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FocusIntervisteL'immaginario pop e sentimentale di Craig Thompson

L’immaginario pop e sentimentale di Craig Thompson [Intervista]

All’interno del tour internazionale di Polpette Spaziali che dura da praticamente sei mesi, Craig Thompson la settimana scorsa è passato anche in Italia per ben sei date tra il 4 e il 10 aprile.

L’ho incontrato a Bologna – alla Children Book Fair – impegnatissimo, ma estremamente disponibile (il giorno dopo, il suo signing si è prolungato dall’Accademia di Belle Arti fino a un negozio, per accontentare tutti gli appassionati in fila).

craig thompson intervista
Col tuo libro più recente, Polpette Spaziali, sei tornato in un certo qual modo alle tue origini di Addio, Chunky Rice, raccontando una storia per lettori giovani, narrata con approccio maturo. Cosa ti ha portato a questa scelta?

In questo tour sei probabilmente il primo intervistatore a sapere e notare che un tempo facevo fumetti per ragazzi. Il mio primo libro, Addio, Chunky Rice, era appunto disegnato con stile cartoonesco, ed era quello il mio stile originale, anche nel periodo in cui ho lavorato a Blankets ho continuato a realizzare fumetti per ragazzi usciti su riviste, ed è di questo che vivevo all’epoca. È sempre stato un lato importante della mia attività creativa e dopo aver lavorato sei anni ad Habibi con un intenso processo di ricerca, volevo tornare a ridare valore a quel lato della mia personalità, e soprattutto, volevo tornare a realizzare qualcosa che potessero leggere anche i ragazzi, per una sorta di crisi di mezz’età, magari, durante la quale mi sono chiesto perché facessi questo lavoro, perché facessi fumetti, ammettendo poi a me stesso che il motivo era proprio il fatto che da bambino amavo i fumetti. La mia preoccupazione quindi è stata quella di realizzare un’opera davvero di qualità per un pubblico di bambini.

Stavolta il libro ha una prospettiva molto più ampia rispetto ad Addio, Chunky Rice. Sembrano esserci influenze sia dall’animazione giapponese che da quella americana moderna. Quali sono state effettivamente le tue influenze?

Sicuramente entrambe quelle che citi. Da bambino, ovviamente, adoravo i cartoni della Disney, ma anche i fumetti di Mad Magazine e le strisce dei quotidiani, e anche i supereroi, per un breve periodo. È da qui che parte il mio libro. Poi c’è molta influenza anche da parte del cinema pop anni Ottanta, quello di Spielberg, I Goonies ad esempio, ma anche film precedenti, come Star Wars. Il tutto mischiato con molte altre cose che mi affascinano oggi. Quindi il gusto che volevo evocare era quello caratteristico di queste opere della mia infanzia, unito a temi e a un approccio più attuale.

Nella tua storia ho visto una concezione di uomini e ragazzi contro la modernità più spietata che mi ha ricordato molto i film di Miyazaki.

Lui è stato di sicuro un’influenza, riguardo ai temi. Uomini contro sviluppo sfrenato e capitalismo. Inoltre, Moby Dick di Herman Melville, con la sua immagine della forte determinazione umana, guardando molto al primo capitolo, che è commedia. Ma c’è anche molta commedia buffa, con forte influenza dei Simpson e di Adventure Time. Se penso a Miyazaki, quindi, ti direi, Nausicaä, ma come se ci fosse una risata in ogni pagina.

spacedumplin
Come hai scelto di usare il colore? Per te era una soluzione nuova.

Il punto è proprio che si trattava di qualcosa di nuovo. Volevo provare e sperimentare qualcosa di nuovo. Poi, l’altro motivo era l’intenzione di raggiungere un pubblico più ampio. I fumetti per ragazzi in America necessitano del colore. Finché non raggiungono l’adolescenza, e cominciano ad appassionarsi ai manga, ai ragazzi piacciono i fumetti a colori. Inoltre, nei fumetti per il pubblico adulto è praticamente la stessa cosa, tutti sono abituati a internet e a vedere immagini a colori. Io continuo a preferire il bianco e nero, è la scelta che mi risulta più naturale, è così che nascono i fumetti ed è così che l’autore porta inizialmente il suo segno su carta. Ma realizzare un libro e portarlo a un pubblico più ampio può richiedere anche il compromesso del colore. Nel pratico, al colorista Dave Stewart, che ha realizzato i colori, indicai come riferimento Futurama, con quella idea di sfondi complessi e un po’ oscuri e personaggi estremamente pop.

C’è un’esperienza o una situazione personale che ti ha spinto a raccontare una storia per ragazzi?

Sì, i protagonisti del libro – la mamma, la figlia Violet e il padre – sono ispirati a persone vere. Due dei miei migliori amici, hanno proprio una figlia che si chiama Violet. Quando nacque decisi di voler realizzare un libro per lei, un regalo: sarebbe stata la prima a leggerlo. Mi ero sentito molto ispirato dall’unità di quella famiglia. Entrambi i genitori sono artisti, molto creativi, affettuosi l’uno con l’altro, e anche ottimi genitori. Ho sempre avuto una concezione cinica della famiglia, mentre loro me ne hanno dato una visione positiva e ideale.

Cosa ti ispira di più, al di fuori del fumetto?

Dipende molto a secondo di ogni progetto. Ci possono essere riferimenti letterari piuttosto elevati, come Moby Dick in Polpette Spaziali, ma poi mi piace guardare molto alla cultura pop, da Charlie Brown a Tim Burton, i Goonies o Ghostbusters. Ma ora, ciò che mi interessa di più è il racconto realistico, la non-fiction. E credo che sia ciò che voglio fare ora col fumetto. Il medium ha raggiunto un grande potenziale, c’è la possibilità effettiva di lavorare a storie vere, e dei veri e propri saggi.

Questo sarà il tuo prossimo libro?

Ancora non ci sto lavorando, perché sono in tour praticamente da sei mesi. Ma quando tornerò a casa, mi metterò all’opera. L’unica cosa che posso dire che è si tratta di un lavoro di ricerca ed è sulla Cina; ha molto a che fare con la storia del commercio tra Stati Uniti e Cina e il tema della tradizione calligrafica cinese. Se ci riesco, dovrà avere un approccio molto realistico, non-fiction, come dicevo, ma chissà, magari si evolverà pure in qualcosa di più romanzato. È ancora presto per dirlo.

Il tema del viaggio è molto rilevante nelle tue opere. Cosa rappresenta per te?

In Habibi il viaggio fu un mezzo personale di ricerca. Nel libro, il messaggio per me è: ovunque tu vada nel mondo siamo tutti uguali, più si viaggia e più si capisce che siamo tutti uguali, senza barriera alcuna. Per me questo è un concetto che si rivela in ogni mia opera. Sono cresciuto in un cittadina molto piccola, di poco più di mille abitanti, e io vivevo in campagna, il mio vicino stava a un miglio di distanza, tutti erano uguali, mentre per il resto della mia vita non sto facendo che viaggiare. Il mondo non è poi così grande.

Questo mi riporta a pensare a Blankets, in cui ci mostravi appunto un’America profonda, non semplice da conoscere dall’esterno. Quel libro, inoltre, è stato ed è ancora un libro “generazionale”, che segna un periodo per il lettore, e immagino anche per l’autore. Che rapporto hai ora con Blankets?

Al momento direi proprio buono. Per un paio di motivi. Sono passati tredici anni da quando è uscito, ma al momento dell’uscita non fu ben recepito dai miei genitori. Per almeno cinque anni il libro fu per loro ragione di discordia, per via dei temi personali e religiosi. Ma ora le cose sono cambiate, ne sono praticamente orgogliosi. Uno dei motivi è che, passato tutto questo tempo, nessuno li ha fermati dicendo loro “siete dei pessimi genitori”, e questa era una seria preoccupazione per mio padre. Ma un altro motivo è che nel frattempo hanno ridimensionato un po’ le loro convinzioni religiose. Prima erano davvero troppo conservatori. Loro sono Cristiani Rinati, ma l’istituzione li ha delusi più volte.

Inoltre, da un punto di vista più personale, il Craig di Blankets è molto diverso da quello di ora. Quindi certe cose non le prendo più sul personale, sia riguardo ai genitori che riguardo al libro in generale. Ora vivo a Los Angeles, e capita che mi venga proposto di fare un film su Blankets. Un tempo avrei detto un no categorico, ora mi capita di rifletterci e considerare l’idea. Ormai il libro è un qualcosa che vive indipendentemente da me.

Craig Thompson intervista
Da Blankets

Ricordo di aver letto che il tuo cambiamento di stile tra Chunky Rice e Blankets dipese molto dalla tua scoperta di autori francesi come Blutch e Baudoin, è così?

Verissimo. Blankets fu ispirato principalmente da tre libri: Il piccolo Christian di Blutch, una commedia che racconta l’infanzia dell’autore; Piero di Edmond Baudoin, che racconta la crescita e la condivisione del letto col fratello minore e disegnare insieme a lui, quindi se metti questo libro accanto a Blankets l’influenza è evidente; e poi Lapinot et les Carottes de Patagonie di Lewis Trondheim, una commedia a fumetti di 500 pagine in cui l’autore sfidò se stesso a realizzare un fumetto di 500 pagine, nonostante non fosse particolarmente abile a disegnare. Anche io provai con una sfida simile, fare un grosso libro e imparare lavorandoci.

Al momento io e Baudoin stiamo lavorando a un libro insieme, e questo è un altro motivo per cui sono orgoglioso di Blankets. Il libro con Baudoin sarà una sorta di rimeditazione su Piero e su Blankets, una rielaborazione del nostro rapporto col fratello.

Invece, riguardo al fumetto italiano, c’è qualcosa che ti piace?

Interessante domanda, perché mi porta a svelarti un altra idea di progetto a cui mi piacerebbe lavorare, ed ha a che fare con l’erotismo. Vorrei realizzare un fumetto erotico, e quando penso all’erotismo a fumetti i due maestri sono senza dubbio Guido Crepax e Milo Manara. Li sto osservando e studiando, appunto nella speranza di lavorare a un fumetto erotico, attingendo dal loro insegnamento, ma ovviamente lavorando nel mio stile personale. Poi amo anche Pratt, ma in Crepax e Manara sto trovando una maggiore ispirazione diretta. Viviamo in un’epoca in cui internet ha reso l’erotismo e la pornografia talmente accessibili che ho modo di riflettere su come l’erotismo abbia assai più senso quando è disegnato. Ancora non sono ben in grado di articolare la mia idea, la sto ancora studiando, ma vorrei narrare attorno al fatto che la pornografia è proliferata al punto da diventare noiosa.

Si p dunque dire che tu non sia quel tipo di autore a cui non piace osservare altri artisti, specialmente durante la lavorazione di un’opera.

Per me è importante osservare altre opere. Anche di chi lavora in modo simile a me, per assicurarmi di non avvicinarmi troppo a cose già fatte. Per esempio, quando lavoravo a Polpette Spaziali, mi sono letto le storie di Zita the Spacegirl di Ben Hatke. E non ne conoscevo l’esistenza, prima di lavorare al mio libro. Quindi ho pensato “oh no, l’hanno già fatto!”, e me lo sono letto tutto per assicurarmi che non fosse la stessa storia di ragazza-nello-spazio che avevo pensato anche io, ed infatti erano diverse. Mentre dal punto di vista più maturo ho guardato molto al fumetto francese Valerian e Laureline, che secondo me è la migliore storia di fantascienza a fumetti mai realizzata; poi anche Leiji Matsumoto, in particolare Queen Esmeraldas.

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