In occasione dei 60 anni dalla nascita di Andrea Pazienza, che ricorrono il 23 maggio, Fumettologica dedica al fumettista una settimana di articoli, interviste, ricordi e approfondimenti. L’iniziativa si può seguire sui social tramite l’hashtag #pazweek.
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Le straordinarie avventure di Pentothal, prima grande opera compiuta di Andrea Pazienza, apparvero a puntate (dal ’77 all’81) su Alter Alter, il supplemento e spin-off di Linus nato con il nome di Alter Linus.
Il Pentothal, come forse alcuni sapranno, è un barbiturico ipnotico. Se siete abbastanza preparati in fumettologìa, potreste anche sapere che viene usato talvolta come siero della verità da Diabolik, per estorcere confessioni ai suoi nemici.
Sta di fatto che il Pentothal di Pazienza, al suo debutto, si presentò subito come una gigantesca – e stupefacente – confessione. Nella mitologia alimentata dagli ammiratori a partire dalla morte dell’autore in poi (suffragata anche da un episodio del film Paz!), Pentothal è in primo luogo un diario onirico del cruciale anno 1977 a Bologna, con tutte le sue implicazioni politiche e generazionali.
Come è ben noto, grazie alla rivelazione fatta da Oreste Del Buono nella storica introduzione all’edizione del 1982, Pazienza inserì all’“ultimo minuto” una diversa tavola conclusiva del primo capitolo, sconvolto dalla piega tragica che aveva preso l’inizialmente spensierata stagione del ’77 bolognese: in particolare, la morte dello studente di Lotta Continua Francesco Lorusso, ucciso l’11 marzo 1977 da un colpo d’arma di fuoco. Un evento gravissimo, che sancì una spaccatura drammatica tra i movimenti studenteschi e la sinistra istituzionale.
Nella tavola, Pazienza si ritrae sconvolto e sperduto («Tagliato fuori…Sono completamente tagliato fuori…») mentre ascolta l’invito della storica emittente Radio Alice ad un’assemblea urgente dopo l’uccisione del ragazzo. Questo il testo in calce, in cui l’autore spiega la decisione di modificare il finale (e il suo stato d’animo), scritto 5 giorni dopo la morte di Lorusso, e ormai citato in qualsiasi riflessione su Pentothal:
Mentre lavoravo a queste tavole, nel mese di febbraio ’77, ero convinto di disegnare uno sprazzo, sbagliando clamorosamente perché invece era un inizio. Ne avessi avuto il sentore, avrei aspettato e disegnato questo bel marzo. Così mi ritrovo di colpo a non sapere più cosa fare. Ho già consegnato tutto il materiale a Linus venti giorni fa ma – Cristo – sono cambiate tante cose nel frattempo e tante altre cambieranno fino al giorno in cui il fumetto sarà pubblicato che mi sento male e mi do’ del coglione per non averci pensato.
Cioè disegnare fumetti non è come scrivere per un quotidiano, se capite cosa intendo. Allora disegno questa tavola qui e provo a portarla a Linus in sostituzione dell’ultima pagina originale sperando di fare in tempo. L’ultima tavola originale aveva in fondo al posto di “fine” di prassi, un “allora è la fine” che suona decisamente male. Madonna vi giuro! Credevo fosse uno sprazzo ed era invece un inizio. Evviva!
Pur riconoscendo l’importanza di Pentothal come testimonianza di quella breve, esaltante e fallimentare stagione di protesta generazionale, sarebbe davvero limitante confinare il libro a documento sociologico. Siamo di fronte all’irruzione violenta di un genio nella storia del fumetto mondiale, che reclama da subito a gran voce attenzione e ammirazione.
Per quanto l’opera sia giovanile (le prime, celebri tavole le disegnò a 21 anni, le ultime a 25), e risenta a volte di alcune ingenuità post-adolescenziali, nel complesso Pazienza s’impone già come un autore maturo, consapevole dei propri straordinari mezzi tecnici, che riversa senza alcuna esitazione la propria “poetica traboccante” (secondo una definizione critica che disse di apprezzare molto) al cospetto del lettore.
Tutti i grandi trucchi scenici, tutte le prodigiose qualità del magistero di Paz sono sfrontatamente ostentate fin dall’inizio: la spettacolare duttilità tecnica, la grande abilità registica in grado di raccontare sinteticamente diversi piani di coscienza nella stessa tavola, la tendenza all’affresco onirico, le gag improvvise che spezzano con una detonazione comica una torrenziale confessione di depressione tossica, la parodia costante di diversi stili mescolata a momenti di commovente autenticità.
Pazienza non ha timore (alla prima opera!) di sfidare il gigante Moebius sul suo terreno, riconosce e sfotte l’autorità intellettuale di Umberto Eco, cita disinvoltamente Crumb e Shelton come comparse della propria formazione, assorbe, elabora e supera infiniti stimoli, suggestioni, citazioni: dal western a Bob Dylan, da Cortazar a Cervantes, dal noir alla grande empatia con gli scrittori beatnik, fino all’apparizione, già in luce eroica, dei protagonisti di Cannibale, la triade Tamburini – Liberatore – Scozzari.
Un’opera nella cui esplosione creativa sono presenti, in nuce, tutti i grandi temi del genio di Pazienza, che andranno di volta in volta a mescolarsi e combinarsi originalmente nelle successive pietre miliari: il cinismo amorale e luciferino di Zanardi; il non-sense corrosivo e liberatorio di Perché Pippo sembra uno sballato?; l’insofferenza per gabbie e scadenze e la comicità surreale de La Leggenda di Italianino Liberatore; la sperimentazione continua e la versatilità poliedrica de Il Libro Rosso del Male; la narrazione libera ed esuberante di Sturiellet; la dolente, tragica introspezione esistenziale di Pompeo.
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Pentothal è l’ingresso in società oltraggioso e affascinante di un autore immenso, in grado (per forma mentis e per dono artistico naturale) di rappresentare nella sua carriera, come un Dante sotto benzedrina, tutte le sfumature dell’animo umano: dall’immoralità assoluta di Zanardi che induce un rivale con l’inganno ad uno stupro incestuoso, fino alla grazia innocente delle Favole, in particolare la meravigliosa A che serve un perepè?, che sembra scritta a quattro mani da Oscar Wilde e Totò. Un esordio sconvolgente per talento, intuizioni geniali, libertà espressiva, perenne dialettica tra violenza e parodia, che, nel suo essere un magnifico delirante monologo interiore (sospeso tra titanismo e autoironia), ricorda la visionarietà di un altro suo genio conterraneo, Carmelo Bene, nel suo esordio letterario/cinematografico Nostra Signora dei Turchi. E non sembri un accostamento peregrino: si racconta che Pazienza mentre disegnava era solito ascoltare Bene che recitava i poeti russi (i due si incontrarono, peraltro).
Una citazione, in particolare, appare figlia dell’ascolto reiterato di Bene che recita Majakovskij: la celebre tavola in cui il protagonista guarda il lettore e dice: «E ringrazia che ci sono io che sono una moltitudine». Andrea Pazienza è stato molto (bravo, inaffidabile, irrequieto, generoso), ma anche molti: Andrea, Paz, Pentothal, Pompeo. In quella sorprendente e tormentata confessione con cui si presentò al pubblico linusiano, oggi possiamo riconoscere un po’ di quel “tutto” molteplice che Andrea pazienza è stato. Forse. Quel che è certo è che Pentothal rimane ancora oggi una lettura affascinante non solo come testimonianza di un’epoca, ma come vera e propria espressione vulcanica di un istrione del fumetto.