Edmond Baudoin, un sogno in cambio di un disegno

Edmond Baudoin sa usare con finezza e ispirazione tutti i codici del suo mezzo d’espressione per raccontare l’uomo e la donna in maniera paritaria, e, con loro, i marginali, i poveri, il mondo rurale. Quando non sono autobiografici, i suoi romanzi a fumetti sono inscindibili dalla vita vissuta. È nato in un villaggio di montagna dell’entroterra nizzardo, sulle Alpi Marittime, da una famiglia povera.

Edmond Baudoin | © Girelle Productions - FTViastella
Edmond Baudoin | © Girelle Productions – FTViastella

Il suo uso del pennello è talvolta corposo, quasi irruento, talvolta delicato, in punta di piedi. Le sue pennellate sono sempre sensuali, voluttuose, e ne fanno un maestro del bianco e nero, di un bianco e nero che trova la sua pittoricità in una visione di scuola tendenzialmente orientale, calligrafica, del disegno come scrittura e della scrittura come disegno, un approccio che crea un ponte tra fumetto e pittura, tra Occidente e Oriente. È nondimeno un virtuoso del colore, anche se nella sua ormai vastissima opera i titoli a colori non sono molti. In Italia, di questi ultimi, è stato pubblicato soltanto il sorprendente Dalì secondo da Baudoin (PaniniComics), commissionato dal Centre Pompidou: un viaggio tra bianco e nero e colore, nell’arte e nella vita, le due cose inscindibili, e comunque un viaggio nell’uomo, dove s’impara a capire e amare un pittore e un uomo che forse non si amava. Questo viaggio il lettore lo fa insieme a Baudoin, che forse prima di realizzare questo libro non amava molto Dalì, né l’uomo né la sua arte. Baudoin è un poeta che narra l’avventura dell’uomo, partendo però dai dettagli della vita di tutti i giorni di persone come noi, quando non di persone di estrazione sociale più umile della nostra, che narra l’odissea delle genti comuni, tra sentieri misteriosi delle montagne e fonti rigeneranti, come pure nei dedali dell’alienazione umana, cittadina, o di chi è privato della libertà dalla legge degli uomini. Fa poesia coniugando la vita con il sogno, il sentimento con il racconto dell’attualità, per giunta quella più dolorosa.

In Viva la Vida, il libro di graphic journalism che ha realizzato insieme al collega Troub’s – edito in Italia da Coconino Press come anche l’autobiografico (ma fantasticato) Piero e la raccolta di racconti Insalata nizzarda – andando insieme in trasferta in Messico, in quel luogo di paria che è Ciudad Juarez, è spesso questione del posto del poeta, e quindi dell’arte, in una situazione come quella.  In maniera più o meno accentuata, a seconda dei momenti, a prescindere che la parte grafica sia quella di Baudoin o del più verosimigliante (almeno in apparenza) e vagamente umoristico Troub’s. Ma la stilizzazione di Baudoin, espressione comunque di un viaggio interiore, molto ben s’inserisce nell’ibridazione dei linguaggi come dei registri narrativi e visivi – romanzo a fumetti, diario di viaggio, reportage, saggio – ed è questo l’exploit su cui interrogarsi, giornalisti e non giornalisti, ma forse i primi ancor più dei secondi.

L’autodidatta Baudoin, l’ex contabile Baudoin, nell’indagare lo stato dell’umanità in quella località martoriata e abbandonata del Messico, portato là dall’indignazione per la  carneficina continua di donne che vi viene perpetrata, indaga la gente, la racconta con un idea d’artista molto semplice: disegna i loro volti, fa i loro ritratti, e chiede loro un sogno. Grazie a questi ritratti, il contatto con le persone è più facile, e si arriva a uno scambio: io ti faccio il ritratto e tu mi racconti un sogno, o un episodio centrale della tua esperienza di vita. È questa una soluzione che Baudoin e Troub’s hanno trovato sul posto. Ma chi ci aveva pensato prima? Baudoin e Troub’s hanno fatto in tal modo un’opera importante anche dal punto di vista antropologico, riuscendo dove tanti sono falliti, stabilendo una comunicazione e una confidenza con grandi e piccoli, uomini e donne, con i contadini e perfino con i guerriglieri più diffidenti e difficili da raggiungere. È forse questa l’originalità maggiore del loro lavoro, nei due libri che registrano il loro viaggio a Ciudad Juarez e poi nella provincia colombiana.

Da 'Viva la vida'
Da ‘Viva la vida’

Baudoin indaga con la sua pittura calligrafica, la sua scrittura-disegno, e lo fa cercando di andare all’essenza, per certi aspetti prossimo della lezione e delle teorie di Matisse. E certo Matisse è prossimo di tutta una linea creativa del fumetto, da alcuni autori esplicitamente rivendicata. Milton Caniff, con i suoi classici fumetti che avevano a protagonista Terry tra i pirati del mar della Cina – che raggiungono il loro apogeo negli anni ’30-’40 – fu un grande costruttore di immagini, sia singole che sequenze, intrise dell’ideale dell’eroe, della donna, dei luoghi e insieme rivelatrici dell’inconscio. Caniff risolveva, anzi scioglieva, in un disegno calligrafico (rivelatore di una disciplina mostruosa) un’infinità di elementi che altri avrebbero lasciato slegati tra loro, con grande fluidità ed eleganza nella loro sintesi.

Caniff ha influenzato innumerevoli autori del fumetto popolare negli Usa, Sudamerica ed Europa, e Hugo Pratt è certamente il figlio principale di questa linea espressionista e assieme impressionista, da lui rielaborata con estrema personalità, a cui si aggiunge l’argentino José Muñoz, quest’ultimo influenzato però oltre che da Pratt anche da Alberto Breccia, un disegnatore marcatamente espressionista. E poi vari altri: tra questi, Baudoin, che per quanto riguarda il fumetto rivendica tra le sue influenze, oltre a Muñoz, la Ballata del Mare Salato di Pratt. Ma l’antenato di tutti è certo il ginevrino Rodolphe Töpffer (1799-1846), a Baudoin ben noto e oggi ritenuto da molti l’inventore del fumetto con le sue Histoires en Estampes e certamente il suo primo teorico. Töpffer, diffidente della pretesa verosimiglianza fotografica, rivendicava l’approssimazione per raggiungere una migliore rappresentazione del reale, e cioè la forza intuitiva dell’artista nell’esprimere i tratti che contano, nel rivelare nella sua essenza un oggetto, un volto, un paesaggio. O ancora un gesto, un movimento. Non lontano da cosa intendeva Matisse per sintesi: «è necessario che un artista, il quale esprime l’oggetto con una sintesi pur avendo l’aria di allontanarsene, abbia in sé, porti in sé, la spiegazione di quest’oggetto». Töpffer rivendicava anche il disegno come scrittura e la scrittura come disegno. Proprio come Pratt in tante interviste. E come Baudoin.


*Questo testo è l’introduzione a un’intervista a Edmond Baudoin, pubblicata su Lo Straniero n. 186/187 del dicembre 2015/gennaio 2016, ora in libreria.