Gli spazi onirici della città dove Anna, la protagonista di Cinema Zenit 1 di Andrea Bruno (Canicola, 2014) era giunta in cerca di risposte, ci avevano condotto in una vicenda intricata, sospesa fra thriller e romanzo d’avventura. Con il secondo capitolo del progetto entriamo finalmente nella sala cinematografica, in cui sono conservate tracce oscure di un passato mitico e controverso.
In occasione del festival Bilbolbul 2015, le atmosfere cupe di Andrea Bruno, rese sulla carta da neri insondabili, attraversati da macchie disordinate organizzate in gabbie inquietantemente simmetriche, avevano invaso le gallerie della velostazione Dynamo. Un luogo ‘tipico’ di Bologna – in passato adibito ad autorimessa, ghiacciaia e infine rifugio antiaereo durante la Seconda guerra mondiale – che ha ospitato una originale esposizione dell’opera di Bruno, priva di tavole originali, eppure di forte atmosfera: video, oggetti, suoni per suggerire il clima claustrofobico di Cinema Zenit.
Cinema Zenit 2, insomma, è una buona occasione, dopo una prima volta, per ritornare su uno dei progetti più ‘tenebrosi’ – anche in senso conradiano – del panorama fumettistico italiano. Un ‘romanzo grafico a puntate’ che mescola antichità (e macerie) arcaiche e sensibilità politiche contemporanee, del quale siamo tornati a discutere con l’autore.

Il secondo volume di Cinema Zenit inizia dove si chiudeva il primo, nel momento in cui la protagonista Anna arriva al cinema. Sapresti dirci perché, in una realtà oscura e misteriosa come quella dove si svolge la storia, hai scelto proprio un cinema per il titolo (e come ambientazione centrale, in questo secondo capitolo)?
Il titolo è arrivato molto presto, ancora prima che la storia prendesse forma. Compariva da un disegno fatto qualche anno fa e ho deciso di riutilizzarlo per il nuovo libro. Pensavo che fosse un bel titolo, mi piaceva il suono e il tipo di associazioni di immagini che può generare. Infatti immediatamente è scattata la fissazione per l’idea del cinema, inteso come luogo fisico. La sala cinematografica, indipendentemente dal contesto a cui siamo abituati e dai contenuti proiettati, in fondo è un luogo abbastanza assurdo. Una grande stanza dove si sta al buio ad osservare immagini in movimento. Volevo provare a inventare qualcosa in cui il meccanismo della proiezione fosse completamente slegato dalla presenza del pubblico e in qualche modo seguisse logiche autonome e misteriose.
Il nome del cinema, Zenit, richiama certamente il cielo. In questo caso, un cielo abitato solo da dèi caduti, “i ribelli”, protagonisti di una lotta sconosciuta (al lettore) e quindi costretti al confino e a una vita rappresentata su pellicola. Nonostante ciò che riguarda lo spazio cinematografico rompa spesso il confine della verosimiglianza, si tratta una metafora forte, in cui la sottotrama politica è relegata a uno spazio maledetto e controverso. Un riferimento alla vanità di certa politica contemporanea?
Più che la politica vera e propria, pensavo all’atmosfera gravida della cospirazione, all’incertezza dei giochi di potere clandestini. Ho voluto associare queste suggestioni all’estetica della festa e della ritualità popolare, e poi alle proiezioni del cinema, in modo che risultassero più pervasive. Ma ci sono anche le sordidezze, le messinscene che la protagonista osserva, e la generale sensazione di violenza latente pronta ad esplodere…

Il tuo è un lavoro molto ‘denso’, sia a livello grafico che a livello testuale. Nella scrittura, inoltre, inserisci una voce off che risuona nella testa di Anna e la accompagna, senza però che il lettore capisca bene da chi provenga. Qual è la funzione di questa linea testuale?
Rientra nell’idea di creare un racconto complesso, stratificato, dove i testi e le immagini non devono necessariamente coincidere in ogni momento. Inoltre mi affascinava la possibilità di avere diverse “voci”, con diverse temperature emotive e diversi registri linguistici. Scrittura e disegno, per me, sono due linee di lavoro che, pur alimentandosi a vicenda, procedono parallele, distanziate e in parziale autonomia, e vanno a coincidere solo nelle ultimissime fasi della realizzazione del fumetto.
Sembri voler spiazzare il lettore trascinandolo in una storia di cui non si conoscono tempo e luogo dell’azione, ma sono chiari i riferimenti all’antichità. Da dove trae spunto questa dimensione ‘mitica’?
Non so bene da dove tragga origine. Sono un lettore interessato al mondo e alla letteratura dell’antichità, ma certamente non sono un esperto della materia. Probabilmente, il vero motivo sta nelle immagini: le architetture in rovina, le statue, tutti oggetti che sanno di remoto, di insondabile, ma che sembrano emanare una potenza perentoria, accecante. Forse il mio è un ingenuo tentativo di mettere a frutto queste forze a livello narrativo, slegandole dal contesto storico.
La città antica, ritratta nelle sue maestose forme greco-bizantine del primo capitolo, scivola qui nel gorgo postmoderno di un cinema abbandonato. Nella sua drasticità, il tuo stile ti permette di dipingere ambientazioni molto diverse, molti frammenti di realtà che vanno a costruire uno spazio del tutto immaginario. A cosa ti sei ispirato, e quale effetto ti aspetti sul lettore?
Le ispirazioni sono state molteplici, difficili da riassumere, vanno da luoghi reali, ad altri visti nei film, alla suggestioni letterarie, eccetera. Una delle idee di partenza di Cinema Zenit è quella di provare a trasmettere il disagio dello straniero in un mondo ostile e incomprensibile, la paura di perdersi, e spero che in qualche modo la lettura del fumetto possa rievocare queste sensazioni.

La pennellata, il graffio, l’uso del tampone. Tutte tecniche che generano una miriade di texture, e un gusto espressionista che quasi si contrappone al rigore della gabbia, sempre organizzata in modo simmetrico e lineare. È di nuovo un contrasto vòlto a confondere il lettore, o ha una funzionalità narrativa?
Ho sempre lavorato sulla stessa gabbia, regolare e con poche vignette. Cerco di convogliare le informazioni dentro le vignette, piuttosto che imporre un ritmo dall’esterno. Il risultato può forse generare un tempo di lettura diverso, più meditato, che invita a frugare nell’immagine. Almeno questo sarebbe l’auspicio… Mi affascina il concetto di profondità di campo, anche se è una nozione che appartiene al linguaggio del cinema e della fotografia, e che a rigore non dovrebbe avere senso nel fumetto.
Alcuni elementi visivi ricorrenti del tuo libro li ho ritrovati esposti nella mostra a Bologna presso Dynamo. Per esempio, la sensazione di essere dentro a un sogno e di entrarvi ed uscirvi continuamente. Come è stato rendere Cinema Zenit un percorso espositivo?
Con l’installazione per Bilbolbul abbiamo cercato di creare un’esperienza immersiva, di rievocare l’atmosfera e le ambientazioni del fumetto senza raccontarne la storia. Per fare questo è stato molto importante la scelta del luogo espositivo. Sapevamo che la riuscita dell’installazione sarebbe dipesa quasi interamente da quello. Non volevamo uno spazio espositivo istituzionale, una galleria o una sala per mostre, ma un luogo reale, creato per altri scopi, e che portasse i segni del tempo.
Alla fine di questo secondo volume rimangono molti punti oscuri nella trama. Tra quanto potremo scioglierli?
Entro il 2016 conto di far uscire Cinema Zenit 3, ultimo e finale capitolo.