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FocusLa pelle nera dei supereroi, da Comic Republic a Marvel Comics

La pelle nera dei supereroi, da Comic Republic a Marvel Comics

Mentre i premi Oscar hanno passato una mano di bianco sul cinema americano, i fumetti si scuriscono sempre di più, a tutte le latitudini. Di recente la startup Comic Republic ha fatto parlare di sé sulla pagine di Quartz per essere la prima casa editrice nigeriana con base a Lagos impegnata nella creazione di un universo fumettistico con supereroi africani (i più famosi, per ora, sono Guardian Prime – una sorta di Capitan America nigeriano – la mistica Hilda Avonomeni Moses e il velocista Marcus Chigozie). Fondata nel 2013, Comic Republic, dai primi download degli inizi, è passata a 25.000 visualizzazione – divise tra Nigeria, Stati Uniti e Regno Unito per la maggior parte, ma anche Brasile e Filippine.

La startup segue le ultime tendenze dei fumetti mainstream. Dei nove personaggi creati finora, quattro sono donne. Ma per Jide Martin, a capo del progetto, è solo il riflesso della società nigeriana: «Le donne sono attive in politica e nel circuito finanziario. Non direi che è una scelta strategica, è solo come va la vita tra noi».

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Non è solo la Nigeria a interloquire con i comics. Nazioni come il Camerun hanno sviluppato da decenni un flusso produttivo, grazie (o per colpa) del rapporto coloniale con l’area franco-belga, con la quale ha instaurato un dialogo a senso doppio. Tanto i conquistatori – con il case study Tintin in Congo, che tante analisi post-coloniali ha fatto germogliare (tra cui una a fumetti), ma anche con l’episodio Le nègre blanc di Blodin et Cirage – quanto i conquistati si sono ritrovati a parlare di negritudine con i fumetti. Se i primi esempi di fumetto si devono ad autori come il nigeriano Akinola Lasekan – attivo negli anni Cinquanta sulla rivista West African Pilot – o il camerunense Joz, tutti cartoonist dal taglio politico, l’Africa tutta sta vivendo un periodo di rinascimento artistico che l’ha portata a rivedere il proprio rapporto con i fumetti e ampliarlo. Lagos ha un proprio Comic-Con e il Kenya ne ha varato uno nel 2015.

Di recente – leggi: negli ultimi quindici anni – anche paesi chiusi al pluralismo etnico come il Giappone (nel 1986, il primo ministro del Giappone difese il concetto di tan’itsu minzoku’, la monorazza, asserendo che la presenza di neri, portoricani e messicani aveva contribuito a abbassare il grado di intelligenza medio degli Stati Uniti) hanno cominciato a conversare con il tema. Il caso più famoso è quello di Felipe Smith, primo fumettista di colore a lavorare per un editore giapponese. Smith è figlio di padre giamaicano e madre argentina e i più forse lo hanno presente come lo sceneggiatore della nuova serie di Ghost Rider. Nelle interviste che concede si definisce sempre come americano e non sente di appartenere ad alcuna comunità specifica.

Con la Kodansha, una delle più grandi case editrici giapponesi, Smith ha pubblicato Peepo Choo, un prodotto concepito per il pubblico nipponico (nonostante Smith ci tenga a ribadire che il suo è un lavoro ‘globale’) che critica con ferocia la cultura popolare, responsabile della diffusione capillare dei messaggi eppure così incosciente delle facili istanze semplificatorie che veicola. Protagonista della storia è Milton, un ragazzo di colore di sedici anni con la passione per l’anime – fittizio – Peepo Choo. Milton crede che la lingua da lui imparata sia vero giapponese, mentre in realtà è uno slang in voga tra gli otaku, la subcultura ossessionata da manga e anime. Nel corso del fumetto, il ragazzo scopre che Peepo Choo è un prodotto realizzato dal Giappone con l’obiettivo di proporre al pubblico statunitense l’immagine che gli americani si aspettano da loro. Tanto gli Stati Uniti stereotipizzano l’Asia, tanto il Giappone si prende gioco dell’America ed entrambi credono di conoscere la cultura dell’altro solo attraverso i prodotti d’intrattenimento.

D’altra parte, nemmeno l’esperimento di Comic Republic suona nuovo agli osservatori più scafati, che ricorderanno l’esperienza della Milestone Media. Negli anni Novanta, la Milestone fece coppia con la DC Comics per proporre un universo a fumetti con (e creato da) afroamericani. Titoli più famosi: Hardware, Icon, Blood Syndicate e Static (da cui Cartoon Network avrebbe tratto la premiata serie Static Shock).

Fondata nel 1993 da Dwayne McDuffie, Denys Cowan, Michael Davis e Derek T. Dingle (con la presenza di iniziale di Christopher Priest, poi dissociatosi), Milestone strinse un accordo con la DC per cui la prima sarebbe rimasta una compagnia indipendente, detentrice di tutti i diritti legali e creativi relativi ai personaggi, e la seconda si sarebbe limitata a distribuire i fumetti. La DC aveva comunque la possibilità di rifiutarsi di pubblicare un titolo a loro non gradito e in effetti una volta fu riluttante a pubblicare la copertina di un eroe nero che baciava la sua ragazza. I dirigenti dicevano che non volevano usare il sesso per vendere più copie. McDuffie credeva che l’immagine li rendesse nervosi perché mostrava la sessualità nera. Nel luglio dello stesso anno, The Comics Journal dedicò un numero intero a Milestone e al fumetto nero, ponendo il dubbio che queste e altre etichette avessero ragione d’essere (il fumetto femminile, il fumetto LGBT).

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Il rischio era far diventare un personaggio di colore un simbolo: «Quando uno sceneggiatore scrive un personaggio nero», diceva McDuffie, «sta in realtà rappresentando tutti i neri. E allora è un simbolo per tutta la comunità, non è più un personaggio. È uno stereotipo». L’avventura Milestone finì nel 1997, dopo che l’esplosione della bolla del mercato fumettistico aveva mietuto molte vittime. Non aiutò il fatto che i rivenditori sostennero poco le testate Milestone perché pensavano non interessassero a un pubblico ampio, in qualità di «fumetti per neri».

Sono lontani i tempi in cui George Herrimann o Jackie Ormes dovevano nascondere le loro identità. Perfino il supereroe più americano di tutti, Capitan America, adesso è nero. Anche se molti commentatori hanno evidenziato come quello della pelle, nel caso di Sam Wilson, sia solo un elemento politicamente corretto che fa scena ma non significa nulla a livello pratico. La replica è che sarebbe proprio questo il punto, non dovrebbe significare nulla. Eppure la Marvel era già riuscita a dire qualcosa di politico cambiando l’etnia di Steve Roger già dieci e passa anni fa, con Truth: Red, White, and Black (in Italia tradotta come La verità nel 2010), miniserie del 2003 scritta da Robert Morales e disegnata da Kyle Baker.

L’opera si situa in un periodo di forte rinnovamento per la Marvel, che aveva iniziato a spingere le proprie icone verso forme e concezioni inedite (il ringiovanimento e la politicizzazione urlata, con l’etichetta Ultimate). Truth è parte di questo movimento; gioca su una delle icone del paese, Capitan America, l’eroe che più di tutti incarna i valori americani e che ne è l’ideale personificazione. Il suo scopo è quello di affermare l’identità nazionale del suo paese, legittimare la politica estera e articolare la nozione conservatrice della supremazia, dell’autorità e del potere statunitensi.È l’esempio modello del ruolo della cultura popolare nell’affermare i propri valori e nella stabilizzazione dello status quo. Il mingherlino Steve Rogers che diventa, grazie al siero del supersoldato, l’uber-americano: il suo fisico, la sua mentalità, il suo costume, tutto è emblema di un’America che si guarda allo specchio e si aspetta di scorgere un determinato riflesso. Morales e Baker sostituirono quel riflesso con un’immagine che non tutti, all’epoca, erano disposti a guardare. Non è un caso se l’uscita del primo fu venne accompagnata da uno stuolo di critiche e controversie.

La storia è ambientata durante la Seconda guerra mondiale: gli scienziati dell’esercito statunitense stanno cercando di creare la formula del supersoldato che trasformerà Steve Roger nell’eroe nazionale e, con un triste parallelismo con lo studio sulla sifilide di Tuskegee nella metà del Novecento, tutti i soldati scelti sono di colore. I primi test falliscono, alcune cavie si trasformano in entità deformi, altre non sopravvivono. Soltanto un manipolo di soldati sembra rispondere positivamente e, tra questi, l’unico a sopravvivere agli incarichi suicidi di guerra è Isaiah Bradley. Isaiah ruba uno dei costumi di Capitan America e parte in missione per distruggere una formula simile a quella che gli ha donato i poteri, progettata dai Nazisti. Riesce nell’impresa, ma il governo lo condanna per il furto dell’uniforme. La formula ha danneggiato il suo cervello, riducendo le sue capacità intellettive a quelle di un bambino, e nessuno vuole prendersi la responsabilità di curarlo. I neri sono visti dallo Stato come pezzi sacrificabili della scacchiera, pedoni senza peso, subumani. Per loro il sogno americano è fatto di schiavitù, tortura e morte. Isaiah Bradley reclama la propria americanità indossando il simbolo della nazione, ma questa non può passare sopra alla vera natura di Isaiah e lo condanna alla prigione.

Nel finale, Steve Rogers, venuto a conoscenza della storia, fa visita all’uomo e gli rende omaggio, donandogli il suo vecchio costume stracciato. L’uomo, con la mente di bambino, è sopraffatto dall’emozione e sembra felice di essere stato finalmente assimilato al sistema che lo ha ridotto in quello stato. Eppure l’ultima tavola della storia può anche essere letta in senso contrario: Capitan America posa per una foto con Isaiah come aveva posato Bradley con Malcolm X, Nelson Mandela, Angela Davis, Muhammad Ali, i simboli dell’America nera. Con quella foto, Morales può voler comunicare che la giustizia e la verità non si ottengono con l’assimilazione del nero al bianco o viceversa, ma con l’accettazione e l’omaggio dell’esperienza del subalterno.

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La rappresentazione diversificata è diventata oggetto di consumo di massa, e la cultura che prima la marginalizzava è diventata adesso il primo canale di comunicazione di quelle stesse conoscenze. Nel fumetto, come nelle altre arti, il nero è diventato un segno di tendenza. La cultura di massa ha rilavorato l’esperienza nera all’interno dei propri schemi senza necessariamente conoscerne la storia, il significato, il valore simbolico. Un esempio di tale processo è stata la realizzazione, da parte del colosso Marvel Comics, di cinquanta copertine ispirate ad alcuni dei più famosi dischi rap statunitensi. I critici hanno evidenziato come una casa editrice fondamentalmente bianca – sia in termini di autori che di personaggi – abbia usato l’iniziativa soltanto al fine di avvicinare il pubblico afroamericano, attraverso l’hip-hop, ambiente culturale in cui la cultura bianca ha più volte affondato le mani in cerca di nuove iconografie. A ben vedere, il paradosso rientra in una linea di condotta che marginalizza ancora di più. Privato degli stessi tratti tipici della sua cultura, il nero rischia di ritrovarsi, di nuovo e per l’ennesima volta, senza una voce, perché gli stilemi che la contraddistinguevano sono stati banalizzati, attraverso l’appropriazione, da un vasto pubblico di lettori.

È come nel satirico Birth of a Nation (scritto da Aaron McGruder e Reginal Hudlin e disegnato da Kyle Baker), quando i cittadini di Blackland, la nuova nazione nata dalla scisma con gli USA, devono scegliere una nuova bandiera. Tra le varie ipotesi, una in cui il simbolo è realizzato in Kente, una tipica stoffa ghanese, con impresso il logo della Nike, che ha sponsorizzato la creazione della bandiera. Non la scelgono, ma sono attratti dai due simboli – il folklore (la stoffa) e il commercio (il logo Nike) – e ne comprendono il valore, la forza, forse superiore a qualsiasi rappresentazione civile, religiosa o culturale.

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