Si è chiusa domenica scorsa la ventitreesima edizione della convention milanese Cartoomics, che ha visto Milo Manara come ospite speciale, premiato con l’inedito riconoscimento Cartoomics Artists Award. In concomitanza con la manifestazione, l’autore ha realizzato una tavola inedita dedicata a Star Wars per WOW Spazio Fumetto, dove sarà esposta dal 19 marzo al 5 giugno all’interno della mostra “Star Wars: dal fumetto al cinema e ritorno”. Abbiamo raggiunto l’autore per parlare di questo scambio, del suo lavoro, e del suo rapporto con l’immaginario fantascientifico.

Parliamo della fantascienza, che rappresenta una porzione minore, ma non per questo meno rilevante, nella sua produzione fumettistica. Ricordiamo la raccolta Fantasex, ma anche Fone e Fuga da Piranesi. Qual è il suo rapporto con questo genere fantastico? Vuole inoltre raccontarci come è nata l’idea dell’omaggio a Star Wars?
La fantascienza mi piace moltissimo, e sono tutt’ora un assiduo lettore di questo genere che mi ha sempre appassionato e affascinato. Sono in particolare fan della storica collana Urania, di cui ebbi l’onore di conoscere il copertinista Karel Thole, con il quale nacque una bella amicizia.
Inoltre per me è stato fondamentale l’avvento della rivista francese Métal Hurlant, che ha aperto una prospettiva inedita secondo cui la fantascienza poteva essere impiegata per riflettere sul futuro (e sul presente), e non solo come mero intrattenimento. Pensiamo ad artisti come Mœbius e Druillet, che hanno prodotto una visione del futuro molto più attendibile e affascinante rispetto alla fantascienza classica. Sono stati in grado di rivoluzionare un immaginario piuttosto banale e stucchevole, soverchiando l’estetica classica – quella dei missili a supposta – in cui era tutto liscio e levigato. Era un’idea di futuro molto ingenua e, vista oggi, un po’ ridicola. Se la strada è stata aperta dal cinema, con 2001 Odissea nello Spazio di quel genio di Stanley Kubrick, gli autori di Métal Hurlant sono stati in grado di ampliare il discorso, finendo anche per influenzare anche le produzioni d’oltreoceano, dove la fantascienza ha inglobato anche i supereroi. Pensiamo all’influenza di Mœbius su Frank Miller, da Ronin a Batman. Dagli anni Settanta è cambiato quindi l’atteggiamento, non solo nei confronti della science fiction in senso stretto, ma del fantastico in generale.
Per quanto riguarda la tavola dedicata a Star Wars, molto semplicemente, mi è stato chiesto un omaggio a questa saga cinematografica per la mostra e io sono stato felice di collaborare. Partecipo volentieri al festival anche perché viaggio molto per presentazioni e incontri, spesso fuori dall’Italia. Una volta che succede qualcosa vicino a casa… sono contento di esserci.

L’ultima sua opera, Caravaggio, va un po’ in direzione speculare rispetto alla fantascienza. Se da una parte abbiamo cioè l’immaginazione nei confronti del futuro, dall’altra abbiamo una trattazione storica, meno finzionale, modellata quindi su figure realmente esistite. Com’è stato lavorare su materiale di questo tipo?
Direi che dobbiamo innanzitutto sottolineare la straordinaria maturità narrativa e artistica raggiunta dal fumetto, che ha dimostrato di potersi occupare di qualsiasi argomento. Mentre una volta al medium venivano associati certi generi, “robe da fumetto”, oggi finalmente possiamo spaziare tra la fantascienza, la storiografia, la storia dell’arte, la sociologia, ecc.
Io non faccio altro che utilizzare questa straordinarietà, questa libertà estrema per raccontare una storia che mi sembrasse interessante e attuale, cioè quella di Caravaggio. Contrariamente al cinema, la libertà del fumetto consiste nell’esiguità di mezzi – economici e non – richiesti per narrare una vicenda. Possiamo così immaginare il futuro o ricostruire il passato senza preoccuparci di budget e di effetti speciali.
In Caravaggio, trovo molto interessante la commistione tra arcaismi e linguaggio moderno con cui si esprimono i personaggi. È stata una scelta deliberata?
Certo, direi che è stata una scelta voluta, non so quanto frutto di ricerca e quanto spontanea, ma sicuramente voluta. Attraverso gli scritti e la letteratura noi sappiamo com’era il volgare del prime Seicento, ma penso che utilizzarlo adesso provocherebbe ilarità, perché verrebbe percepito come ampolloso. A me interessava invece attualizzare, e superare questa barriera cronologica. Pensare più che altro alle cose che dicevano e non a come le dicevano: usando un linguaggio seicentesco, avrei corso il rischio di spostare l’attenzione dal contenuto all’espressione. Se noi consideriamo, ad esempio, uno dei quadri più straordinari e più belli di Caravaggio, la Vocazione di San Matteo, nella Cappella Contarelli della chiesa di San Luigi dei Francesi, vediamo proprio come San Matteo e i suoi commensali siano vestiti alla foggia del tardo Cinquecento. Mutatis mutandis, io ho voluto fare la medesima operazione, facendo parlare i personaggi con un linguaggio abbastanza attuale e moderno, in modo tale che la forma non si frapponesse alla comprensione dei contenuti. Mi interessava più la sostanza che la forma, in altre parole.
Si potrebbe mettere Caravaggio in linea di continuità con un suo lavoro precedente, cioè i Borgia, sceneggiato da Jodorowsky. Entrambi trattano argomenti di carattere storico, condividendo tra l’altro l’ambientazione romana. Caravaggio segna però il suo ritorno come autore unico. Come cambia il suo metodo di lavoro quando produce “in solitaria”?
Cambia radicalmente, perché i Borgia sono i Borgia di Jodorowsky. Anche sul piano storico, si tratta di una ricostruzione Jodoroswkiana, in cui gli avvenimenti sono stati spesso modificati per esigenze narrative, pur in un’ottica generale di fedeltà e plausibilità. Questo perché a Alejandro – notoriamente ateo – interessava rappresentare la corruzione della chiesa Cattolica. Jodorowsky riporta di aver concepito il progetto come pièce teatrale sin dai tempi del Cile, e questo serve a dare misura del suo interesse nei confronti della questione e delle vicende. Io non ho fatto altro che mettere le mie matite a disposizione di tale visione e di racconto, e lo stesso è accaduto con altre collaborazioni. Nel caso specifico di Jodorowsky, ho goduto della stessa libertà creativa che avuto, ad esempio, con Hugo Pratt, e ho potuto quindi scegliere le modalità di messa in scena racconto, pur partendo da una sceneggiatura iniziale. Non ha voluto nemmeno vedere le tavole, prima di andare in stampa. Molto diverso era il rapporto con Fellini, ma quella è un’altra storia.
Si potrebbe pensare che l’immaginario di Manara sia legato a fantasie erotiche tipicamente maschili. Eppure, come lei ha evidenziato in altre occasioni, le donne rappresentano una porzione considerevole del suo pubblico. Come si spiega questo successo trasversale?
Io me lo spiego solo attraverso interventi soprannaturali e divini, un miracolo (ride). Scherzi a parte, non so bene come sia possibile. Credo però che l’erotismo sia un argomento che interessa tutti, maschi e femmine, in particolare tra i giovani. Nei miei ricordi, l’eros occupava buona parte dei miei interessi. Tuttora penso sia un argomento degno di attenzione, e mi stupisce che sia sparito dalle produzioni cinematografiche e televisive. Perché nella vita di ognuno di noi, in media, almeno metà della nostra attenzione è rivolta alla sensualità e all’erotismo – senza distinzioni di genere. Pensiamo a come importanti politici vengano spesso coinvolti in scandali legati alle intemperanze erotiche. È una realtà nascosta, e si finge che non esista. E purtroppo è sottorappresentata nell’odierna produzione artistica e cinematografica, e mi domando come mai. Detto questo, e appurato come sia un interesse trasversale, direi che forse le donne hanno meno imbarazzo a presentarsi col libro in mano a farsi fare la dedica. Quello che constato, come impressione, è che alle sessioni di autografi ci siano più ragazze che ragazzi. Ma non è che abbia fatto sondaggi o raccolto dati statistici (ride).