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FocusProfiliLa ricerca della freschezza. Intervista a Giulia Sagramola

La ricerca della freschezza. Intervista a Giulia Sagramola

Giulia Sagramola è una “illustratrice, fumettista, designer e ice-cream addict”, come si è auto definita su Instagram. Originaria di Fabriano, ha vissuto e lavorato per molti anni a Bologna, ma da qualche mese vive in Francia, dove sta portando a termine una residenza artistica ad Angoulême. Proprio durante questo soggiorno ha realizzato buona parte del suo ultimo libro a fumetti, Incendi EstiviQUI la nostra recensione e QUI una anteprima – pubblicato lo scorso autunno da Bao Publishing.

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Sagramola ha alle spalle una lunga esperienza come illustratrice per diverse testate ed editori, fra cui New Yorker, New York Times, Einaudi, Mondadori, Giunti, Feltrinelli. Inoltre, al suo attivo c’è anche la creazione di una raffinata etichetta di fumetti autoprodotti assieme a Sarah Mazzetti e Cristina Spanò, Teiera, arrivata al sesto numero. E un gran numero di storie brevi a fumetti, naturalmente. Nel 2008 il suo vecchio blog è diventato un omonimo libro a fumetti per ProGlo, Mint and Milk, mentre nel 2011 l’infanzia di Giulia s’è trasferita tra le pagine di Bacio a cinque, uno dei più brillanti volumi della collana Gli anni in tasca Graphic di Topipittori, a fianco dei memoirs a fumetti di colleghi come Michele Petrucci con A caccia di rane e Tuono Pettinato con Il magnifico lavativo.

Per Giulia Sagramola il fumetto è anche e soprattutto un impegno complesso, serio e un po’ “politico”: per questo non stupisce trovarla tra i componenti del Collectif des créatrices de bande dessinée contre le sexisme, insieme alla compagna di residenza francese Giorgia Marras e a poche altre italiane. Se non fosse stato per le vibrate proteste che si sono sollevate da quel collettivo, e per la conseguente sequela di defezioni tra i candidati al Grand Prix dell’appena concluso Festival International de la Bande Dessinée di Angoulême, la questione della disparità di considerazione delle autrici di fumetto rispetto agli omologhi maschi sarebbe ancora considerata per lo più un trascurabile sofisma: ne abbiamo ampiamente parlato qui.

Mentre il dibattito prosegue, alla nostra richiesta di un commento Giulia ha declinato l’invito, preferendo non strumentalizzare la questione specifica e provando a contribuire invece, con il racconto della sua esperienza diretta, a una riflessione più ampia sulle questioni di genere e sul ruolo delle donne nel mondo del fumetto; tanto più alla luce del fatto che la nostra lunga conversazione è stata registrata poco prima che la polemica esplodesse, il 9 dicembre 2015, in occasione della presentazione di Incendi Estivi presso la Bao Boutique milanese. Mettetevi comodi.

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Come hai proceduto nella lavorazione di Incendi estivi? È stato complicato passare dal formato della storia breve a quello del romanzo a fumetti?

È un libro che stavo scrivendo da sei anni. Non è il primo libro lungo che faccio, ma è il primo non autobiografico, perché volevo cercare di fare fiction. Per me è stata una cosa nuova e dovevo capire come costruire una storia da zero, perciò c’è stata una gestazione lunga: nel frattempo ero cresciuta e non ero per niente sicura di come sarebbe venuto fuori.

Ero molto spaventata dal fatto che non sapevo da dove cominciare a scrivere, perché nelle scuole ti insegnano a disegnare, ma le scuole di scrittura sono una cosa più rara. E inoltre perché è più difficile imparare a scrivere. Insomma, è nata tanti anni fa ma è venuta stratificandosi. Ho capito che lavoro un po’ a strati utilizzando cose che vedo, pensieri, idee che per me sono importanti. Non ne ero molto consapevole. Non è che ho detto “voglio raccontare un libro sulla noia, sul vivere in provincia, i primi amori adolescenziali”. No: è nato perché volevo raccontare i rapporti fra sorelle e quelli fra migliori amici, e volevo raccontarlo in un contesto diverso da quello di adesso. Infatti ho volutamente retrodatato gli eventi, perché quello era il mondo dove sono cresciuta io, era il mondo a me più familiare. Ed è un mondo che non esiste più, anche se è vicinissimo: mi faceva molto effetto pensare che nel giro di quindici anni la tecnologia è andata così veloce che non vivi più la noia allo stesso modo. Questo non significa per forza che fosse una cosa negativa: io me la ricordo bene la noia di quel periodo lì. Anzi, disegnavo proprio perché non volevo annoiarmi tutto il tempo.

Il libro è nato così, da quest’idea di raccontare il rapporto tra due persone che stanno forzatamente insieme ma che non si scelgono, come sono due sorelle. In effetti io ho due sorelle, non una come nel libro. Qui ho cercato di creare persone che fossero diverse da me per cercare di capire come si costruisce un personaggio. È stato anche una sorta di esercizio, e poi sicuramente ogni personaggio ha qualcosa di me: anche Stefano, il ragazzo di Rachele. Anzi, sono molto più simile a lui che alle due sorelle. E con la sorella Sabrina volevo creare un personaggio scomodo, una persona che fa delle cose molto diverse da quelle che farei io, ma non volevo giudicarla, soltanto accompagnarla nella sua vita e vedere cosa faceva. E anche difenderla, se fosse stato necessario.

Per questo dicevi che Incendi Estivi è meno autobiografico degli altri tuoi lavori?

Sì. Non era pensato per essere un’autobiografia. Di autobiografico c’è La zona, a cui mi sono ispirata per Incendi. Questa è la prima storia dove dovevo inventare tutto, per cui per superare le difficoltà ho preso aspetti che conoscevo già. Mi sono detta: “la storia la posso ambientare in un momento che conosco già”, per cui Incendi è ambientato in un posto che conosco. Mi è bastato andare in giro con la macchina, fare qualche foto, con Google Street View le ho esplorate bene. No, la cittadina di Rachele e Stefano non è proprio Fabriano, ma è Fabriano mescolata con altre due città della zona. Non volevo né rivelare l’anno, né il luogo: volevo essere il più possibile vaga, per questioni narrative. Certo, la storia poteva essere raccontata anche in altri posti di provincia, proprio per questo l’intento di non definire un luogo specifico. Se poi uno guarda bene, tra i riferimenti musicali e tecnologici e le automobili presenti, c’è un piccolo refuso storico che mi sono concessa: il cellulare con la torcia risale al 2003; nel 2001, ovvero l’anno della mia storia, non l’avevano ancora introdotto. L’ho scoperto mentre disegnavo, ma l’ho tenuto per comodità narrativa.

Il progetto del libro l’hai costruito insieme a Bao Publishing o era nato prima di sapere che l’avresti pubblicato con loro?

Era nato da prima di Bao e visto che ci ho messo così tanto, avevo bisogno di concretizzarlo cercando il sostegno di un editore. Spesso in Italia gli editori non ti propongono di fare un libro. A me è capitato solo con Bacio a cinque di Topipittori, che è stata una cosa inaspettata, ma nel frattempo stavo pensando già a quest’ultimo. Bao era già interessata a me come autrice, ho proposto loro il soggetto e loro si sono detti da subito interessati.

Ho iniziato a scrivere la storia nel corso degli anni, ma all’inizio non sapevo come disegnarla. Ero molto bloccata, e la forma grafica con cui l’avrei realizzato non la conoscevo ancora. Sapevo solo che la storia avrebbe avuto un registro diverso rispetto alle storie che facevo quando ho iniziato a scriverla. Negli anni ho capito che il mio disegno era molto vicino a un genere diciamo young adult, storie intime ma con personaggi complessi, dove si imbastisce tutto sulle dinamiche tra le persone. In questo caso volevo creare una storia che avesse “più trama”, senza bisogno di tante parole. Di solito facevo dialoghi molto prolissi, anche autoironici, ma qui dovevo asciugare; avevo usato spesso la forma del diario, ma qui non mi serviva. Insomma per la storia che avevo in mente mi serviva un altro registro, che 6 anni fa non avevo. In Incendi sono tornata alla tavola rigida, e seguire delle regole mi ha aiutato moltissimo: mi sono data limiti di colore, limiti di forma, di numero di vignette…

Una tavola di 'Incendi estivi'
Una tavola di ‘Incendi estivi’

Incendi Estivi sembra proprio essere un fumetto-fumetto, mentre gli altri tuoi lavori hanno più a che fare con le illustrazioni.

Penso che sia a causa degli studi che ho fatto: durante il liceo ho frequentato una scuola di fumetto classica, che in un certo senso mi ha insegnato come si fanno i fumetti “veri”. Dopo tre anni che ti spiegano come si fanno, sai quanto tempo e quanta fatica ci vuole e io sentivo che devevo trovare un modo per velocizzare il lavoro. Soprattutto all’inizio, quando non hai ancora fatto un libro, se ci metti un mese a fare quindici tavole pensi che non hai mai finito: fare gli schizzi veloci sul mio primo blog, invece, è stato un modo per sciogliermi. Per questo realizzare Bacio a Cinque mi è venuto di getto, come un flusso di narrazione. È stato scritto e ragionato per un anno, ma è stato molto più veloce da disegnare di Incendi.

Non faccio la sceneggiatura: scrivo una sorta di trama, di scaletta, con un po’ di descrizione di personaggi e ambienti, e poi faccio gli storyboard con i dialoghi. Quest’ultima è la parte più importante del lavoro. Dopo anni di illustrazione, penso di essermi riavvicinata al fumetto pensando proprio al registro che volevo dare al libro, con una gabbia e facendo meno vignette per tavola – ho sempre letto fumetti con tante vignette, come i fumetti di Kappa Edizioni coi quali sono cresciuta: Mondo Naif, Toffolo, Vanna Vinci… quello era il modo di fare fumetti che conoscevo a 16 anni.

Dopo ho fatto un po’ di autoproduzioni così, mi sono liberata dalle cose che mi erano più familiari leggendo un sacco di fumetti francesi contemporanei e fumetti americani tipo quelli di Fantagraphics, di Daniel Clowes, la serie Love & Rockets, Adrian Tomine. Ecco, leggendo quel tipo di fumetti penso che la griglia mi si è proprio riappiccicata addosso. Quella griglia lì ti dà anche il limite di dover scegliere bene cosa inquadrare. Se prima mi perdevo in mille descrizioni, inquadrature diverse per un dialogo, adesso che ho tagliato i dialoghi asciugo tutto per cercare di partire il più possibile con una frase significativa, e ho scelto di farlo in pagine con quattro vignette totali, a volte sei, a volte due.

Anche la trama che hai scelto aiuta molto questo tipo di racconto, con la sospensione lenta del tempo narrativo.

E anche per rendere la noia, la calma. Avrei voluto farla anche più dilatata, questa lentezza, però per quello che mi serviva, alla fine ho pensato che andasse bene così. All’inizio avevo messo in conto di farlo di 150 pagine, anche perché pensavo di fare più vignette per tavola; poi, quando mi sono a messa fare il libro nel concreto, ho capito che stava diventando più lungo e nel frattempo l’avevo già proposto a Bao, dopo averlo inviato alla Maison des Auteurs di Angoulême, dove sono adesso in residenza.

Fondamentalmente il libro l’ho fatto perché ero disperata, è stata proprio una esigenza fisica. Infatti arriva dopo cinque anni di lavoro freelance di illustrazione, ho sempre pensato fosse quello che volevo fare: disegnare. Ero quindi molto contenta di disegnare per lavoro. Però mi mancava la parte autoriale: non ero io a raccontare. Avevo proprio bisogno di disegnare una cosa mia, in un momento in cui stavo lavorando tanto ma mi sentivo proprio demotivata, triste come se stessi lavorando ad un qualsiasi lavoro non creativo. Mi sono detta “ripigliati perché stai facendo il lavoro che vorresti fare, cerca di capire perché sei insoddisfatta”. Perciò ho sospeso il lavoro che dovevo consegnare, mi sono presa tre giorni, mi sono messa a disegnare e ho fatto la prima tavola. Allora lì mi sono distesa, ho visto che funzionava, che mi piaceva e mi sono tranquillizzata: “è questa la strada”.

Dopo sei mesi mi sono rimessa a farlo e ho detto “qui ci vuole una scadenza”. L’editore non te la darà mai se non gli mandi il progetto costruito, quindi me la sono data mandando l’adesione alla Maison des Auteurs; quando ho iniziato a lavorarci era maggio, sapevo che il 10 giugno scadeva la consegna, mi sono detta “faccio otto tavole e gliele mando”.

Hai perciò lavorato alle prime otto tavole del libro?

No, della storia ho preso otto tavole che mi piacevano. Ho pensato a una scena chiave che mi volevo divertire a disegnare, e quindi ho fatto le tavole in cui Rachele e Stefano vanno nel bosco con la il telefono/torcia e vedono un cervo: quella scena lì è la prima. Quello è stato il “click”. Ora che ce l’avevo, l’ho mandata prima di tutto a Bao, che conoscevo già. Sapevo cosa fanno, andando alle fiere e ai festival, e conoscevo già Michele e Caterina. Volevo farlo vedere prima di tutto a loro, e ho pensato: se mi dicono di no lo farò vedere a qualcun altro. Invece mi hanno detto di sì.

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Come ti sei rapportata con le sequenze di sesso di Incendi Estivi? È stato difficile trovare la via giusta per rappresentare il sesso adolescenziale?

Non vedevo l’ora di poterlo fare! Ci ho ragionato, ma non è stato troppo difficile, semplicemente ho cercato di ricordare com’è essere adolescente. Ho moltissima memoria dell’infanzia e dell’adolescenza, forse perché all’epoca scrivevo tantissimi diari. Volevo raccontare quanta paura, quanta tensione c’è nel provare a baciarsi e toccarsi. Ho cercato un modo grafico per raffigurare questa tensione e mi è piaciuta l’idea di creare visivamente un po’ di scioglimento delle linee: quando Rachele e Stefano per la prima volta capiscono che si piacciono reciprocamente e cominciano a spogliarsi, ho fatto in modo che le linee dell’ambientazione si annebbiassero fino a scomparire, fino a che neppure loro si accorgessero di essersi distesi. Mi piaceva l’idea di far confondere anche il lettore, allo stesso tempo ho cercato di essere molto analitica su come raffigurare i personaggi che facevano sesso.

Non mi interessava essere voyeuristica, non volevo per forza enfatizzare la nudità e le forme, volevo essere lì con loro, cioè volevo che leggendo potessimo capire che quella cosa lì la conosciamo perché l’abbiamo fatta anche noi. Mi piaceva che maschio e femmina fossero alla pari nel punto di vista dell’osservatore, nel senso che vediamo entrambi i ragazzi e sentiamo le emozioni di entrambi. Ho notato che spesso nei fumetti si vede lei, il personaggio femminile: tanto lei e poco lui. E lui è carino… perché non farlo vedere? Poi, ecco, mi piace anche disegnare i ragazzi e questo era anche un modo per raccontare il mio punto di vista sulla sessualità, cercando di non calcare troppo la mano. Se serve ok, ma se per la storia non c’è bisogno non ho voglia di esagerare; come ad esempio per la scena nel bosco con la sorella Sabrina: Stefano sicuramente vede più di quel che vediamo noi lettori, però a me interessava, per la storia, che lui fosse paralizzato da questa visione, e allo stesso tempo che volesse andare via, anche se non lo fa. Far vedere due tette è un conto, far vedere tutta la scena di sesso diventava un’altra cosa, non serviva.

All’inizio del lavoro mi piaceva la sfida di come raffigurare graficamente l’emozione che si crea quando per la prima volta tocchi e baci una persona, anche se ancora non so come raffigurarlo; ci ho solo provato. E credo che continuerò a farlo, forse con delle storie brevi.

Ho fatto già un piccolo fumetto erotico, diciamo pornografico, per una raccolta spagnola, ma non sono contenta di come è venuto, è proprio difficile fare il porno; ma voglio continuare a provare. Si chiama Rubor, è una raccolta di storie brevi porno ed erotiche di autori sia maschi che femmine. Tra di loro io sono l’unica straniera, ho vissuto un anno in Spagna e ho conosciuto tanti autori spagnoli; un’autrice ha suggerito il mio nome. Non sono soddisfatta di come l’ho fatto: volevo raffigurare anche il punto di vista di una ragazza quando fa sesso, materializzare una sua fantasia tra quel che vede e quello che vorrebbe vedere. Ho fatto vedere troppo, per cui, invece di essere coinvolgente è meccanico e non funziona, ma me ne sono accorta solo quando è stato stampato! Mentre lo disegnavo lo trovavo eccitante e anche rileggendolo; però quando l’hanno stampato e l’ho visto dopo qualche tempo… ho pensato che non funziona! Non è che fa schifo o è volgare, ma non penso che se una ragazza lo leggesse ci troverebbe qualcosa di erotico o seducente. Ok, si impara!

Le tematiche sessuali mi interessano molto, perché sono ancora tra quegli argomenti che sono tabù, e il parlarne a fumetti col mio tratto pulito, da qualcuno considerato dolce, ho notato che ha disturbato un po’ di persone. Non parlo di una questione di punto di vista generale, che è soggettiva, ma proprio di occhi, di quello che vedi materialmente come donna, che è diverso rispetto a un uomo, e il 98% di quel che vediamo è raccontato dal punto di vista maschile anche nel fumetto. Ad esempio, mi piace tantissimo la serie Game of Thrones, e mi piace come viene trattata la sessualità, però anche lì c’è ancora il tabù del pene, non si riesce a vedere un benedetto pene in televisione! Anche in una serie così coraggiosa l’America puritana vince. Nonostante HBO ci punti tanto, non sono riusciti a farci vedere un pene in un modo diverso dal solito. Nel fumetto è più facile poterlo fare, però io devo ancora imparare.

Nella commedia, di recente mi è piaciuto come hanno raccontato la sessualità in The Interview con James Franco e Seth Rogen. C’è una scena in cui Rogen è super eccitato e vuole far sesso con una militare coreana. Lui la spoglia, si vedono un po’ le tette di lei, poi la telecamera si sposta, lei lo spoglia e si vede un po’ il pacco di lui: è molto simmetrico e funziona, anche se è comico. Penso che la maggior parte delle letture a cui accede una ragazza sono letture della sessualità dal punto di vista di un uomo, dove tra l’altro c’è anche un’idealizzazione della donna, anche molto positiva, che però secondo me a volte fa male. Questa divinizzazione la mette su un piedistallo, comunque la rende lontana, e la cosa mi dà fastidio. All’inizio mi piace vedere quanto uno è innamorato di una ragazza, e anche un’autrice certamente idealizza l’amore, lo facciamo tutti, però vorrei cercare di andare anche un po’ oltre, perché a volte l’idealizzazione allontana invece che avvicinare, e io vorrei cercare di raccontare il sesso in un modo meno romantico. Su Fumettologica, Emanuele Rosso ha scritto proprio che nel mio fumetto rappresento i rapporti di amore e sesso in modo normale, per quello che significa mi fa piacere questa percezione.

Il lavoro che portavi avanti con Teiera è stato come un impiccio, una deviazione, rispetto al lavoro su Incendi estivi, oppure ti è servito come esercizio?

È stata la palestra perfetta, perché fondamentalmente Teiera era il parco giochi dove andare a fare casino finita la scuola! Per tutte e tre è stato così: è stata la scusa per fare le cose che volevamo fare, però coi limiti di tempo e di costi che avevamo, perché non volevamo fare un libro a fumetti intero, non c’era tempo. Ora, anche se più diluite nel tempo, continuiamo con le uscite di Teiera. E possiamo semplicemente farlo rilassandoci, per cui continuiamo anche se abbiamo mille impegni. Abbiamo dilatato le uscite perché finivamo per fare i libri in funzione dei festival, per avere il banchetto. Era diventato un altro lavoro e non volevamo fosse quello lo spirito, quindi adesso lo facciamo quando abbiamo voglia. Nel 2015 abbiamo saltato Bilbolbul: se avremo voglia di prenderci l’impegno, dovrà esserci un motivo. Quindi, forse, ne faremo uno nel 2016.

Com’è lavorare in un collettivo di tre persone, rispetto allo stimolo della creatività, del confronto con altri stili e modi di lavorare?

In questo modo le idee vengono prima! È bello perché ci si confronta un sacco sulle idee, si fa il vero brain-storming che da sola magari non funziona; io almeno non sono capace di concentrazione, mi distraggo facilmente, quindi ci metto molte più ore a pensare a come fare un libro. Invece con loro è molto più veloce, forse perché abbiamo le scadenze dei festival; allo stesso tempo c’è anche un sacco di confronto, magari uno vuole fare una certa cosa, l’altro è d’accordo ma la terza persona no, quindi bisogna mettersi d’accordo trovando dei compromessi che alla fine portano a delle cose belle. Personalmente avevo proprio bisogno di lavorare con altre persone, perché all’università era tutto lavoro di gruppo e mi piaceva molto. Soprattutto lavorando da sola a casa hai proprio voglia di avere altre persone con cui confrontarti, avere intorno umanità!

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Due pagine da ‘Bacio a cinque’

Come ti sei confrontata nel concreto con l’editore, per far nascere Incendi estivi?

In Incendi Estivi quelli di Bao sono intervenuti nella lavorazione: ho scritto la storia, gliel’ho mandata e loro mi hanno detto, “la storia qui e qui forse ha delle piccole cose da sistemare”. Mi hanno posto delle domande su quello che volevo dire, io ho approfondito, poi ho fatto lo storyboard e gliel’ho mandato. A quel punto ho fatto le matite, che continuavamo a mandarci a blocchi. Arrivata a metà, mi hanno mandato altri suggerimenti. Alla fine c’è stato un editing finale in cui soprattutto Michele Foschini mi ha segnalato due, tre punti dove aggiustare il tiro, e devo dire che ha fatto benissimo. Il colore l’ho scelto io, ma anche il fatto di lasciare il tratto a matita. Ecco, il disegno a matita è stata la chiave che circa un anno fa mi ha fatto capire come avrei dovuto fare questo libro. Prima lavoravo per me coi pennarelli o col pennello. Sono molto pulita nel disegno, forse perché ho fatto la classica scuola di fumetto, però quella inchiostrazione mi aveva molto irrigidito. Vedevo che le mie matite erano più belle dei miei definitivi, perciò volevo trovare un modo per conservare quella freschezza.

Facendo Bacio a cinque, in cui il disegno era molto veloce, ho capito che meno disegni e rifai, più il gesto è fresco, magari è imperfetto, ma in alcuni casi funziona di più. Per questo ho cercato di trovare un modo di non far perdere istintività ai miei disegni. Allora ho sostituito al pennello la matita e ho visto che per quella tavola funzionava. In realtà avevo già fatto delle illustrazioni così, e mi piacevano, così ho provato a mettere quella tecnica nel fumetto. A quel punto ho fatto la follia più totale, che però mi ha permesso di svoltare la tecnica di lavorazione: prima facevo gli storyboard (piccolissimi), su un nuovo foglio disegnavo le matite e poi al tavolo luminoso le “inchiostravo” con la matita. Alla Maison ho iniziato a scansionare gli storyboard, in cui a volte c’erano dei bei segni scarabocchiati. Li ingrandivo e li ricalcavo con la tavoletta grafica aggiustando il disegno, stampandoli diventavano le mie matite. Poi al tavolo luminoso, “inchiostrando” con la matita, gli ridavo freschezza e uniformità con un tratto analogico. Inoltre, nella storia ci sono molte ripetizioni – vignetta 1: c’è lei che si alza dal letto; vignetta 2: c’è lei che guarda a destra, però nella stessa scena – per farlo a matita prima usavo la fotocopiatrice, il tavolo luminoso, era una cosa lunga. Invece così uso il copiaincolla, modifico e aggiusto a computer, e quella è la matita definitiva.

Qual è il tuo rapporto coi programmi di disegno digitale?

Per me sono come la matita, sono uno strumento; per come faccio le cose, penso che usarli in un modo troppo pulito mi fa ottenere di nuovo quella freddezza che vorrei evitare. Credo che se avessi voluto prendere quella direzione lì, forse avrei fatto cose vettoriali. Invece io ho bisogno di un po’ più di calore nel tratto, ma ancora non ho trovato un modo completamente digitale per farlo. Ci sto provando, mi piace, e mi salva, mi aiuta tantissimo: è una bomba! Il digitale non mi fa schifo e non lo venero, è veramente uno strumento utile e da esplorare.

Ora una domanda retorica: cosa è successo negli ultimi anni, visto che rispetto a prima le autrici di fumetti italiane sono finalmente uscite allo scoperto in gran numero e con dei buoni lavori? C’è più spazio per le autrici adesso, ci sono editori più sensibili, c’è più coraggio di prima? Oppure è una stupidaggine accomunare gli autori per il loro genere di appartenenza?

Ma infatti, che significa fumetto femminile? Io non capisco la definizione di fumetto “femminile”; se serve sarebbe meglio dire un “fumetto fatto da autrici”, ma siamo diverse e diverse nei generi… Nessuno si sogna di scrivere di fumetti “maschili” parlando di un genere. Personalmente ho capito più recisamente che ero considerata diversa perché femmina intorno ai 13 anni, non prima. Questo sentimento lo condivido con Rachele, nel senso che da piccola avevo tanti amici maschi e mi son sempre sentita uguale a loro, non ho mai capito che ci fosse una particolare distinzione tra di noi; poi ho capito che la differenza veniva attribuita dagli altri, sia dai ragazzi che dalle ragazze. In un certo senso, il fatto di essere una ragazza mi ha dato un’etichetta diversa anche nel mio lavoro, ma non penso che Incendi Estivi sarebbe stato diverso se l’avesse scritto un ragazzo. Insomma, è un’etichetta che non ho scelto, ma che mi viene imposta e che ghettizza il mio lavoro; a volte lo mette in luce solo per chi sono, non per cosa faccio. Quello che ho capito è che per me, a differenza di tanti autori maschi, è difficile scrivere delle storie con personaggi che siano molto diversi dalle caratteristiche che conosco bene, per una questione di adesione alla realtà pura e semplice.

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Una tavola di ‘Incendi estivi’

Quindi fai fatica a scrivere i personaggi maschili?

Non è che faccio fatica, ma negli anni mi sono posta delle domande sulla mia legittimità nel farlo, e ho capito che è una cosa che altri autori fanno molto meno di me quando iniziano a pensare a una storia, eppure credo sia importante pensarci. In ogni caso, se il protagonista del mio fumetto fosse stato un maschio non sarebbe cambiato niente in questa storia. Volevo che fosse femmina proprio perché penso che manchino storie in cui le protagoniste femminili siano viste per quello che sono. Se il protagonista fosse stato maschio forse creava più interesse, non lo so, è una questione che cercherò di scoprire. La storia verrebbe considerata più universale? Spero di no, ma continuo a chiedermelo. Comunque, secondo me c’è bisogno di protagoniste femminili raccontate dal punto di vista delle donne e c’è bisogno che anche gli uomini leggano queste storie.

E pensi che questo manchi nel fumetto italiano?

Sento che è una cosa che sta crescendo tantissimo, negli ultimi anni. Quando dicevi che c’è una scena italiana di autrici donne: sì, è vero! Dieci anni fa si contavano sulle dita di una mano, c’era la Colaone, c’era la Vinci, la Ghermandi, la Ziche e tante altre, ma poche. Nel giro di due generazioni sono aumentate a dismisura.

Cos’è successo, secondo te, che ha fatto uscire allo scoperto le autrici?

Di questo ho parlato tantissimo con degli amici autori, e secondo me è una questione di storie: credo che la presenza del manga abbia preparato la svolta. Le ragazze che sono cresciute coi manga negli anni Ottanta e Novanta sono diventate poi autrici, il manga ha avvicinato al fumetto tantissime lettrici che hanno capito che potevano raccontare delle storie con questo linguaggio. C’è chi se ne accorge solo adesso, ma stava già succedendo anni fa. Sicuramente se guardi l’America la faccenda è già più digerita da anni; agli ultimi premi Ignatz hanno vinto solo donne, e anche se alcuni continuano a dire “hanno vinto le donne” non è vero, hanno vinto delle storie belle, fatte da donne! È una questione di parità di accesso al linguaggio del fumetto, un linguaggio così nuovo e che in un certo senso è stato per tanti anni relegato solo a certi tipi di storie “popolari”. Se c’erano delle donne interessate a quel tipo di storie, sicuramente erano in netta minoranza rispetto agli uomini.

È una questione di cambiamento della società italiana, tutti si continuano a stupire che siamo in tante e non facciamo soltanto i fumetti che definiscono “femminili”. Non penso che ci sia per forza un genere “femminile”, penso che ci siano tanti generi di racconto dove le autrici entrano, come vi entrano gli autori. Ma poi nascono dei problemi: per molti il fumetto definito “femminile” è l’unico spazio che ha un’autrice, e se ti rifiuti di entrare nella definizione rischi di essere dimenticata o sminuita; se invece ci entri a pennello, rischi di essere ghettizzata! Secondo me l’unica cosa che possiamo fare è fare dei buoni libri, e vedere come vengono accolti. C’è anche chi si autoghettizza, perché a volte è rassicurante – o è semplicemente quello che gli piace raccontare – e non è una scelta che mi sento di giudicare; però secondo me di questa cosa se ne parla più sulla stampa che tra noi autori, soprattutto di queste denominazioni.

Ho iniziato ad andare alle fiere che avevo 15 anni, e avevo tutti amici maschi che facevano fumetti; ho capito solo dopo anni che alcuni amici maschi erano interessati a me non come amica! Ma non ho mai sentito una differenza tra noi, non mi sono mai sentita definire “la ragazza che fa i fumetti”, sentivo che eravamo tutti appassionati e insieme facevamo i fumetti, quindi questa distinzione è vista più dall’esterno che dall’interno della scena del fumetto. E non credo che adesso gli editori chiamino più donne; prima, semplicemente, non chiamavano nessuno! L’assenza nel mercato non è una questione di donne, è una questione di giovani autori! Per anni non hanno voluto pubblicare nuovi autori perché avevano paura di non vendere, ora la questione è un po’ cambiata.

Quindi vedi che l’accoglienza verso il fumetto in Italia è migliorata?

Eccome se è migliorata! Gli addetti ai lavori si lamentano sempre, ma quando avevo 15 anni e andavo alle fiere, attorno a me c’era il vuoto! È un bel momento ora, c’è tanta gente che prima non leggeva fumetti e che adesso legge qualche autore, e magari su cento persone che leggono un autore famoso, dieci trovano libri dello stesso editore e scoprono dei mondi. Una delle cose che più mi ha fatto piacere è che una persona ha detto di aver comprato il mio libro dopo averlo visto per caso, le è piaciuto, l’ha incuriosita e l’ha comprato: ecco, questa scoperta ti svolta il mercato, perché si amplia la fetta di lettori.

E quando hai un editore che fa le cose per bene è più facile?

Soprattutto c’è bisogno che l’editore si ricordi che il nostro è un lavoro, che noi dobbiamo pagarci l’affitto e le bollette, e che fare fumetti è un’operazione molto molto lunga. Infatti la residenza d’artista per me è stata veramente d’aiuto, è davvero un catalizzatore positivo.

Secondo me in Italia non era tanto un problema di autrici donne che non venivano coinvolte – parlo degli ultimi quindici anni – ma mancavano la forze e il coraggio di coinvolgere nuovi autori italiani e si continuava con le ennesime ristampe di Corto Maltese, con i classici, e poi a comprare libri stranieri. Tutto bene e per fortuna, però pubblicavano tanti stranieri, magari anche giovani, senza avere il coraggio di guardare a quello che avevano davanti ai loro occhi, per coltivarlo. In pochi l’hanno fatto, penso a Coconino Press, Black Velvet, BeccoGiallo, alla Kappa Edizioni dei primi tempi, però con fatica. La mia percezione è che gli editori hanno per troppo tempo dimenticato di vendere i loro libri, hanno pensato che fosse scontato e si vendessero da soli, e non hanno pensato che i loro libri li potessero leggere potenzialmente in tante persone. Hanno pensato che quei libri sarebbero arrivati alle fiere, alle persone che già solitamente leggono fumetti, senza cercare pubblico nuovo, e questa cosa ha un po’ penalizzato tutti.

Parlavi del tuo lavoro come illustratrice. Lo consideri un lavoro accessorio, che ti permette di fare poi cose che ti piacciono di più?

A me piace tutto. Mi piace disegnare e raccontare coi disegni, quindi in questo l’illustrazione è uguale al fumetto, è narrazione per immagini; molto più asciutta se fai l’illustrazione per una rivista o una copertina, molto meno lunga a livello di tempo se fai un libro per bambini o un romanzo per ragazzi. Penso che in questi otto anni ho fatto tutte le cose che mi interessavano, e quando il lavoro non mi arrivava mi autoproducevo. Ho fatto illustrazioni per riviste, per copertine, per tessuti; ho creato degli oggetti. Forse la cosa che mi manca e che vorrei esplorare è il video, il 3D, l’installazione, ma di applicazioni ce ne sono mille altre. Gli studi di grafica all’ISIA di Urbino erano così vari in diversi campi che mi hanno dato questa necessità. Fare cose diverse mi ha dato la possibilità di sbizzarrirmi. Sperimentavo, però allo stesso tempo questo mi ha allontanata dal fare fumetti, anche se li facevo brevi. Mi sono autorallentata, perché semplicemente non puoi fare tutto, e volevo fare tutto! Sento che ho tanto da raccontare con il fumetto e che mi mancava come linguaggio, vorrei che fosse la cosa predominante nel mio lavoro quotidiano. Però mi piace sempre fare illustrazioni, è un altro modo di raccontare.

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In futuro ti vedi come autrice di fumetti, di libri lunghi come Incendi Estivi? E farai ancora Teiera?

Sinceramente non so come mi vedo. Di certo non mi vedo come editore, nel senso che fare libri mi piace ma non ho voglia di intraprendere quella direzione, perché è un altro lavoro e non disegnerei più, quindi non me la sento. Teiera continuerà, però diciamo che quello che vorrei continuare adesso è fare altri fumetti, lunghi e brevi, cercando soprattutto di fare storie mie. Adesso che ho finito il libro faccio molta difficoltà a non continuare a fare quello. Mi manca.

Stai pensando già alla nuova storia da fare?

Ne ho quattro! Da che ero bloccatissima…

Sempre dello stesso tenore, o su temi diversi?

Ho voglia di fare cose diverse. I generi mi piacciono tantissimo, mi piacerebbe raccontare qualcosa di fantascienza, magari anche un po’ thriller. Quello che mi frega è la paura di sbagliare, perché sono un po’ perfezionista, quindi ho bisogno di sentirmi sicura di quello che sto raccontando, e se non lo sono non inizio, e non va bene. Dovrei provare, come quando facevo le mie sperimentazioni: non avevo nessuno strumento per fare dei pupazzi di stoffa però li facevo, dovrei un po’ buttarmi nel fare cose un po’ diverse da quelle che conosco. Ho in mente una storia che è un po’ commedia e un po’ thriller, una storia ambientata nel futuro, una che parla dell’oggi…

Stai seguendo fumetti o serie tv che ti ispirano particolarmente, in questo momento?

Di recente quelle più belle che ho visto sono state Black Mirror, Transparent e Gomorra. Di comiche, ho rivisto Parks and Recreation e High Maintenance. Tra i fumetti m’è piaciuto molto Il muretto, l’ho letto in francese perché l’ho preso al festival di Angoulême e letto in treno al ritorno: ho pianto come una fontana, così senza rendermene conto, e mi ha fatto piacere che su Fumettologica lo abbiano paragonato a Incendi Estivi! Mi piace tantissimo Sammy Harkham in Golem Stories, lui è uno dei miei fumettisti preferiti; soprattutto ho guardato il ritmo delle sue storie. Jillian Tamaki invece mi piace in tutto quello che fa: ultimamente ha realizzato una storia breve bellissima su Hazlitt, una rivista online, incentrata su una serie tv porno che negli anni Novanta ha fallito miseramente perché troppo sperimentale ed estrema. E ha fatto anche una storia breve per Frontier, su questo Mp3 che i ragazzi negli anni Novanta scaricavano da Napster, sei ore di musica che però era la loro droga; soltanto fino a 25 anni potevi entrare nel trip di quella droga, fino a che poi non funzionava più. Tamaki è incredibile, spazia dall’intimismo alla fantasia sfrenata. Anche Rutu Modan è un’autrice che mi piace tanto.

Da un po’ curo una newsletter che esce ogni settimana (ne sono già uscite otto). Ho pensato che una cosa che si può fare, per divulgare più e meglio i nuovi fumetti, è farli arrivare a persone che di solito non li leggono: perciò nella newsletter segnalo quelli che mi piacciono di più. Tutto nasce dal fatto che tante persone che conosco mi chiedono spesso di consigliargli dei fumetti, perché non sanno da dove cominciare, ho pensato che una piccola newsletter molto breve, più o meno ogni settimana, fosse la soluzione giusta.

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