Te lo ricordi Karate Kid? Non parlo del brutto film degli anni Ottanta con un Ralph Macchio diciottenne, che avrei potuto battere come un polpo io che di anni ne ho trenta di più, e un inverosimile Pat Morita nei panni del maestro. Mi riferisco al remake degli anni Dieci con Jaden Smith e Jackie Chan.
Del ciclo di film con Macchio, il recente rifacimento ha solo l’impianto. Non ci sono gli Stati Uniti sullo sfondo, non c’è il senso di rivalsa degli italoamericani (che al regista John Avildsen doveva essere rimasto addosso dal precedente Rocky), non c’è il maestro patatoso che preferivamo vedere nei panni di Arnold a servire beveroni colorati a Fonzie e ai suoi amici, non c’è più neanche il karate giapponese.
Karate Kid del 2010 non è certo un bel film, ma contiene almeno un paio di intuizioni: da un lato c’è Jackie Chan, finalmente anziano e stanco, che continua a muovere in maniera sublime il suo corpo circense e dall’altro c’è il rifacimento della scenetta noiosa di “metti la cera, togli la cera”. Te la ricordi? Morita si faceva lucidare auto, casa e pavimenti da Macchio e quello imparava il karate. Poco importava che, per evitare il bullismo di una banda di ragazzoni americani scemi, il giovane Macchio dovesse rimettere in sesto la casa di un vecchio un po’ stronzo: dopo aver spennellato tutta la staccionata, il ragazzo sapeva parare qualsiasi pugno con il suo polso velocissimo.
Il maestro Jackie Chan deve gestire un adolescente. Ne hai mai avuto uno in giro per casa? Non devi avere studiato alla scuola di CSI per rintracciarlo: basta seguire la scia di oggetti che ha lasciato per terra prima di schiantare il suo corpicino stanco sul letto. Jaden Smith butta per terra la giacca ogni volta che entra in casa e il maestro ne approfitta per inscenare la sua versione di bullismo orientale a fini pedagogici: “Raccoglila da terra, appendila, riprendila, buttala a terra…” (ad libitum).
Quando capisce di non avere speranze, il ragazzo inizia a rifare il gesto meccanicamente, annoiandosi, proprio come faceva Ralph Macchio venticinque anni prima. Ed è quello il momento in cui il maestro Chan interviene, “no, manca qualcosa!”, e mima il gesto di appendere la giacca. L’espressione sul viso è un misto tra sfida e sfottò, ma è tutto il corpo a raccontare il movimento: è il corpo che abbiamo imparato ad amare quando, soprattutto nei film cinesi, Jackie Chan colpisce l’avversario con tutto quello che ha.
Cercando una parola per riassumere la postura, il movimento, lo sguardo e il sorriso, Jackie dice “Attitude!”.
In italiano è stato tradotto con “Atteggiamento!”, ma non è preciso.
Quando avevo più o meno l’età di Ralph Macchio ai tempi in cui metteva e toglieva la cera, trascorrevo molte ore la settimana in una palestra di karate. Alla fine dell’anno c’erano gli esami per i passaggi di cintura e, siccome mi annodavo in vita una striscia di stoffa nera, capitava che mi sedessi tra gli esaminatori.
Davanti agli occhi della commissione, passava un’infilata di ragazzini vestiti di bianco molto preoccupati perché, in caso di bocciatura, non avrebbero guadagnato una cintura colorata di giallo, arancione, verde o azzurro.
Guardavo preoccupato l’esaminato e torturavo la matita con cui dovevo segnare i miei voti su un modulo fotocopiato. È stato lì che ho capito che anche l’esaminatore copia dal suo vicino di banco. La scheda per la valutazione dell’esame riportava diverse qualità richieste all’esaminato e sulle quali è necessario dare un punteggio: tecnica, posizione, velocità, forza, sguardo… Una in particolare era quella cui tutti noi esaminatori, tanto quelli esperti quanto i novellini come me, tributavamo il massimo rispetto: zanshin.
“Maestro, cos’è zanshin?”
“È l’attenzione perdurante, la presenza di spirito. La si vede in ogni tecnica del karateka, quando esegue una forma, mentre combatte… Ma la si vede anche durante il saluto, quando non sa di essere esaminato o, soprattutto, mentre vengono esaminati gli altri e lui ha la possibilità di mostrare il rispetto che porta verso il luogo, verso chi insegna e, soprattutto, verso, chi viene esaminato.”
“Ah… Ho capito. Zanshin è l’atteggiamento.”
“No. Zanshin vuol dire cazzimma.”
La nuova serie di Hiroya Oku è un successo preannunciato. In seguito alla popolarità e alla diffusione commerciale conquistate con Gantz, la serie precedente, il mangaka deve aver subito numerose pressioni dall’editore e dalla redazione. Uno dei grandi paradossi del successo editoriale è che tanto più grande è il potere di contrattazione economica di un autore quanto più esigui sono i suoi margini di libertà creativa. Oku non avrebbe potuto, in alcun modo, allontanarsi dalla fantascienza che lo ha reso popolare e dal suo target di riferimento. Pur subendo questi vincoli, ha mostrato grande coraggio.
Gli elementi che lo hanno portato al successo ci sono tutti: un mondo quasi contemporaneo, il disagio sociale dilagante, la mafia onnipotente e indifferente alla convivenza con chi vive nel rispetto della legge, i giovani privi di futuro e compressi in ruoli sociali determinati (o predatore o preda), una tecnologia discriminante, missioni da compiere dal perimetro incerto, un mecha design straordinario…
In un mercato con una segmentazione del pubblico precisa come nel caso nipponico, i generi hanno la piacevole prerogativa di ignorare le ambientazioni, i rapporti tra i personaggi e i mondi in cui vivono, i nodi tematici del racconto. A una classificazione tassonomica del racconto, i giapponesi preferiscono, con apprezzabile sfrontatezza commerciale, l’identificazione precisa del sesso e dell’età dei lettori.
Gantz era un seinen, cioè un manga rivolto a post-adolescenti maschi o, come direbbero i commercialisti della lettura da queste parti, uno young adult. Inuyashiki, la nuova serie di Oku, si rivolge allo stesso pubblico di Gantz anche se, con scaltrezza, l’autore sposta il discorso altrove.
Il corpo di Inuyashiki, il protagonista del manga, è al centro del racconto. Un uomo che si prepara a entrare nella terza età con un corpo invecchiato male. Muovendosi goffamente, trascina le sue carni stanche in un mondo che lo emargina. È disprezzato dalla moglie e dai due figli che provano un imbarazzo tale per la decadenza del padre da indicarlo ai compagni di scuola come il nonno.
Ma quell’uomo merita rispetto. Indifferente alla fragilità del proprio involucro umano, viene mosso da una determinazione assoluta e da un profondo disprezzo per i soprusi. Dispiega il suo corpo piccolo e tremante di fronte a chiunque prevarichi, insulti o mostri prepotenza verso il più debole. Il corpo vacilla, ma gli occhi sono fermi e determinati. In quello sguardo si legge un fuoco di giustizia che io interpreto come zanshin.
Intanto i familiari di Inuyashiki esibiscono un’indifferenza così astiosa nei confronti del vecchio da lasciar capire che attendono con ansia il momento in cui il vecchio farà finalmente il favore di rimuovere la sua trascurabile presenza con un cortese decesso. Il corpo di Inuyashiki obbedisce agli stimoli esterni e, quasi a voler dare soddisfazione alla tacita richiesta, quel corpo matura un male terribile che condurrebbe l’uomo a morte certa e rapida, se non fosse per il fortunato intervento degli alieni pasticcioni che, dopo aver disintegrato quel corpo per errore, e si ritrovano a dovere rimediare.
Così inizia Inuyashiki, la storia di un Astroboy riluttante mosso da desiderio di giustizia e cazzimma.