L’intervista a Tiziano Sclavi su La Lettura del Corriere della sera

Tiziano Sclavi è un uomo del suo tempo (frase fatta, lo so, ma mai così vera): un uomo ancorato alla sua vita, alla sua storia, alle sue esperienze. E alle sue paure. È anche uno dei maestri massimi del fumetto italiano (e non) di tutti i tempi: ha sempre avuto una visione, nei suoi racconti. Una visione che sintetizzava immaginazione con realtà, sogno con vita vera.

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Il 24 gennaio, su La Lettura del Corriere della Sera (disponibile in edicola tutto il resto della settimana), è tornato a raccontarsi – e a raccontare – a Antonio D’Orrico in un’intervista che, non esagero, è un piccolo gioiello: si parte piano, dall’inizio, dalla passione “lettura”, e quindi ci si avvicina alla scrittura, alla vita oggi, al fumetto, a tutti i grandi che sono passati vicino a Sclavi in questi anni e che, da lui, si sono lasciati incantare. «Pescavo dalla vita vera», dice riguardo alle sue storie. «Giravo sempre con un taccuino. I miei fornitori erano le persone che incontravo: il tassista, la panettiera, i tipi curiosi in cui m’imbattevo. Rubavo tantissimo dalla strada come facevano Age e Scarpelli, i miei sceneggiatori italiani preferiti. Le mie fonti di ispirazione erano la vita, gli amici. E poi mi sono sempre capitati tizi strani», ricorda. «Una sera c’è stato uno che ci ha portato a casa un pranzo cinese, allora vivevamo a Milano, era alto, credo, due metri e dieci. Era romeno ed era tra quelli che hanno arrestato Ceausescu, il dittatore. Incredibile. Si è seduto con noi e ci ha raccontato la storia della sua vita. Fu quasi surreale». Ma poi ci sono stati anche gli incubi, quelli veri: «La mattina, prendendo il caffè, Cristina mi regalava i suoi sogni. Sogni horror».

A cinquant’anni ha detto basta alla psicoanalisi: «la mia analisi è stata perfettamente ortodossa. L’analista è sempre stato di scuola freudiana (…). Mi sono sempre disteso, come da tradizione viennese, sul lettino. Le sedute duravano quarantacinque minuti canonici. Ci ho creduto per molto tempo nell’analisi. Sono stato come Woody Allen (…)». Ora legge, legge tanto. Anzi, secondo lui, legge poco: «sono un lettore lentissimo. È una cosa triste il numero di libri che possiamo leggere in una vita. Se la vita è lunga, uno può leggere al massimo tremila libri. Credo di aver già raggiunto questo tetto e perciò morirò presto». Del suo incontro con Gianluigi Bonelli, Sclavi ricorda il proiettile che gli ha regalato: «la prima volta che lo incontrai, tirò fuori una pistola, una pistola vera, una 38, e me la puntò al cuore. Poi la abbassò, levò i proiettili e me ne regalò uno. ‘Non ti sparo perché mi sei simpatico’, disse. Cedo che parlasse sul serio. Era un tipo così. Quella pallottola ancora la conservo». Quindi chiarisce: il nome di Dylan Dog viene dal poeta Dylan Thomas, non da Bob Dylan come pensano in molti: «Mi piacevano molto le poesie di Dylan Thomas. Mi piaceva anche la sua vita, il fatto che fosse un alcolizzato, un dannato, un maledetto. Cose di quando ero ragazzo».

Di se stesso come scrittore, Sclavi dice: «Ci deve essere una grande dose di presunzione per continuare, come ho fatto io per tanto tempo, a tampinare gli editori con le mie proposte, ad accumulare rifiuti. Bisogna crederci proprio tanto. No, non ci credo più. E mi pento di averci creduto. Gli scrittori sono come sciacalli, stanno a guardare gli altri vivere e prendono appunti. Sono ossessionato dal prendere appunti. Tutto questo mi ha impedito di vivere. Perciò non scrivo più. Tutti lo considerano una débacle e la cosa mi intristisce, come se uno è ancora vivo solo se scrive».