Lo straniamento e il DAMS, Pompeo e Andrea

In occasione dei 60 anni dalla nascita di Andrea Pazienza, che ricorrono il prossimo 23 maggio, Fumettologica dedicherà al fumettista una settimana di articoli, interviste, ricordi e approfondimenti. L’iniziativa si può seguire sui social tramite l’hashtag #pazweek.

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andrea pazienza pompeo

Il principio è molto noto e teoricamente semplice: si chiama effetto di straniamento (in tedesco Verfremdungseffekt, in russo ostranenie). Si tratta di mostrare qualcosa attraverso procedimenti diversi dal solito, creando in questo modo un effetto come di alienazione, attraverso il quale è possibile vedere di nuovo quello che l’abitudine impediva ormai di vedere. Lo teorizzavano i formalisti russi; lo metteva in pratica Bertolt Brecht nel suo teatro. Tanto è semplice nella teoria quanto è maledettamente difficile in pratica realizzare uno straniamento che sia davvero tale e che non appaia posticcio, artificioso, creato a bella posta senza intima connessione con quello che mostra. Come dire che straniare male è tanto facile quanto è difficile straniare con efficacia: e la retorica se ne sta sempre in agguato, pronta a percorrere una di quelle mille strade attraverso cui è sempre capace di infilarsi.

Andrea Pazienza lo conosceva bene questo principio. Il DAMS degli anni Settanta rigurgitava di studi sul formalismo russo e sulle tecniche teatrali. Quegli stessi studi, nella loro pratica quotidiana, potevano essere oggetto di parodia, da parte sua, mentre lui utilizzava, magistralmente, i loro insegnamenti. Troppo intelligente per non capire, APaz si metteva nei panni degli studenti che non capivano, strizzava l’occhio ai compagni di percorso più in difficoltà di lui, ben consapevole che è la mediocrità a far ridere, specie quando messa di fronte a situazioni particolari ed estreme.

Queste situazioni potevano incarnarsi in un giovanotto scaltro e del tutto amorale, a nome Zanardi, nell’esame di Storia del cinema su Apocalipse Now, ma anche nelle ultime ore di vita di un tossicomane deciso a morire ma perso nelle vacuità del quotidiano. Solo che in Pompeo, Pazienza usa la medesima ricetta ribaltandone i termini, e invece di avere il comico come scopo finale, lo usa come strumento straniante per enfatizzare il tragico, la tragedia di una vita ridotta a non servire più a niente, talmente tragica nella sua insipienza da apparire persino ridicola, e in questa risibilità si trasmette un dramma ancora maggiore.

andrea pazienza pompeo

Addirittura già nel titolo, Gli ultimi giorni di Pompeo sembra buttare in vacca una tragedia antica, almeno nella sua versione volgarizzata dal medium cinematografico. Il riferimento ai film (almeno tre col medesimo titolo, l’ultimo uscito da poco, nel 1984) sulla distruzione della città vesuviana richiama implicitamente gli studi di storia del cinema del DAMS, ma là dove l’orecchio si aspetterebbe di trovare “Pompei”, arriva un nome di persona un po’ ridicolo, questo “Pompeo” che richiama sin troppo esplicitamente la pompa e il pomposo, ma anche le pompe, nel senso gergale, da tossico, delle siringhe nel momento in cui se ne fa uso.

Insomma, già nel nome del protagonista c’è tutto: l’importanza e la vacuità della cultura, il genio (già parodiato in quanto pomposo), il disfacimento fisico e la distruzione. Chi si aspetta, leggendo il titolo, di trovare una parodia del film quasi omonimo, resterà deluso solo in parte: la parodia, in qualche modo, c’è, almeno come meta-parodia; il dramma della distruzione, pure.

Queste ultime ore di un disperato sono piene di banalità, di inconcludenze, della vita quotidiana di un tossico che è, insieme, un artista riconosciuto. Che Pompeo sia il ritratto del suo autore emerge con tale evidenza, per chi conosca un minimo della vita di Pazienza, da suscitare sospetti sulla sua attendibilità: non a caso, infatti, il Pazienza reale non si è suicidato. Certo, essendo un tossico, la morte stava nell’ordine delle possibilità, ma sappiamo che quando è poi arrivata era in corso almeno qualche tentativo per cambiare direzione. Possiamo pensare a Pompeo come a un Andrea possibile, proprio attraverso il cui sviluppo, proiettandola sulla carta, una fine possibile della propria vita è stata portata a termine in maniera incruenta, unicamente letteraria.

Anche così, tuttavia, il ritratto di Pompeo/Andrea appare devastante. È probabile che, rispetto alla vita reale di Andrea, su Pompeo egli abbia calcato la mano, rendendo tutto più vivido, e quindi narrativamente più efficace. Nel riconoscere l’identità tra i due, il lettore capisce che Pompeo è un’iperbole di Andrea; ma anche in questa letterarietà, si percepisce ugualmente l’aura autobiografica, autotestimoniale – e la componente di ridicolo, di risibile e grottesco, viene a giustificarsi come temperamento dell’autocelebrazione, come creazione di un comprensibile distacco nel raccontare (comunque eroicamente) di sé.

Insomma, qui tutto è straniato: l’eroismo (che comunque c’è) è eroismo del nulla, dell’incapacità; l’incapacità è quella di un artista, e per niente fallito, anzi meritatamente famoso; fallisce persino la morte, almeno la prima volta, mentre la seconda, quella vera, non ci viene mostrata; c’è anche la telefonata alla mamma, un must da storia strappalacrime, ma in questo contesto ribaltato persino questo dialogo pieno di luoghi comuni diventa singolarmente vero, come se di fronte alla fine anche il luogo comune si nobilitasse, magari perché non ci resta altro…

andrea pazienza pompeo

Pazienza ostenta con distacco persino la propria arte, all’interno del proprio medesimo sempre intrigante virtuosismo figurativo. Ci sono due episodi realizzati su carta quadrettata, ben poco nobile, come se fossero appunti scarabocchiati – mentre, a contrappasso, molte di quelle stesse pagine continuano a riportare, ciascuna, in alto, il titolo completo, Gli ultimi giorni di Pompeo, proprio come si faceva una volta per le pagine domenicali dei quotidiani. Ironia su ironia, sarcasmo su sarcasmo, insieme a una felice aderenza al medium fumettistico: un discorso all’interno di un discorso che si riferisce a un discorso dentro un altro discorso. E Andrea/Pompeo è indubbiamente fatto di tutto questo; fa uso dello straniamento mentre ne fa l’oggetto della propria ironia. L’autore si manifesta continuamente fatto della stessa materia che dà corpo al suo personaggio, racconta come racconterebbe Pompeo, ci invita a essere Pompeo noi stessi quanto lui.

Non gli crediamo sino in fondo nel suo voler morire, e non ci stupisce che fallisca, e così banalmente poi, salvato dalla vecchina che abita di fianco. Piuttosto a colpirci come un pugno è la frase conclusiva del tentativo riuscito, in cui il salto nel vuoto finale arriva come se fosse provocato da qualcun altro, come se lui fosse stato, all’improvviso, spintonato. Sino a quel momento tutto quanto era sembrato un gioco: un gioco, certo, della vita e della morte, ma anche dell’inconclusività e del ciondolare e dell’incapacità di prendere sul serio la vita; un gioco del male di vivere, e anche del dolore, certamente. Ma un gioco lascia pensare a un finale da gioco, a una conclusiva presa in giro, a una qualche liberazione, anche solo apparente – non a questo subitaneo troncamento.

C’è troppa ironia in questa tossicodipendenza; non è questa l’immagine ufficiale, quella che ne danno i media, lo spirito ufficiale della dipendenza da droga. Nel suo straniamento, il racconto di APaz ci appare insieme fuorviante e sinistramente vero, intimamente vissuto; e tanto più efficace quanto meno “ufficialmente accettabile”. Del resto, la grandezza di Pazienza è sempre stata quella di chi sa raccontare le cose da dentro, non per come ci dovremmo aspettare che siano.

C’è un episodio in cui Pompeo delira, e viene travolto in una specie di vortice, in una sorta di crescendo drammatico, che culmina dopo qualche pagina nella parola “ordine”, ripresa subito dopo con un senso diverso nell’espressione “l’ordine della pizza bianca”, espressione seguita da un disegno, in registro parodistico, di un Pompeo giovanile che mangia, con evidente gusto. Il contrasto con il registro drammatico dei segni immediatamente precedenti (quelli del lettering compresi) è talmente forte e improvviso che non si può non ridere, ma è una risata inquietante quella che ci viene fuori: è l’emergere del nulla, del vuoto, dell’inutilità del vivere, sotto la specie dell’ottimismo. Quella figurina con gli occhioni che ci guardano mentre la bocca addenta la pizza bianca è ancora più agghiacciante degli scarabocchi che ritraggono il corpo di Pompeo in agonia.