L’ombra e il baleno. Il fumetto e l’elaborazione (impossibile) del lutto

Continuo auditae voces vagitus et ingens
infantumque animae flentes, in limine primo
quos dulcis vitae exsortis et ab ubere raptos
abstulit atra dies et funere mersit acerbo;
hos iuxta falso damnati crimine mortis.
(Virgilio, Eneide, VI, 426-430)

Molto più dolorose del famosissimo (perché insegnato a memoria e quindi banalizzato in tutto il primo ciclo della scuola italiana) Pianto Antico, sono le parole di un breve passo della lettera che Giosuè Carducci scrisse, il 14 novembre 1870, al suo fraterno amico Ferdinando Cristiani. Pochi giorni prima, il 9 novembre, il poeta ha perso, a causa di una febbre tifoide, il figlio di tre anni Dante. Il suo incontenibile dolore traspare tutto in quelle poche righe: “no, non è vero che è meglio che sia morto: me lo volevo crescere e educare a modo mio, doveva sentire, pensare, lottare anche lui per il bene e per il vero. No, no: scambiare in sul primo entrar nella vita l’avvenire dell’esistenza per l’oscurità del non essere non è bene…”.

In questa riflessione straziata Carducci dà, molto più che nelle sue poesie, l’esatta descrizione di quale sia la necessità dell’elaborazione del lutto per la morte di un figlio. Quella di un figlio è la morte che non permette accomodamenti alla situazione come, invece, quella di un anziano genitore. Un bellissimo esempio di come viene costruito questo accomodamento per la morte dei genitori, lo si può leggere in Cambiamo argomento, per favore di Roz Chast, appena uscito per Rizzoli Lizard.

La morte di un figlio invece spezza senza possibilità quel concetto di circolarità della vita (splendidamente raccontato da Pedro Almodovar in Tutto su mia madre) che, come scrive Carducci, passa senza soluzione di continuità dal genitore al figlio. La morte prematura di un figlio rompe brutalmente questo cerchio e richiede una profonda ristrutturazione del mondo in cui il genitore superstite deve continuare a vivere. Non è facile. Ogni genitore sopravvissuto è solo, e da solo deve risolvere questa lacerazione… non è un caso, ad esempio, che il titolo originale del bellissimo film di Felix Van Groeninger (banalizzato, al solito, dai traduttori italiani in Alabama Monroe, una storia d’amore) nel quale affronta lucidamente e senza concessioni l’individuale e straziante percorso di ristrutturazione della realtà sociale operato da due genitori separatisi alla morte della figlia seienne, sia The broken circle break down (il titolo originale di Van Groeninger).

Lo storico Michel Vovelle adottò, nella sua fondamentale opera d’indagine storiografica sull’idea della morte in occidente (La morte e l’occidente. Dal 1300 ai giorni nostri, Laterza) un metodo verticale: dalle strutture sociali dei vari periodi storici risalì alla costruzione ideologica del concetto di morte. Ricostruì così storicamente il fatto biologico (cioè la morte subita), l’incidenza di questo fatto biologico sulla società, sulle sue strutture e organizzazioni (la morte vissuta), e l’elaborazione intellettuale costruita sul fatto biologico (il discorso sulla morte). In una specie di circolarità, il discorso elaborato sulla morte serve alla società per organizzare le proprie strutture toccate dal fatto biologico, e agli individui per superare il cordoglio ed elaborare il lutto.

Questo nella, diciamo, normalità della morte per sopraggiunti limiti d’età. Ma la morte di un figlio, come ci ha dimostrato Carducci, è un momento di crisi dirompente in questa circolarità. Per Gustav Mahler, di fronte alla morte infantile la nostra impotenza si rivela per quello che è, totale; nel caso della perdita di un figlio il lutto è uno stato irraggiungibile. Resta solo il cordoglio. Il discorso che si può fare serve a lenire questo cordoglio, infatti non c’è nessuna elaborazione del lutto nel suo splendido Kindertotenleder, solo un dolore ovattato. Perché la perdita di un figlio non può essere oggettualizzata attraverso il rito funebre. Non c’è in, questo caso, nessuna pragmatica del lutto. Può esserci solo narrazione del cordoglio.

rosalie lightning

Quando Claudio Calia mi ha convinto a leggere Rosalie Lightning di Tom Hart (appena pubblicato da Becco Giallo) ammetto di averlo fatto con un misto di accondiscendenza e di sospetto. Conoscevo e conosco assai poco di questo autore, e quel poco non mi è mai parso di particolare interesse. Invece. Mi ha colpito come un diretto in volto. E non solo per l’argomento: la morte improvvisa della figlioletta di due anni (argomento al quale, come genitore, sono oltremodo sensibile), ma soprattutto perché attraverso il tentativo di addomesticazione di un cordoglio inestinguibile, aggiunge un tassello (che non mi sembra irrilevante) alla riflessione sulla natura del fumetto. Mentre di libri, opere musicali, film ce n’è in abbondanza, non mi viene in mente un solo fumetto (sicuramente limite mio) che abbia trattato il tema della morte prematura dei figli. Eppure, come dimostra Hart, il fumetto è uno strumento incredibilmente potente per questo discorso.

Se il superamento del cordoglio e la sua trasformazione in lutto passa necessariamente dalla trasformazione dell’assenza del soggetto amato e defunto in presenza simbolica (lo spiegò bene Sigmund Freud, in Lutto e melanconia), il fumetto per sua natura di simulacro si presta perfettamente a questa funzione. Il fumetto permette a Hart di costruire un discorso molto sereno attorno al proprio cordoglio: la doppia valenza dell’immagine-fumetto di Rosalie, che si mantiene per tutto il volume in equilibrio tra l’assenza reale e la presenza del personaggio, apre come lampi moltissimi spiragli di elaborazione del lutto durante tutto l’arco della narrazione.

Ma anche questo equilibrio prima o poi è destinato a spezzarsi. Nemmeno la natura del fumetto regge a un simile dolore. Alla fine il simulacro (fumetto) si rivela per quello che è: solo un’immagine, per quanto vitale, della realtà. Un vuoto. Nonostante l’apparente serenità del finale, l’ombra torna, totale, dopo il baleno. E fa male.

Leggi l’anteprima di Rosalie Lightning