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FocusIgort ricorda Andrea Pazienza

Igort ricorda Andrea Pazienza

Il testo che segue è stato pubblicato il 7 gennaio da Igort su Facebook. Lo riproponiamo, perché rappresenta un ricordo importante e personale che l’autore fa di Andrea Pazienza; ma anche perché costituisce un’anteprima di un libro tuttora in lavorazione scritto da Igort, di cui farà parte anche il testo su Stefano Tamburini che anticipammo poco più di un anno fa (e che potete leggere QUI).

L’autore ci anticipa il libro con queste parole: «Parlerà della stagione punk, la nascita della New Wave, il nuovo fumetto italiano, come lo si chiamava allora, Metal Hurlant, Pasolini, Bologna rock, l’eroina, Tondelli, il delitto Alinovi, Valvoline e via dicendo. Non so che forma avrà, ma uscirà, credo nel 2016».

andreapazienza

Con Andrea Pazienza ci furono diverse “stagioni”. Al principio quando ci conoscemmo fu un parlarsi fitto e pieno di reciproche curiosità. Ricordo che scese nel giardino del suo palazzo, passando attraverso il bar Cirenaica, per prendere una rosa da regalare alla mia fidanzata di allora. E si punse con le spine. Era pieno di gesti imprevedibili, Andrea. E di cose vitali o decadenti. Mi leggeva gli appunti (per esempio uno bizzarro e filosofico sulla punta delle basette di Topolino) dai suoi quaderni, mentre nella penombra del salottino in cui avrei passato, tempo dopo, intere giornate a disegnare con lui, riposavano le pagine di Penthotal piene di tratteggi. Ricordo le chiacchiere sui dada, sul genere hard boiled, su Del Buono, Eco, e sul “piacersi”. (Mi raccontò che la sera prima aveva trascorso un paio di ore a baciarsi allo specchio).

Sul fumetto, su quello che facevamo o che facevano gli altri. Si parlava con piacere, scoprendo i reciproci mondi, i reciproci approcci. Una sana curiosità che avrei ritrovato raramente in altri autori.

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L’illustrazione di Pazienza per la locandina di La città delle donne di Federico Fellini.

La musica che ascoltava era una cosa quasi casuale, lo incuriosivano le mie frequentazioni new wave e le cose nuove: una cultura punk che vedeva mutare giorno dopo giorno, verso coordinate “moderne”. L’epoca freak era al tramonto sorgeva la new wave. Sul tavolo stazionava una piccola radio registratore (ghetto-blaster) che aveva preso a New York, in un viaggio con Betta. Betta era all’epoca il grande amore di Andrea, l’aveva perfino ritratta nel manifesto de “la città delle donne” di Fellini. Questa radio la accendeva spesso, ma di cassette non ne aveva tante. Ascoltava musica italiana o qualche stazione commerciale.

Poi venne la rottura tra di noi, a causa del fatto che per una sua frase ero stato fatto fuori dalla mostra della Alinovi, “Registrazione di frequenze”, (anno 1983) una mostra importante, nella quale il fumetto veniva ospitato per la prima volta in un museo d’arte moderna. Alla pari con le altre avaguardie, senza complessi.

francescaAlinovi
Francesca Alinovi

C’erano lui, i miei compagni di Valvoline, ma non io. E la cosa mi fece male. Ma ci si vedeva ugualmente, in casa di Marcello, avevamo troppi amici in comune, e per lui era molto sgradevole incontrarmi e constatare che non avevo dimenticato.

«Ciao Andrea, sei sempre lo stronzo di sempre?»

Ecco, più o meno questo era il tenore delle nostre conversazioni in stile “no wave”. Lui era costernato. Con Jori ebbe un legame forte, Marcello rappresentava quello che lavorava nel mondo dell’arte di serie A. Faceva parte dei “nuovi nuovi”, sostenuti da Renato Barilli, che si contrapponevano alla transavanguardia di Achille Bonito Oliva. (o Akiller Bollito Vivo, come lo chiamava Tamburini), e fare parte della scena dell’arte gli interessava ad Andrea. Pensava delle grandi immagini dipinte ad aerografo su macchine di lusso. Me ne parlò a più riprese. Io non ero affatto convinto che fosse una buona idea. Mi sembrava molto scema come cosa. Marcello Jori faceva dei fumetti di stampo realista per Valvoline. Acquerelli dipinti con tocco delicato. Usava delle foto come base, spesso prese dall’archivio del padre, che era stato documentarista. Non c’erano purismi, anche noi usavamo documentazione fotografica, ma Marcello negava risolutamente, diceva che era in grado di inventare a quel livello, un livello molto fotografico appunto.

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Tavola di Marcello Jori da Marco Karo, Valvoline 1983

Noi si giocava, portavamo spesso il discorso su quelle foto, ma lui niente. «Macché foto, tutta farina del mio sacco».

Dato che una volta, a casa di Marcello, dopo l’ennesima balla, Giorgio Carpinteri si alzò per andare nello studio di Marcello a prendere “il corpo del reato”, lui aveva peso l’abitudine di chiudere a chiave lo studio. La settimana seguente arrivammo a casa Jori senza preavviso. Io e Giorgio bloccammo Marcello, che aveva appena aperto, e Daniele corse nello studio per prendere le foto per mostrarle a tutti noi. Erano centinaia di diapositive, alcune del tempo della guerra, in vetro.

Marcello rise di questa cosa, ma Andrea, quando lo seppe, fu scioccato. Per lui ci eravamo comportati da squadristi in un certo senso. Che razza di gruppo eravamo? In realtà credo pensasse a certe dinamiche pesanti che stavano avendo luogo a Roma, a Frigidaire, in cui differenze estetiche diventavano regolamenti di conti tra disegnatori. Ne aveva fatto le spese Mattioli, che fu costretto a ridurre le pagine di Joe Galaxy. Fino a due al mese, perché Tamburini riteneva che non piacesse ai lettori. Marcello e Andrea si studiavano, pensavano cose insieme. Una volta andarono insieme ad Alter.

Di ritorno da Milano, erano gli anni ø, i due erano così fuori di testa che presero un treno per Genova invece che per Bologna. Siccome non c’erano i cellulari e si vergognavano come ladri, telefonarono dopo ore, all’arrivo. Dovevano essere già a casa, e invece si trovavano a centinaia di chilomentri di distanza. Ma non dissero quello che era veramente accaduto. Io ero a casa di Marcello, li si aspettava per andare tutti a cena.

Ma i due raccontarono che c’era uno sciopero a Milano. Andrea condì il resoconto con scene apocalittiche di operai sdraiati sui binari e cariche della polizia, sembrava una sceneggiatura. Io ero a casa di Marcello e ricordo che Betta, che all’epoca stava ancora con lui, ascoltava Andrea con occhi increduli, lo conosceva fin troppo bene. Così lo rassicurò e poi, finita la conversazione, chiamò la stazione di Milano per chiedere informazioni su questo sciopero. Fu così che scoprimmo la verità, Andrea si era inventato tutto quanto. I racconti di come aveva saltato la naia fingendosi malato (cardiopatico, mi pare) mi vennero alla mente. Gli piaceva mentire, entrava in un dramma di cui, guarda caso, era l’attore protagonista. E si compiaceva di sviluppare la storia alla maniera della commedia dell’arte. Erano racconti che duravano ore, tra le risate generali.

Dopo la riappacificazione mi chiese se volevo andare da lui a disegnare. Furono giorni pieni di luce e di dolore. Andrea si faceva 4, anche 5 volte al giorno. C’era un patto implicito tra di noi, io cercavo di dissuaderlo e lui poi si bucava sotto i miei occhi. Non ho mai avuto molta dimestichezza con le droghe, era dura. La sua casa era un porto di mare, frequentato da chiunque avesse qualcosa da vendergli o proporgli, data la facilità con cui lui guadagnava era preda di questi sciacalli che non lo lasciavano un attimo. Si presentavano alla porta, salutavano, entravano, bivaccavano. Lui disegnava e loro sdraiati nel divano dietro, a cazzeggiare, consumargli le provviste del frigo, pascolare per il salone con una rivista in mano o dormicchiare, manco fossero in vacanza dalla vita. Ricordo che gli proponevano di tutto, del fumo, degli oggetti d’antiquariato, un’armatura da Samurai dell’Ottocento ecc. Una volta, esasperato, li mandò via tutti.

E mise un cartello al portone, tre piani di sotto, diceva qualcosa come: se cercate Andrea Pazienza, non suonate. Potreste pentirvene. Apriva solo a me in quei giorni, e alla sua fidanzata, che era una delle poche persone che gli voleva veramente bene. Lei parlava pochissimo, ma era una presenza rassicurante per lui. Quei giorni erano i giorni di Pompeo. Aveva già cominciato a fare quel libro, un lavoro mortifero, quasi un diario, che disegnava su un quaderno “architetto” di carta quadrettata.

Era il 1984, insegnavamo alla scuola Zio Feininger, capitava che ci andassimo insieme, ed è vero che sbagliava sempre classe. Entrava e si sentiva la risata generale degli allievi. Era diventata una gag alla scuola.

In quei giorni era inquieto, con la testa per aria. La storia con Betta era finita, marcita sotto gli occhi di tutti. Da tanto, lui stava con un altra, ma si era ostinato ad alimentare, nella sua fantasia, in un mondo parallelo, la fiaba malata che lui e Betta si sarebbero rimessi insieme. Era una cosa bacata.

Glielo dicevo. Betta stava già con Marcello, e io, come tutti noi intimi, lo sapevo benissimo. Ogni tanto Andrea alzava la testa dal foglio e mi faceva: «Igor, tu sai, forza, dimmelo».

Che altro potevo fare? Negavo. Vincevo il premio nobel di ipocrita dell’anno, chiaro, ma non ce la facevo a dargli quella mazzata. Anche se era evidente, che Andrea sapeva ma non voleva vedere.

Leggeva Le Carrè, e gli piaceva. Ma cosa aveva imparato da quelle storie? Lavorava anche alla storia Lupi, che disegnò con i miei pastelli Derwent Cumberland e con i pennarelli Pantone, miei e suoi messi insieme in un cassetto del comò, poggiato sul tavolo tra me e lui. Si era tornati a scuola, ridere e disegnare come pazzi. Ho ancora i miei pantone segnati, per distinguerli dai suoi. Sapete cosa mise come esergo nella prima pagina della storia? Questa frase.

«Amore è tutto ciò che si può ancora tradire».

LupiPaz
Dico, più chiaro di così?

In quei giorni dimenticai la mia valigetta con tutti i pantone. Era poco prima della nostra partenza per Parigi. Si andò al Bains Douches, che era un club un po’ fighetto, nel 3° arrondissement, frequentato dall’underground parigino e non. Ci andava pure Grace Jones, Mondino, il regista dei videoclip belli, Bowie, altre rockstar e un mare di artisti. Noi ci presentammo Musicomix, il libro sulla new wave italiana del fumetto.

Tutti insieme sull’aereo, io, Paz, Carpinteri, Jori, Mattotti, Brolli, mi pare anche Cadelo, Mattioli ecc.

«Ragazzi vi immaginate se cade l’aereo? Come il Gran Torino, tutto il nuovo fumetto da reinventare». Alludevo alla tragedia di Superga, nella quale, l’aereo che trasportava la squadra del Torino, composta da grandissimi campioni, precipitò poco prima dell’atteraggio. Non sopravvisse nessuno.

Paz era superstiziosissimo cominciò a toccarsi le parti basse. E gli altri giù a ridere. Al Bains Douches rimanemmo delle ore, io ero vestito come una comparsa di Casablanca, con tanto di fez in testa. Molto anni 80, ridicolo.

Andrea era molto anni 70, jeans e t-shirt. Mi guardava estaticamente e mi diceva “tu sei il moderno”. Io rispondevo: “tu sei scemo” e ridevamo come fanciulli. In quei giorni, tornato a Bologna (dopo una performance nella quale disegnò su una tela di 2 metri l’italia che manda affanculo la Francia, che Mattioli segò con la sega a motore, in stile film horror di Tob Hoopper) disegnò la mia valigetta e me con il fez sulle pagine di Pompeo, il libro sui suoi ultimi giorni a Bologna.

Sullo stesso tavolo del suo studio giaceva anche uno di quei libri sugli gnomi che andavano di moda alla fine degli anni Settanta. Orrore!
«ma che è sta roba, Andrea?” Gli dicevo ironico.
«Mi vuoi far stare male?»

gnomi
Lui ridacchiava e mi mostrava gli alberi contorti, che gli piacevano, ne clonò uno nella storia. Colorato con le vernicette coprenti.

Rideva del fatto che io gli dicessi che era roba da frichettoni, mentre mi leggeva i dialoghi della storia, “lupi”, per provarla. Assistere a quelle letture era vedere una cosa morta animarsi. Un disegno prendere vita. Non so come descriverla questa cosa se con l’aggettivo “magico”.

Andrea aveva il tocco, la classe, la fantasia. Ne abbiamo parlato anche l’alto giorno a Parigi, con Tanino. Aveva uno scarto sempre geniale, imprevedibile. Come la storia Armi, disegnata su carta millimetrata nel 1977, una sorta di spaccato della società americana attraverso le armi usate per attentati e crimini vari. Che sarebbe attualissima e spiazzante anche oggi.

PazienzaPist
Quando lasciò Bologna, per storie di arresti nel mondo dei pusher, l’atmosfera era diventata per lui irrespirabile. E Andrea, che fu anche arrestato e interrogato, aveva perso il sorriso. Si sentiva perduto, solo.

Mi chiese centomila lire in prestito, poi partì, fuggi da Bologna. Ricevetti dopo qualche mese una sua lettera da Montepulciano, con i complimenti per un fumetto realizzato in coppia con Sakamoto che avevo pubblicato su Frigidaire. Disse che me lo invidiava. Era carino, semplice Andrea.

Poi il tempo passò, non ci sentivamo quasi più.

Fu un giorno triste che ricordo ancora come fosse ieri, quel 16 giugno del 1988, quando Betta mi telefonò, era in lacrime e mi disse solamente “è morto Andrea”. Me lo ricordo come fosse ieri, perché il tempo si fermò. Io ero seduto al tavolo, parlavo con un amico e disegnavo, scrissi sul foglio “è morto Pazienza”.

Era davvero finita una stagione.

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