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Daredevil seconda stagione, la recensione

Premessa. O del ‘ma com’è possibile che tu abbia già visto Daredevil visto che esce oggi’: forse lo sapete o forse no. Se non lo sapete, indosso la mia tutina da redattore de il Posto e ve lo spiego bene. Ai membri della casta dei giornalisti, a cui mi fregio di appartenere dopo il mio fondamentale pezzo d’inchiesta “Menstrupedia: un fumetto (e un sito) per spiegare le mestruazioni alle ragazze”, Netflix permette l’accesso anticipato a un certo numero di puntate. In questa occasione sono state sette, che, come tutte voi beautiful mind saprete, è poco più del 50% di 13, il numero di puntate di cui si compone la seconda stagione. Ecco, io non voglio fare il paraculo ma: quello che leggerete è inevitabilmente un giudizio parziale. Sì, sette puntate sono abbastanza per farsi un’idea ma 1) la settima puntata finisce con una cosa misteriosissima che chissà cos’è, sono 20 giorni che ci penso e potrebbe essere una cosa ganza ma anche una baggianata e 2) ogni tanto, nella mia testa, risuona ancora il dialogo per decidere dove andare a festeggiare avuto con mio padre alla fine del primo tempo di Milan-Liverpool.

Leggi anche: Diavoli turbolenti: appunti sulle origini di Devil

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Voi non l’avete ancora letto, ma in un articolo in attesa di pubblicazione, Evil Monkey, riguardo al primo volume di Trees di Warren Ellis, ha parlato di scrittura alla Netflix, dove «non esistono più segmenti dotati di un minimo di interesse, seppur subordinati a una grossa trama orizzontale, ma solo enormi film di 12/13 ore spezzati a cadenza regolare. Questo implicata racconti di ampissimo respiro, è vero, ma anche avvii di stagione al limite dell’orchite – i primi 4/5 episodi di Jessica Jones sono una tentazione continua a cambiare i propri programmi per la serata – e sacche centrali di noia tangenti alla narcolessia». Ecco, questa potrebbe essere la recensione in nuce dei primi sette episodi della seconda stagione di Daredevil: il problema non è che è noiosa, il problema è resistere fino a quando smette di esserlo e finalmente ingrana.

Le prime due puntate e mezzo sono letteralmente un incubo. Tralasciando le cose inspiegabili che ti fanno venire voglia di spegnere e non tornare mai più (Foggy Nelson superstar: all’inizio del secondo episodio trascina in pieno giorno il corpo sporco di sangue e ancora travestito di Daredevil da un tetto fino a casa di Matt senza che nessuno lo veda), è la narrazione decompressa e diluita a succhiare dalle ossa ogni desiderio di continuare a guardare: una lunga corsa verso lo scontro finale fra Daredevil e il Punisher, che poteva durare 40 minuti e invece ne dura 120. La sferzata decisiva arriva inaspettata al minuto 40,19 del terzo episodio. Un piano sequenza di quasi 3 minuti (anche in questo caso, così come per quello presente nel finale della seconda puntata della prima stagione, c’è però puzza di incollatura digitale) in cui Matt pesta una sequela infinita di biker incazzati scendendo dalle scale, seguito da una scena potente che coglie come mai l’essenza di Daredevil: i biker rimanenti non sanno cosa sia successo, hanno solo sentito rumori di botte su rumori di botte e poi, sotto una luce rossa soffusa e lampeggiante che si irradia per la stanza, arriva il Diavolo, muto, trascinando delle catene (io mi sono sentito come quando sentivi lo sferragliare dello spadone di Pyramid Head). Si sgranchisce il collo, scende piano gli scalini e poi riparte la furia. Da lì in poi la serie acquisisce un po’ più di ritmo e (re)inizia a mettere a fuoco il resto delle sottotrame (il bizzarro triangolo sentimental-lavorativo fra Matt, Karen e Foggy), anche se è dalla fine del quarto episodio, con la comparsa di Elektra, che la serie diventa briosa – aggettivo che mai avrei pensato di usare per uno show televisivo a così alto tasso di conversazioni con un prete.

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Ecco, Elektra e il Punisher, le grandi new entry di questa stagione, come sono? Spogliato correttamente degli elementi naif (la maglia col teschio), Frank Castle nella prima parte si rivela un personaggio fin troppo scontato ed è un peccato che si sia del tutto ignorata la brillante intuizione di Garth Ennis in Punisher: Born (long story short: era già pazzo, ammattito durante la guerra del Vietnam, ben prima che vedesse la sua famiglia massacrata a Central Park). Il suo ruolo dovrebbe essere quello di fare interrogare noi che guardiamo e la buona gente di Hell’s Kitchen sul ruolo e la legittimità dei vigilantes, peccato che questa cosa venga più detta che mostrata (mostruosamente banale la parte di dialogo del terzo episodio fra il Punitore e Devil; insostenibile il monologo pre-cattura del Punisher; aberrante l’assoluzione finale a Matt da parte del poliziotto dopo la cattura di Castle) e anche quando viene mostrata non si va proprio per il sottile («Scegli: spara a me o sparerò a questo criminale»). Oltre a ciò, l’intera dinamica non funziona anche per gli evidenti limiti di scrittura dialoghi (un problema diffuso e generale che si sono trascinati dalla serie precedente), ma soprattutto a causa del percorso di Daredevil: netto, senza mai una deviazione o un dubbio. Dov’è la tensione emotiva tra il fare la cosa giusta e fare la cosa migliore? L’agognata ricerca del punto di equilibrio fra la realtà delle cose e la necessità di attenersi alla propria moralità?

Positiva invece Elektra con il suo impatto sulla serie. Piuttosto lontana dalla sua controparte fumettistica, la versione televisiva si contraddistingue per la grande loquacità e un inaspettato sense of humor. Il suo arrivo all’interno della serie è particolarmente funzionale, riuscendo finalmente a far entrare in conflitto la vita normale di Matt con quella da supereroe. Oltre a fungere da guastatrice nell’idillio fra Matt e Karen, Elektra riesce laddove aveva fallito il Punisher: creare un cortocircuito fra la morale di Matt e le sue azioni. La sua presenza costringe per la prima volta Matt a prendere decisioni, fare scelte che, bruciato dall’ossessione per la sua vita di protettore di Hell’s Kitchen, lo porteranno infine a dover rinunciare a qualcosa.

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In generale, la serie presenta diverse differenze rispetto alla prima stagione, avendo virato da una storia ambientata in un contesto urbano più realistico (Daredevil combatte la gentrificazione) a uno più supereroistico (Daredevil contro un one man army e Daredevil che combatte la yakuza assieme a una ninja). Come nella precedente stagione, è piuttosto presente la città di New York, coi suoi vicoli bui, neri e paurosi, che si sognava Frank Miller quando giunse da ragazzo dal Vermont e fu rapinato un milione di volte in meno di un anno, e i suoi grattacieli di vetro che convivono a fianco di palazzoni fatiscenti, con la cisterna sul tetto e le scale antincendio all’esterno. Alcuni difetti se li sono portati dietro dalle prime tredici puntate (la sopracitata mancanza di brillantezza nei dialoghi, l’assenza di qualsivoglia affiatamento fra Matt, Karen e Foggy), altri sono nuovi di zecca (i momenti da eroe arringatore di Foggy), ma tutto sommato il bilancio dei primi sette episodi è positivo.

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