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RecensioniNovitàJupiter’s Legacy. Supereroi, o un desiderio chiamato utopia

Jupiter’s Legacy. Supereroi, o un desiderio chiamato utopia

Parlare di supereroi, da sempre, è un po’ parlare di utopia. Fin dagli albori del genere, nei tardi anni Trenta, l’archetipo ha infatti incarnato un impulso al miglioramento sociale, verso la costruzione del “migliore dei mondi possibili”. In altre parole, una risposta umana e statunitense alle ansia della modernità, capitalista e tecnologica, e soprattutto alle paure della Grande Depressione. Come già evidenziava Eco in Apocalittici e integrati (1964), tuttavia, il potenziale sociale dell’eroe – Superman, in quel caso – veniva costantemente inibito dalla necessità di serializzazione, e di mantenimento dello status quo. Per funzionare ad libitum, l’eroe doveva quindi rimanere una manifestazione reattiva e “caritatevole”, volta alla riparazione di piccoli torti sociali o, più di frequente, attentati alla proprietà privata.

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Tuttavia, le cose sono cambiate nella seconda metà del secolo. Con la nascita di miniserie, graphic novel e realtà alternative alle major americane, diversi autori hanno tentato nuove vie. Parole chiave: revisionismo, sofisticazione, decostruzione. La cosiddetta Dark Age (o Modern Age) del fumetto americano ha il suo zenit negli anni Ottanta, quando sceneggiatori americani e soprattutto inglesi sovvertono gli archetipi per un pubblico più maturo, spesso più adulto, persino più raffinato. E non è un caso che, per certi versi, il fil rouge che accomuna queste opere sia proprio la rinnovata potenzialità utopica del supereroe, qui però costantemente minacciata dalla derivazione totalitaria e distopica. Tra esse basta ricordare Miracleman (il fu Marvelman), V for Vendetta e Watchmen di Alan Moore, ma anche operazioni meno note come Squadron Supreme di Mark Gruenwald (spesso ricordato più per le ceneri che per gli effettivi meriti artistici). Qualche anno più tardi, in questa linea si sono inseriti diversi ottimi progetti. A fine anni Novanta toccò a Kingdom Come di Mark Waid e Alex Ross; ma anche i due Dark Knight di Frank Miller, Returns e Strikes Again, sono stati letti come “critical dystopia” della ormai antica figura del supereroe.

Mark Millar, sceneggiatore scozzese e figura centrale del mainstream fumettistico, si inserisce proprio in questo filone, per proporci con Jupiter’s Legacy la sua personale rivisitazione del tema. In coppia con il compaesano Frank Quitely, che molti ricorderanno per le collaborazioni con Grant Morrison (un altro scozzese!), affronta così lo snodo utopico e lo riconfigura per un pubblico contemporaneo.

Troviamo quindi una vicenda che ha il suo antefatto meta-fumettistico negli anni Trenta, quando un gruppo di sei giovani avventurosi americani scappa dalle ristrettezze della Depressione imbarcandosi nell’Oceano Atlantico. La loro destinazione è una misteriosa isola a largo dell’Africa, apparsa in sogno al capo-spedizione Sheldon Sampson, il cui cognome (Sansone) è un chiaro rimando agli elementi ebraici iscritti nell’archetipo supereroico. I poteri che dimostrano di avere al loro ritorno, e soprattutto la trasmissibilità ereditaria, fanno di loro i primi esponenti di una generazione di eroi capitanata da Sheldon, che assume il nome programmatico di Utopian.

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Mentre gli exploits giovanili del supergruppo (che assume il nome di Union) vengono descritti nella serie spin-off Jupiter’s Circle, anch’essa sceneggiata da Millar, Jupiter Legacy fa un salto temporale e riprende i protagonisti ai giorni nostri. In un America in cui la recessione del 2008 assume echi da Grande Depressione, il problema principale del gruppo Union non è rappresentato da supercattivi colorati, ma piuttosto da un doppio dilemma etico. Da una parte c’è la relazione con i propri figli, cioè la generazione successiva di superindividui poco interessati alla vita – e alla responsabilità – da supereroe. Dall’altra, l’annosa questione del rapporto con la società civile e governo statunitense, percepito dai super come inefficace di fronte alle crescenti problematiche economiche.

In questo senso, Jupiter’s Legacy articola la questione supereroica come dilemma morale, incentrato sul tema della responsabilità. Riprendendo narrative classiche come i miti greci o l’Amleto di Shakespeare, lo spettro del fallimento genitoriale – già al centro di storie come Watchmen e Kingdom Come – diventa così metonimia della più ampia questione sociopolitica già sviscerata in Squadron Supreme o, in tempi più recenti, Civil War (sempre di Millar). Non manca, come lecito aspettarsi, una velata e innocua riflessione (non azzarderei il termine ‘critica’) di carattere storico: il declino del supereroe è quindi, di nuovo, metafora del declino statunitense come potenza egemonica, soprattutto per quanto concerne le cicliche crisi del capitalismo. Ciò significa che entrambi vengono a rappresentare un modello di sviluppo – un modello di modernità – sempre più inapplicabile.

Senza le tavole di Quitely, tuttavia, Jupiter’s Legacy sarebbe solo un una discreta storia ultraderivativa. L’autore scozzese abbandona il virtuosismo e la sperimentazione vista, ad esempio, in We3, mettendo la propria arte al servizio della scorrevolezza e della leggibilità. Le tavole presentano così una griglia di quattro strisce per pagina, riprendendo l’impostazione widescreen tipica di molti lavori di Millar (Nemesis su tutti). Quest’uso retorico della pagina (secondo la tassonomia di Benoît Peeters) rischia spesso di sfociare nel manierismo cinematografico, e solo la pulizia formale e la raffinatezza compositiva non rendono il volume uno sterile esercizio di stile. Nonostante le evidenti direzioni in sceneggiatura, quindi, la dimensione autoriale di Quitely traspare con prepotenza, grazie anche agli effetti particellari, cioè in quelle esplosioni entropiche che distruggono il rigore da ligne claire e saturano la percezione visiva.

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Cosa rimane, quindi, di questa prima metà di Jupiter’s Legacy? Un’opera divertente, leggibilissima, ben scritta e (molto) ben disegnata. Il solito Millar, al meglio delle proprie potenzialità, saccheggia qua e là riproponendo molte tematiche già sviluppate in altri suoi lavori, e soprattutto in caposaldi del genere. Un autore che si conferma quindi chiave di volta del mainstream americano, in grado di capire fino in fondo cos’è l’intrattenimento: in altre parole, una macchina sforna-blockbuster, sia su carta che su pellicola – i diritti di Jupiter sono già stati opzionati dalla Di Bonaventura Pictures.

Eppure, rimane un po’ il rammarico per non aver fatto molta strada da Watchmen, dall’idea cioè che i supertizi in costume falliranno immancabilmente, e proprio nel loro intento utopico. Che il sogno moderno, modernista e capitalista di Superman e Batman è destinato a sgretolarsi, una volta rapportato con uno spettro del mondo reale. Che grandi poteri portano psicopatologie, ansie e disturbi sociali, più che grandi responsabilità.

Forse, che anche i lettori di supereroi siano come i loro idoli, residuati di un’epoca passata e costretti a rimestare nella nostalgia? Siamo tutti un po’ patetici, fuori tempo massimo e destinati ad estinguerci. Ma intanto, ci godiamo lo spettacolo.

Jupiter’s Legacy vol.1
di Mark Millar e Frank Quitely
Panini Comics, 2016
136 pag., 16,00 €

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