addosso, un continuo cortocircuito (parola che utilizza già Andrea Tosti). Molte pagine di Zerocalcare si concentrano o accennano a questo cortocircuito, in modo divertente ma anche struggente: penso per esempio alle recensioni in cui la Disney è rappresentata da un Topolino manager cattivissimo in compagnia di un’entità malefica, Wired, per la quale Zero si trova a lavorare (in quanto produttore di oggetti culturali in vendita). Cosa significa, quindi, essere anticapitalista in un mondo in cui in cui i libri che leggiamo sono stampati da case editrici che devono guadagnare (e così i film e la musica), in cui la tecnologia è contemporaneamente mezzo di comunicazione e di controllo, in cui i viaggi che facciamo li dobbiamo alle compagnie aeree economiche, in cui ogni volta che ci muoviamo consumiamo petrolio e finanziamo guerre, in cui per comprare da mangiare andiamo al supermercato (e compriamo le merendine) eccetera eccetera? Insomma, è un mondo in cui Secco cerca di evitare la schiavitù del lavoro giocando al poker online.

Zerocalcare non dà una risposta chiara a questa domanda. E meno male, altrimenti scriverebbe pamphlets. Sicuramente, la sua risposta non è “sganciandoci dal capitalismo qui e ora”, e ancor meno “cerchiamo di cambiarlo dall’interno”. Questo ce lo dice ogni volta che prende in giro qualunque cosa sappia anche lontanamente di hippy (vedi la questione “scarpe aperte” in Dodici) o di sinistra più o meno istituzionale (tipo Peppa Pig). Vengono rifiutate, quindi, due ipotetiche vie d’uscita dal paradosso, ossia 1: “andiamocene” e 2: “non fa tutto schifo, possiamo salvare qualcosa di questo sistema”. Una volta rifiutate, si continua a vivere nel paradosso.

Tuttavia, non credo che la questione finisca qui e che tutto ciò sia sterile. Nel mondo di Zerocalcare, la vita condotta all’interno del paradosso, o del cortocircuito, ha almeno due aspetti che segnano la speranza in un cambiamento futuro. 

La prima sono i rapporti umani e la creazione di una collettività. Sembra banale, ma non lo è: i fumetti di Zerocalcare sono fatti di relazioni interpersonali molto approfondite, in cui si rifiuta il più possibile una qualsiasi relazione gerarchica e in cui gli stereotipi esistono solo per essere sovvertiti, anche al livello più basso. Basta guardare ai personaggi femminili per rendersi conto di questo. Non per niente Zerocalcare ha dichiarato più volte che non disegnerebbe mai nulla di sessista, individuando nelle relazioni fra generi una delle chiavi di un possibile cambiamento. È a questo mondo di relazioni che Zero si riferisce, per esempio, nell’ultima pagina del primo reportage su Kobane, in cui sotto i pixel si scopre esserci un cuore collettivo. Ed è a questo aspetto che, forse, si può ricondurre l’osservazione di Tosti su quanto Zerocalcare sia “buono” con i propri personaggi, e su quanto i “cattivi” siano disumanizzati, proprio (e forse solo) perché negano essi stessi la possibilità di una relazione, come se fossero zombie.

Il secondo aspetto, invece, è più sfumato, e riguarda proprio l’uso dei modelli culturali. A un primo livello, come abbiamo detto, l’uso di quei modelli ha un effetto simpatico e nostalgico. A un secondo livello, rivela quanto quei prodotti della cultura commerciale ci siano entrati in testa. Ma una volta che Zerocalcare usa quegli stessi modelli questo comporta, in un certo senso, un sovvertimento, la creazione di un nuovo immaginario, che fa presa proprio perché usa modelli riconoscibili ma che contemporaneamente ne muta il segno e il senso. Insomma, dopo Zerocalcare, Esplorando il corpo umano non è più la stessa cosa, e i suoi microbi e anticorpi oggi popolano il mio immaginario molto più di quanto non lo facciano gli originali. A volte questo lavoro di sovvertimento è semplice (il Robin Hood della Disney e Timon e Pumba, per esempio, erano già di per sé un po’ sovversivi), a volte invece è più complesso (penso, per esempio, a Tekken 3). C’è un terzo livello, insomma, in cui Zerocalcare modifica quegli stessi modelli di cui parla, per il fatto stesso di inserirli nel suo stile (grafico e non).

In un film di Wim Wenders, Nel corso del tempo, uno dei due protagonisti riflette sul cinema di Hollywood e dice all’altro: «ci hanno colonizzato l’inconscio». Ecco, a me sembra che Zerocalcare cerchi di decolonizzarcelo, e per farlo usa un processo che i popoli delle ex colonie europee hanno usato spesso: appropriarsi del modello culturale colonizzante (più o meno consapevolmente) e riutilizzarlo, sovvertendolo. Ciò che Tosti considera una mancanza di difficoltà interpretativa rappresenta invece, a mio parere, il tentativo di stimolare un lavoro interpretativo (soprattutto, appunto, a livello politico) proprio su ciò che è più vicino, più conosciuto al lettore.